giovedì 27 febbraio 2025
Mattina di febbraio
sabato 7 maggio 2022
Cronache dagli anni senza Carnevale/790. Nel profumo del limone maturo noi siamo creature d’infanzia e di lontananza
Di che colore è la lontananza? Azzurra, azzurra mi
risponde la poetessa Anne mentre continua a vagare nella via nomade che l’ha
rapita per sempre. Esiste dunque un per sempre? Solo nella poesia, solo nella
letteratura mi dico. Una cosa accade, un amore inizia e inizia di nuovo e per
sempre. Una cosa finisce, finisce un amore e per sempre continuerà a finire,
per questo posso continuare a scriverti nell’azzurro delle lontananze. Posso poi
fermarmi sul limitare della sera e aspettare che le stelle inizino a brillare
per poter intessere anche il mio scialletto che diventerà così un manto regale.
E con le stelle mi fermerò a respirare la notte, a lasciare che tutto il tempo
scivoli nel tempo, come acqua che ritorna nel pozzo senza che nessuno se ne sia
dissetato. Così verremo trascinati verso le sorgenti del giorno e potremo
fermarci ad ascoltare il canto del merlo e scambiarlo per quello dell’allodola.
Così scrive Anne Perrier nel libro La via nomade:
Alzata prima dell’alba
getto al vento queste parole
manciata di semi dedicati
al mondo alato del giorno.
Per questo sabato di studio e di psicoanalisi ho scelto
come compagna la poesia di Anne Perrier e come mi parlano le sue poesie!
Così nelle pause leggo e rileggo questi versi brevi e
fulminanti e ne offro alcuni anche a voi lettori:
Nell’attimo in cui un limone maturo cade
sul palmo del giorno
i miei occhi ritrovano la freschezza
dell’infanzia.
Sì è proprio così, basta un limone e noi siamo creature d’infanzia
e di lontananza. Anche in questo sabato 7 maggio del terzo anno senza Carnevale
e del primo anno di guerra e questa Cronaca 790 profuma come un limone bello
grosso e succoso.
giovedì 31 marzo 2022
Cronache dagli anni senza Carnevale/753. Sul fondo delle mie palpebre vedo brillare una brace
Dopo la gita in un vivaio che ho fatto ieri
pomeriggio con le mie vicine di casa Lucrezia e Claudia, oggi abbiamo finito di
trapiantare quanto acquistato anche oggi: quattro piante di gelsomini, un’azalea
bianca, un ranuncolo bianco e rosso, una camelia invernale, due piantine di
basilico, una di salvia. È bello vedere come le piante cambino subito l’aspetto
e il tono anche di una vecchia casa di ringhiera. Le piante e i fiori fanno
bello tutto quanto le circonda, come se la loro semplicità e bellezza si
irradiassero sul mondo intero e lo trasformassero. Non so se i gelsomini
fioriranno e profumeranno già oggi, ma so già immaginare come sarà il loro
profumo, come sarà bello lasciarsi andare nelle sere d’estate, ascoltare anche
il canto sommesso dei grilli, sì ormai ce ne sono anche in città, e come i
suoni e i profumi mi riporteranno a lontane notte d’infanzia e di gioia, prima
che ogni giorno diventasse un piccolo naufragio. Vado a ripescare, su questa
immagine, un’altra poesia di René Char:
A occhi chiusi e nello sforzo di prendere
sonno,
vedo brillare, sul fondo delle mie palpebre,
una brace: è l’anima ostinata,
il relitto lampeggiante
del naufragio glorioso del mio giorno.
Non è magnifica questa immagine del naufragio
associata a quella della brace? È tutto un accendersi e spegnersi di immagini,
di ricordi, di sensazioni il nostro teatro notturno. Nelle notti fortunate ne
resteranno tracce, proprio quelle tracce che poi approdano a una poesia.
