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venerdì 16 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/404. Cercare la gioia nell’alfabeto del mondo

  


La gioia dei bambini fuori da scuola è un termometro della normalità. Più implacabili di una sveglia, già dalle otto del mattino si affollano davanti all’ingresso e ridono, scherzano, si inseguono. I genitori hanno sempre visi tirati, vanno di fretta, si fermano solo nei bar a prendere un caffè nei tristi bicchierini di carta, in piedi davanti ai negozi, abbastanza distanziati. Le prove di vita quotidiana scivolano in un binario dove tutti vorremmo camminare, macché cambiati per sempre, tutti moriamo di tornare alla vita che facevamo prima della pandemia. O no? Il secondo binario è quello del virus che continua a fare il virus, cioè infettare il più alto numero di ospiti, replicarsi e mutare. Gli ospiti continuano a morire a centinaia ogni giorno qui da noi, a migliaia in altri paesi, come in Brasile. I numeri che ci vengono sciorinati ogni giorno soffrono di una distorsione temporale, e qualche volta anche con lo zampino degli umani che decidono di spalmare i deceduti per fare vedere che le cose stiano andando meglio di quanto non sia in realtà. Il terzo binario è quello dei vaccini, delle case farmaceutiche e dei piani vaccinali che non decollano. Terrore degli effetti collaterali, impegni presi maggiori rispetto alle effettive capacità di produzione, centinaia di migliaia di persone che non si prenotano o rimandano la vaccinazione perché non vogliono fare il vaccino che, sinora, ha avuto il più alto tasso di mortalità. I binari che ho brevemente descritto, ma ce ne sarebbero altri, corrono paralleli e risentono delle narrazioni mediatiche che ce li raccontano come se le cose fossero scollegate tra loro. La verità è il caos cui non riusciamo a dare né ordine né nome, e tutti continuiamo a navigare a vista. Ci sono poi persone come Natalia Aspesi, che sanno vivere nel presente e riescono a goderne anche se ha 92 anni e non sa quanto tempo le resti. È una donna formidabile lei ed è un esempio, per quanto mi riguarda, della capacità di avere cura di se stessi, un altro cammino all’interno dell’Alfabeto della Cura che tutti dovremmo intraprendere. Ha ragione lei, i tempi passati sono passati e lei non li rimpiange “perché non li ho perduti, li ho avuti. Non li ricordo ma ci sono stati e fanno parte anche del mio presente, di quello che sono”, come racconta a Mario Calabresi nell’intervista pubblicata oggi nel podcast Altre/Storie. Il tema della cura di sé è ancora più difficile da trattare di quello della cura degli altri e del mondo. Forse perché ci hanno insegnato, chi ha avuto un’educazione religiosa, che l’abnegazione e gli altri sono dei dettati morali che vengono prima di noi e delle nostre esigenze. Ma dimenticarsi di se stessi è nocivo quanto pensare solo a se stessi. Trovare l’equilibrio tra noi e il mondo è molto difficile, ma è anche il primo passo per imparare ad avere cura di noi stessi, anche con piccoli gesti e azioni nella vita quotidiana che diano un senso al nostro essere al mondo.

 

L’alfabeto del mondo parte con la lettera G

 

Raccolgo una piuma

azzurra, sembra che

il cielo sia stato strappato

e lasciato cadere proprio

per noi. Ritorno a casa,

preparo il caffè, scorro

l’alfabeto del mondo,

sfoglio la lettera G che

inizia con Gioia, la piuma

si agita, è passato quel

vento primaverile che

soffia da lontano, io

resto sospesa tra gli

spazi di questo mattino

e scrivo a voce bassa

queste parole.

 

 

Primo suggerimento dell’Alfabeto della Cura, che è strettamente connesso all’Alfabeto del Mondo: il mattino presto uscire a fare una passeggiata, raccogliere una piuma o un sasso o una foglia. Preparare il caffè, scrivere una poesia, un pensiero o una preghiera.

 

Questa è la Cronaca 404 di venerdì 16 aprile del secondo anno senza Carnevale, un giorno iniziato con gioia, termina con una gioia distesa che ci prepara al sonno notturno.

mercoledì 21 settembre 2016

Le poesie bussano alla porta del poeta

Le sue poesie trasmettono un'infinita libertà. Come nascono?
"Quelle di pochi versi arrivano da sole, bussano alla porta e io apro. Cammino, mi parlo nella mente, scrivo un paio di versi e correggo. Nelle poesie lunghe, come La patria, c'è un intero sistema di pensiero. Nelle brevi la concentrazione è immediata".

Quando una poesia è riuscita?
"Quando si muove. Deve attraversare un territorio. Può anche sembrare bella, ma se resta ferma nel suo tempo e nella sua idea, senza un prima e un dopo, è mezza morta. Che siano tre versi o 300, bisogna che accada qualcosa. Dev'esserci una sorpresa del pensiero. Un eros nella parola".

Lei dà sostanza poetica a

parole comuni, quotidiane.
"Non ci sono parole belle o brutte. Tutte sono stupende. Purché siano reali e pertinenti. Spesso le parole sono usate in modo orribile, e alcune vengono logorate dall'uso. Perciò bisogna aspettare che ritrovino un'innocenza".


frammenti dell'intervista di Leonetta Bentivoglio alla poetessa Patrizia Cavalli
Repubblica mercoledì 7 settembre 2016

mercoledì 13 gennaio 2016

Ispirarsi e cibarsi di altri scrittori prima di iniziare a scrivere

A otto anni da Olive Kitteridge, con il quale vinse il premio Pulitzer, e a meno di tre da I Fratelli Burgess, esce oggi negli Stati Uniti il nuovo romanzo di Elizabeth Strout, intitolato My name is Lucy Barton (in Italia uscirà a maggio tradotto da Einaudi). Il libro è stato preceduto da un’unanimità di critiche osannanti, che consacrano l’autrice del Maine come una delle voci più sincere e appassionanti dell’universo letterario contemporaneo. La finezza e la sensibilità con cui immortala ancora una volta ritratti indimenticabili di donne invita a interrogarsi se esista una letteratura prettamente femminile: in questo caso le protagoniste sono una madre e una figlia, riavvicinate
da una grave malattia. Nell'universo di Elizabeth Strout la condivisione, la confidenza e anche l’amore sembrano nascere unicamente attraverso il dolore, e anche i rapporti più intimi possono sopravvivere solo in virtù del perdono delle nostre debolezze. Da questa concezione scaturisce un sentimento nel quale la speranza si mescola alla malinconia, che rifiuta tuttavia il sentimentalismo: Claire Messud ha definito il romanzo sul New York Times, «potente, malinconico e squisito» e il Kirkus Review ha parlato di un libro «magistrale» e «pieno di poesia»
(...)

Esiste una scrittura squisitamente femminile?
«Molti non saranno d’accordo, ma io non penso affatto che sia così: un autore, maschio o femmina, quando è grande, è in grado di raccontare anche l’altro sesso. Io penso che le pagine di Alice Munro o Margaret Atwood siano semplicemente alta letteratura, e non parlerei di letteratura femminile ».

Direbbe lo stesso di Jane Austen?
«Riconosco che lei è forse un’eccezione: nel suo caso si sente in maniera prepotente lo sguardo femminile. Ma anche in quel caso vedo prima la grandissima autrice, poi il sesso».

Ci sono scrittrici che l’hanno ispirata?
«Certamente, ma anche scrittori: oltre alla Munro, faccio il nome di William Trevor, del quale mi sono cibata fin quando non mi sono sentita in grado di scrivere ».

Esistono autori che ammira, che trattano temi molto lontani dai suoi?
«Si molti, e voglio citare una donna: Elena Ferrante. Ne ho grande ammirazione, ma non potrebbe esistere autrice più diversa. E circola anche la voce che potrebbe essere in realtà un maschio ».

frammenti dell'intervista di Antonio Monda a Elizabeth Strout su Repubblica di oggi

domenica 10 gennaio 2016

Non riesco a scrivere cinque parole senza cambiarne sette

Come scrive le sue storie? Ne fa una prima stesura che poi riscrive più volte, oppure quale altro metodo segue?

Per scrivere una storia mi ci vogliono sei mesi. Ci rifletto a lungo e poi la scrivo frase per frase, senza nessuna prima stesura. Non riesco a scrivere cinque parole senza cambiarne sette.


dall'intervista di Marion Capron a Dorothy Parker per la Paris Review 1956
tradotta nel volume
The Paris review 
Interviste vol. 1
Fandango 2009

lunedì 26 gennaio 2015

La molla del mio scrivere non è il divertimento: è la necessità

«Potrei dire: scrivere mi diverte. Ma non basta. Se io dicessi: mia moglie mi piace, direi la cosa sbagliata. La frase giusta è: amo mia moglie. Amore. 
Così è per la scrittura. 
Non è il divertimento la molla. 
È la necessità. 
Scrivere coinvolge l’intero mio essere»

frammento dell'intervista di Giancarlo De Cataldo a Ken Follet
Repubblica domenica 25 gennaio 2015

venerdì 20 giugno 2014

Il miglior allenamento per scrivere? Leggere, leggere, leggere

D: Come sceglie le parole? 
W.F.: Nella foga di buttarle giù ne vengono fuori molte. Se ci torni sopra, ci lavori e suonano ancora vere allora lasciale.  

D: In Le palme selvagge la tecnica che usa è automatica? Se è così, perché?  
W.F.: Ho usato quella tecnica semplicemente come un espediente automatico per dare forma alla storia che volevo raccontare, la storia di due diversi tipi di amore. Un uomo che rinuncia a tutto per amore di una donna e un altro che rinuncia a tutto per fuggire dall’amore.  

D: Che cosa sa del libro che verrà fuori prima di iniziare a scriverlo?  
W.F.: Molto poco. Semplicemente comincio a scrivere. Il personaggio si sviluppa insieme al libro e il libro si sviluppa scrivendolo. [...] 

D: Come trova il tempo per entrare in un’atmosfera e in uno stato d’animo che conciliano la scrittura?  
W.F.: Bisogna sempre trovare il tempo per scrivere. Chiunque dica che non ha tempo vive in una finzione. Da questo deriva l’ispirazione. Non aspettare. Quando hai un’ispirazione buttala giù in fretta. Prima la butti giù più forte sarà l’immagine. Non aspettare che passi per cercare di ricatturarne la sensazione e il colore.  

D: Qual è il miglior allenamento per scrivere? Corsi, esperienza, o cosa?  
W.F.: Leggere, leggere, leggere. Leggere tutto – robaccia, classici, buoni e cattivi, e vedere come fanno. Come un falegname che lavora come apprendista e studia il maestro. Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, buttate tutto dalla finestra.  

D: Va bene copiare uno stile?  
W.F.: No. Se avete qualcosa da dire, usate il vostro stile. Sarà la storia a scegliere il suo stile narrativo. Quello che vi piace si manifesterà attraverso lo stile. [...] 

Frammenti delle interviste a William Faulkner  contenute nel volume
Il gioco dell’apprendista. Dieci interviste con William Faulkner
Traduzione di Giulia Rossi
Medusa 2014

In libreria da oggi 20 giugno

martedì 17 giugno 2014

C'è un ordine segreto. I libri non puoi metterli a caso

Ho imparato ad amare i libri. Oggi mi sorprendo a volte a spostarli nella mia biblioteca. 

Perché? 
Perché c'è un ordine segreto. I libri non puoi metterli a caso. L'altro giorno ho riposto Cervantes accanto a Tolstoj. E ho pensato: se vicino ad Anna Karenina c' è Don Chisciotte, di sicuro quest'ultimo farà di tutto per salvarla.

frammento dell'intervista di Antonio Gnoli al regista Ettore Scola
Repubblica 13 gennaio 2013

sabato 24 maggio 2014

La poesia e il dolore, l'amore e l'attesa

Suzanne Vega è tornata dopo sette anni di silenzio con Tales From The Realm of the Queen of Pentacles per descrivere un interregno tra materia e spirito, dove in fondo abita, cercando di osservare il mondo con occhio poetico, colpita dall'esoterismo dei tarocchi come dalla realtà delle strade di New York.
(...)

È laureata in letteratura, figlia dello scrittore portoricano Ed Vega. 
La poesia le dà sollievo?
È doloroso scriverla ma trasforma la pena in qualcosa di tangibile, talvolta bello.
(...)
Il nero è il mio colore preferito. Estremo, sensuale, misterioso, è un segreto.

A proposito di segreto. Suo marito le ha chiesto la mano nel 1983, lei ha accettato nel 2005. È l'attesa il segreto dell'amore?
No, è riconoscere cosa sia l'amore. Ovvero quando qualcuno si prende i tuoi fardelli come se fossero i suoi e le vite si intrecciano profondamente. Il fatto è che ci vuole tanto tempo per capirlo.

frammenti dell'intervista di Simona Orlando a Suzanne Vega.
Il Messaggero sabato 24 maggio 2014

sabato 10 maggio 2014

Scrivere è abitare in una casa di poche stanza buie

Quali notizie arrivano dalle tenebre, per un narratore?

Joe Lansdale: Arrivano il mistero e l'ombra che sempre ci accompagna. Io vivo in un luogo boscoso, pieno di alberi e acque: le paludi e i nascondigli riflettono il mio modo di vedere e scrivere. Le tenebre ci attirano verso quello che è coperto, compresi i delitti: lì dentro si agitano le cose da raccontare.

Niccolò Ammaniti: Nel buio nascono le nostre ossessioni, quelle che non comunichiamo mai agli altri. Il buio è solo nostro e per uno scrittore è prezioso, spesso dà forma all'ossatura dei personaggi.

(...)

Joe Lansdale: Vale sempre la vecchia regola: scrivi solo di ciò che conosci, il tuo mondo è il tuo luogo. Il lavoro riflette l'interno e l'esterno di me, due visioni che si nutrono una con l'altra.
(...)
La casa della mia scrittura ha pochissime stanze soltanto buie, anche negli angoli più profondi risuona una risata che li rischiara. Io entro ed esco dalla luce.

Spesso, i vostri personaggi vanno all'involontaria scoperta di qualcosa di tremendo. Soltanto una coincidenza?

Joe Lansdale: Chi scrive cerca sempre di indagare il mistero che siamo: questo fa ridere e fa soffrire. Ma io non ho presente nessun percorso mentre creo la storia. Aveva ragione Catullo, non si vede mai il confine perché il confine si espande di continuo...
(...)
Come diceva Somerset Maugham, il romanzo è il modo più facile di scrivere un racconto. Perché il racconto è breve, richiede più precisione, invece il romanzo si espande, a volte va dove vuole.
(...)
Scrivere costa fatica, io lo faccio per tre ore tutte le mattine, così mi tolgo il pensiero e poi m'occupo d'altro. Scrivo come sotto dettatura dei sogni notturni. E quando chiudo la sessione con tre o cinque pagine all'attivo, sono beato come un bambino.

Niccolò Ammaniti: Vorrei diventare metodico come Joe, invece non faccio niente tutto il giorno e scrivo solo quando la necessità assoluta mi spinge...

frammenti della conversazione di Maurizio Crosetti con Joe Lansdale e Niccolò Ammaniti su Repubblica di oggi, sabato 10 maggio 2014
in occasione dell'uscita di Notizie dalle tenebre, traduzione di Luca Briasco, Einaudi 2014 

venerdì 2 maggio 2014

L'arte è armonia tra ragione ed emozioni

La bellezza non è un'ospite d'eccezione. Abita da sempre nel nostro cervello: parola di Jean-Pierre Changeux, maestro delle neuroscienze cresciuto in quella fabbrica di mitici ricercatori come Jacques Monod e Francois Jacob che è l'Institut Pasteur e autore del saggio cult L'uomo neuronale. Da anni il grande scienziato dedica un'illuminante passione ai rapporti tra la creazione-percezione artistica e i complessi meccanismi cerebrali che impegnano dieci miliardi di cellule, divisi tra il lobo destro (che consente la visione) e quello sinistro (che permette il linguaggio). Sulla neuroestetica ha scritto Ragione e piacere e, recentemente, Il bello, il buono, il vero (per Raffaello Cortina Editore) in cui con sapienza encliclopedica mette a confronto scienza, filosofia, arte, letteratura, religione.
(...)

Professor Changeux, perché siamo attratti da un'opera d'arte, ci piace, ne riconosciamo l'importanza?
Perché l'artista ha sviluppato un processo di empatia on chi osserva la sa creazione. L'empatia è riconoscere gli stati mentali dell'altro: devo capire se l'altra persona è felice o infelice.....
(...)

Braque diceva "Amo la regola che corregge l'emozione". Pierre Boulez ha sostenuto il contrario. Con chi si trova d'accordo?
(Sorride). E' importante che ci siano sia la regola che l'emozione. Ci sono artisti più emotivi e altri più razionali. Per me la giusta definizione di opera d'arte è data dall'armonia tra ragione ed emozioni.

frammenti dell'intervista di Massimo Di Forti a Jean-Pierre Changeux 
Il Messaggero giovedì 1 maggio 2014

venerdì 18 aprile 2014

Creare significa trasmettere bellezza e gioia

La passione per il design lo assale durante l’adolescenza, a Hiroshima, la città in cui è nato, la città della bomba. Quando viene sganciata, 6 agosto 1945, lui ha sette anni. Sua madre ne morirà tre anni dopo e come lei altri suoi famigliari. L’unica volta in cui Miyake ha riaperto pubblicamente quella ferita è stata nel 2009, in una lettera al presidente Obama pubblicata dal New York Times:
“...Ero un bambino. Ancora oggi quando chiudo gli occhi vedo cose che a nessuno dovrebbe essere consentito di vedere. Ricordo tutto. Anche per questo nella mia vita ho preferito occuparmi di cose che potessero essere create, e non distrutte, e che potessero portare gioia, e bellezza...”.
(...)

Prima di salutarci gli chiedo quali consigli darebbe a un giovane designer. «Non pensare solo con la propria testa ma confrontarsi con chi lavora nelle aziende. Essere curiosi, osservare la natura, visitare mostre di arte e architettura. Ma, soprattutto, consiglierei di interessarsi alle persone: il designer ha una grande responsabilità sociale, dovrebbe pensare attentamente a ciò che la gente desidera per fare in modo che il suo stile sia compreso e infine usato». Socchiude gli occhi e, come se per un attimo tornasse con la memoria alle cose terribili che a nessuno dovrebbe essere consentito di vedere, ci congeda con queste parole e con un sorriso: «In fondo ciò che dobbiamo fare è solo trasmettere bellezza, gioia e — magari
— anche un po’ di comodità».

frammenti dell'intervista su Repubblica 13 aprile 2014 che Lorenza Pignatti ha fatto al designer Issey Miyake

mercoledì 16 aprile 2014

Leggere è imparare a riconoscere il ritmo di ogni scrittore

La sedia preferisce non usarla. Si toglie la giacca e rimane in maniche di camicia. Si guarda intorno, controlla che tutti abbiano preso posto e dice: «Scusate, ma Céline è un autore che si legge in piedi». Fuori la gente
passeggia nelle vie intorno a piazza Montecitorio, godendosi il primo assaggio della primavera romana. Dentro, all'interno della libreria Arion, c’è Alessio Dimartino, professione scrittore. Oggi però non è qui per promuovere il suo nuovo libro (C’è posto per gli indianiGiulio Perrone editore) ma per tenere una lezione di lettura. Ha scelto di farlo attraverso la Trilogia del Nord di Céline. Scelta non facile. Eppure la sala si riempie. Una quarantina di persone, soprattutto donne, aspettano che questo strano insegnante con orecchino e jeans rompa il ghiaccio.

«OGNI scrittore ha il proprio ritmo. La lettura di Céline è una corsa a scatti che toglie il fiato e lascia con l’affanno. Céline non è certo un maratoneta. Per leggere queste pagine bisogna ingaggiare un corpo a corpo con il testo»

(..)

«Troppi stimoli, troppe sollecitazioni», dice Paolo Di Paolo
«I librai tradizionali stanno sparendo e c’è un forte disorientamento collettivo, serve qualcuno che indichi la via. Le scuole di lettura, a differenza di aNobii o altri social network, possono funzionare da palestra, mettendo a disposizione un lettore più esperto che faccia da allenatore». 
E se i corsi di scrittura pompano i muscoli del narcisismo, queste sono palestre di umiltà, in cui l’ego va messo da parte per disporsi all'ascolto. D’altra parte il piacere della lettura è tutt'altro che istintivo. Ha bisogno di guide, va educato. 
Tullio De Mauro, la cui lezione alla scuola Orlando è prevista per il 24 maggio, spiega: 
«Scrivere e leggere non appartengono all'immediatezza naturale. Sono possibilità che alcuni popoli hanno cominciato a sviluppare da alcune migliaia di anni e che si sono andate generalizzando soltanto negli ultimi secoli. Si impara a leggere quando si prova il bisogno di uscire dalla pura sopravvivenza».

A Roma lo scrittore Paolo Di Paolo ha fondato la scuola di lettura "Orlando". 
Questi sono alcuni frammenti dell'intervista che gli ha fatto Raffaella De Santis su Repubblica del 14 aprile 2014

martedì 15 aprile 2014

Sei tu lo scrittore, e allora tuo compito è narrare

Tempo di bilanci e di cambiamenti. Pochi mesi fa ha lasciato Arad, la città nel deserto, dove tutti i giorni all'alba faceva una passeggiata tra i sassi e le sabbie e si è trasferito nella mondana ed effimera Tel Aviv. Così può stare vicino ai suoi quattro nipoti. Dal grande, luminoso soggiorno della nuova casa, in cima a un anonimo edificio di dodici piani, si intravede il mare.
(…)

Perché ha deciso di diventare invece uno scrittore?
«Non l’ho deciso. Fin da quando avevo cinque anni, l’unica cosa che sapevo fare era narrare storie; ed era anche l’unico modo per far la corte alla ragazze. Probabilmente questa è anche la ragione per cui continuo a scrivere».

Lei dice che il compromesso, in politica e anche nella quotidianità familiare, è la chiave per vivere decentemente. Però la sua scrittura è radicale. Usa le parole in una maniera spesso brutale. Nella scrittura non esiste alcun limite?
«C’è un limite, dato dalla lingua. Ci sono cose percui la lingua non è adeguata. La settimana scorsa, per due giorni ho cercato la parola giusta per nominare
un profumo. Ma nessuna lingua comprende tutta la gamma di profumi. Quindi, alla fine ho adottato un compromesso, ho usato una parola che non
corrispondeva esattamente alla mia sensazione».

Una volta disse che quando descrive un protagonista, ne condivide tutto: gioie, dolori, rabbie. Non ha mai paura di esprimere certi pensieri o sentimenti?
«No. Ma ho sempre paura di non essere preciso a sufficienza. E confesso che non sono capace di scrivere di persone che odio. Però vorrei raccontarle una storiella. Cinquant'anni fa, in Michael mio raccontavo la vita di una donna in prima persona,  come se io fossi questa donna. Avevo 24 anni e pensavo di sapere tutto delle donne. Oggi non avrei osato fare una cosa simile. Oggi avrei detto alla protagonista Hannah Gonen: mi dispiace, questa cosa non la posso scrivere. Lei mi avrebbe risposto: sta zitto e scrivi. Le avrei detto: decido io, dato che sei tu la protagonista di un mio libro e non io il protagonista del tuo libro. Lei avrebbe risposto: sei tu lo scrittore, e allora tuo compito è narrare le mie sensazioni ed emozioni. Le avrei detto: insisto, io non lo posso fare, rivolgiti a qualcun altro»

frammenti dell'intervista di Wlodek Goldkorn ad Amos Oz
Repubblica di oggi martedì 15 aprile 2014

sabato 29 marzo 2014

La parola scritta è la mia finestra sulla libertà


Ho imparato a leggere a tre  anni. La nostra casa londinese era piena di libri, 
ammucchiati ovunque.  Alcune colonne erano più  alte di me. Iniziare a sfogliarli è stato naturale.  Mia madre mi ha insegnato a capirli, era una  professoressa d’inglese. Da allora la parola  scritta è diventata la mia finestra sulla libertà. 
Lo strumento che mi ha avvicinato al teatro,  che mi ha consentito di abbandonare il mio  corpo e i miei complessi, che mi ha permesso di  vivere e raccontare altre vite. 

incipit dell'intervista di Arianna Finos all'attrice Emily Watson su
Repubblica di oggi

venerdì 21 marzo 2014

Gli scrittori hanno una strana capacità di entrare nella vita degli altri

Quando è venuta (in Italia) l’ultima volta?
«Un paio di anni fa. Adesso non posso più affrontare viaggi lunghi. Ma ho visto il mondo, e le persone. E si può viaggiare anche leggendo, sia nello spazio che nel tempo. È questa la meraviglia della lettura: consente un’esperienza del mondo e di molte, molte vite. Ci informa: i romanzi e la poesia ci fanno conoscere lo spirito umano».

La meraviglia di cui parla ha bisogno di essere vissuta da chi scrive? O è sempre possibile, come a Jane Austen, descrivere perfettamente l’animo altrui pur con una conoscenza relativamente limitata del mondo?
«Certo, una qualche esperienza ci deve essere. Ma poi noi scrittori abbiamo
una strana capacità di entrare nella vita degli altri. Una capacità empatica.
È una dote che abbiamo in maggior misura di altri, di chi non è scrittore.
Qualcosa che non so spiegare. Sappiamo avventurarci in terreni sconosciuti.
Come nel mio ultimo romanzo, Ora o mai più, pubblicato due anni fa — un
titolo che voleva significare che ogni tempo è unico — , cerchiamo di fare
uso della nostra capacità di penetrare la distanza. Di raggiungere universi
che stanno oltre il mondo di cui disponiamo. Attraverso la lettura riusciamo a sapere di più, a trovare il senso da dare alla nostra vita».

frammenti dell'intervista pubblicata su Repubblica il 20 marzo 2014 di Pietro Veronese a Nadine Gordimer in occasione dell'uscita della raccolta 

Racconti di una vita
traduzione di Grazia Gatti
Feltrinelli 2014

domenica 9 marzo 2014

Scrivere è non usare mai una parola in più del dovuto

È nella natura di molti uomini sfuggire le responsabilità. Lo cantava anche lei: uomini sempre poco allineati, li puoi chiamare ai numeri di ieri se nella notte non li avranno cambiati.
«In effetti il libro assomiglia molto a quella canzone. Sono scappato per anni anch'io».

Da che cosa?
«Da tutto: sentimenti, responsabilità, amore».

Il lavoro, qualsiasi lavoro, può essere un alibi perfetto.
«Lo è. Ma solo fino a quando pensi di non avere abbastanza tempo per occuparti di entrambe le cose».

E lei lo pensava?
«L'ho pensato per vent'anni, poi ho iniziato a capire che abbiamo tempo, c'è tempo per tutto. Ma bisogna capirlo prima di diventare degli assenti perenni».

Assenti per chi?
«Per gli altri. Che cosa puoi raccontare agli altri se ti sei chiuso in un mondo in cui la vita vera non entra mai? Un mondo solo di ego e di gente che parla di se stessa? Ripeto, mi annoierebbe a morte parlare di me, il libro non parla di me».

La letteratura dovrebbe parlare in modo universale raccontando nel modo migliore possibile una questione evidente per tutti. È d'accordo?
«Sono più che d'accordo. Prendiamo il maestro della sintesi: Simenon. L'ho letto quasi tutto. Non c'è mai una parola in più del dovuto, eppure si ha l'impressione dopo aver letto 100 pagine di averne lette 300. È un condensato, è l'uomo più meravigliosamente sintetico e completo che io conosca».

Racchiudere un'idea in poche parole è una questione che lei dovrebbe conoscere bene.
«Ci ho combattuto una vita limando le strofe delle canzoni. Meno parole possibili per dire una cosa il più esattamente possibile. Il mio ideale sarebbe stato scrivere delle canzoni come degli haiku. Pensi che meraviglia: la sintesi assoluta più la sincerità assoluta degli intenti».

C'è riuscito spesso. «Quello che faccio è cercare il tuo amore fino nel cuore delle montagne». Un haiku, quasi un salmo. 
«Non lo avevo pensato in quei termini ma in effetti è un'interpretazione».


frammenti dell'intervista su Repubblica del 4 marzo 2014 di Dario Olivero a Ivano Fossati in occasione dell'uscita del suo primo romanzo

Tretrecinque
Einaudi 2014

lunedì 3 marzo 2014

Il noir è anche una scrittura scabra, povera

Prima Guerra Mondiale. A una manciata di giorni dall'armistizio due soldati francesi, Albert e Edouard si salvano la vita a vicenda, siglando un patto che durerà per sempre, nella buona e nella cattiva sorte, nelle azioni nobili e in quelle deprecabili, nella legalità e nella truffa. Questo l'avvio e io nocciolo del romanzo premio Goncourt 2013 Ci rivediamo lassù (Mondadori 2014). L'ha scritto Pierre Lemaitre, proveniente dal noir, sguardo sveglio e modi di fare niente o poco affettati. Il suo romanzo sembra aver rappacificato l'intrattenimento con la letteratura, come sono riusciti a fare pochissimi altri.
(...)

Hanno già detto che il suo è un romanzo popolare alla Dumas. Addio al modernismo, al Nouveau Roman, agli amici di Calvino?
Le sperimentazioni del Novecento hanno guardato più alle situazioni che ai personaggi. Quando mi dicono che ho scritto un grande romanzo d'appendice, un feuilleton, non m'offendo.

Qui in Italia spesso ci accapigliamo sulla definizione di noir. La sua definizione qual è?
Per me il noir è una scrittura anche scabra, anche povera, che non fa sconti rispetto alla miseria del mondo. Anzi, diventa una specie di cassa di risonanza dei conflitti sociali.

frammenti della recensione-intervista a Pierre Lemaitre di Luca Ricci
Il Messaggero giovedì 27 febbraio 2014

sabato 1 marzo 2014

Uno scrittore calmo, disciplinato, molto metodico

Leggeva molto?
"Moltissimo. Amava soprattutto William Shakespeare, Thomas Hardy, W. B. Yates, Robert Penn Warren. Pensi che da ragazzino, in Texas, vinse un premio di una biblioteca vicino alla sua cittadina natale, Clarksville, per esser stato l'utente che aveva consultato più libri in un anno".

E come scriveva Williams? Quali erano le sue abitudini?
"Era uno scrittore calmo, disciplinato, molto metodico. Odiava rivedere, modificare i suoi testi. In genere, cominciava a scrivere al mattino presto, dopo aver preso il caffè con me. Scriveva per tre-quattro ore, per produrre una pagina al giorno, a volte anche tre. Poi, a sera, rientrava nel suo studio per altre due-tre ore a pianificare la scrittura del giorno dopo. E poi c'era l'orto".

L'orto?
"Sì, aveva un enorme orto tutto suo, di circa 120 metri quadri. Quando aveva il "blocco dello scrittore", andava lì e lo curava un po'. Amava il giardinaggio perché per lui era mindless, una cosa meccanica, senza sforzi mentali".


frammenti dell'intervista di Antonello Guerrera a Nancy Gardner, moglie dello scrittore John Edward Williams autore del meraviglioso Stoner pubblicato da Fazi nel 2012
Repubblica 28 febbraio 2014

venerdì 28 febbraio 2014

La mia ispirazione si è nutrita anche di persone che non ho mai conosciuto

Una fotografia, un racconto. Per le otto storie che compongono Le volpi vengono di notte, lo spunto da cui parte lo scrittore olandese Cees Nooteboom è sempre un' immagine fotografica, maneggiata come fosse una madeleine. Non importa che le persone ritratte siano vicine all'autore o sconosciute: osservare l'istantanea e cercare di coglierne il significato vuol dire evocare la loro vita, decodificarne i segreti. Quello di chi guarda e racconta è però un atto secondario, una riflessione ad alta voce, e queste narrazioni somigliano molto a lettere d'addio. I personaggi sono per lo più fuoriusciti dal nord verso il sud Europa, e Nooteboom ne delinea i contorni a partire da simboli e gesti quotidiani, immergendosi nel recinto del loro passato e nel disastro delle loro vite, accompagnandoli pian piano verso la morte e talvolta oltre, perché, dice, 
«la narrativa è un mezzo potente, può riportare in vita anche i morti». 

Il punto di partenza è sempre la visualizzazione di una vecchia foto. Come mai? 
«La fotografia, specialmente quando il soggetto è un essere umano, esprime situazioni essenziali. Se si conoscono, le persone ritratte possono servire come una specie di promemoria. Se sono degli estranei, possono diventare l'innesco della finzione narrativa. La mia ispirazione si è nutrita anche di persone che non ho mai conosciuto».


frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Cees Nooteboom
Repubblica 27 marzo 2010 

mercoledì 26 febbraio 2014

L'impulso creativo abita tutti quanti noi

Qual è il valore che attribuisce alla metamorfosi? 
«Il mio è un discorso sul potere e sulla flessibilità che ha fantasia di portarci fuori dalle circostanze ordinarie della nostra vita, di trasportarci in luoghi in cui possiamo acquisire una prospettiva completamente diversa su chi siamo o sul senso delle nostre azioni. Il cambiamento, brutto o piacevole che sia, avviene attraverso il corpo, e come i botanici innestano le piante, cerco di produrre nuove forme di vita offrendole ai lettori». 

L'innesto è una metafora valida anche sul piano personale? 
«Sono figlia di operai e in più sono stata adottata. Uno dei motivi per cui mi hanno sempre affascinato le storie degli irregolari e dei loro istinti distruttivi è perché mi sentivo una fuori casta. Ho molto amato il personaggio di Heathcliff in Cime Tempestose: un ragazzo orfano che vuole essere accolto dalla società ma ne è rifiutato. Lo scrittore è del resto un escluso, un diverso persino, che tenta di ricondurre all'interno della società ciò che alla società è assolutamente necessario». 

In che modo definirebbe la creatività? 
«È qualcosa che dura ininterrottamente per tutta la vita. Dal bambino che fa uno scarabocchio a Picasso che crea un'opera d'arte... tutti gli esseri umani potrebbero essere degli artisti. Ad un certo punto la creatività ci viene portata via con la scusa che è soltanto per pochi. Non sono d' accordo. L'impulso creativo, che si presenta a diverse diluizioni e dosaggi, abita tutti quanti noi». 

frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Jeanette Winterson
Repubblica 19 marzo 2011