Oggi è giovedì 31 marzo del terzo anno
senza Carnevale e questa Cronaca 753 ha vesti rosse e arancioni, proprio come
il ranuncolo della fotografia.
venerdì 14 gennaio 2022
Cronache dagli anni senza Carnevale/677. La polvere dei sogni e le farfalle del giorno
Per scrivere questa Cronaca potrei iniziare a fare
commenti sull’idea bislacca di non dare più il bollettino giornaliero del
Covid, oppure quella bislacca, inglese of course, di non utilizzare più le
mascherine. O potrei commentare i fatti della notte di Capodanno a Milano, o
anche commentare l’autocandidato alla Presidenza della Repubblica. Potrei anche
scrivere qualcosa degli scrittori scomparsi in queste settimane – Gianni Celati,
Joan Didion, Vitaliano Trevisan - potrei, ma non voglio farlo. Anche se questo
mio appuntamento quotidiano dovrebbe essere una cronaca, preferisco quasi
sempre divagare, lasciarmi prendere da moti interiori, da favole, da ricordi, perché
in questa pagina sono libera di scrivere quel che mi pare. Ciò premesso, torno
a pensare a cosa scrivere oggi, potrei scrivere del sole così strano in
gennaio, potrei scrivere della stanchezza sociale che pervade nel profondo le
relazioni e le persone, dei frammenti di conversazioni che mi restano
aggrappate alle orecchie durante la passeggiata quotidiana. Potrei scrivere dei
libri che sto leggendo (già fatto), della mutevolezza del cielo (idem), della
fuga delle nuvole (già scritto, già scritto!), potrei ripercorrere sentieri già
battuti o cercarne altri, il mondo è pieno di strade inesplorate, ma non voglio
programmare niente oggi, voglio solo ciondolare da un libro all’altro, da una
storia all’altra.
Istruzioni per
continuare a volare
Forse è inutile cercare
un senso, forse non ha
senso progettare una
giornata, basta seguire
il telaio degli impegni e
poi scartare, all’improvviso,
proprio quando il giorno
non se lo aspetta e correre
incontro alla notte e alla
caduta felici come foglie.
Felici della gioia che brilla
nelle ore, in ogni singola
ora, come la polvere sulle
ali delle farfalle. Per questo
non bisogna staccare
i sogni dal giorno, perché
se lo facciamo non riusciamo
più a volare.
Una giornata lunga che finisce con l’ascolto e il
racconto condiviso di molti sogni, lontani nel tempo e anche recenti, un
ascolto guidato per me da una frase: “offrire la propria luce quando l’altro è
in ombra”, affermazione di cui ringrazio Giancarlo S.
Oggi è venerdì 14 gennaio del terzo anno senza Carnevale
e questa Cronaca 677 sta già sognando.
lunedì 20 settembre 2021
Cronache dagli anni senza Carnevale/561. Chiedo alla luce un nuovo fulgore
Quanti
movimenti deve fare l’occhio per cogliere proprio quel frammento di luce?
Quanti passi verso l’orizzonte per far sì che un paesaggio diventi parte di
noi? Quanti respiri all’unisono con il vento servono perché diventiamo aria
nell’aria?
Sono domande senza risposta o forse l’unica risposta è sempre la stessa: dipende.
Dipende
dalla stagione che ci circonda, dipende dal paesaggio, dalla nostra altezza, da
quanto siamo disposti a lasciarci sorprendere, a quanto desiderio di cambiare
abita in noi. Il respiro muta solo con un’intenzione precisa, quando sentiamo
il petto allargarsi e l’aria non essere più una minaccia che arriva
dall’esterno, ma una condizione necessaria a una vita più libera.
La
cosa importante di queste domande è che possiamo farle anche stando seduti in
poltrona a guardare il soffitto, o alla scrivania a cercare di scrivere un
nuovo racconto. Perché c’è sempre nella vita qualcosa che eccede le nostre
intenzioni, la sorpresa continua di essere vivi a ogni risveglio, di potersi
meravigliare alle minime variazioni della luce.
La
poesia si annida proprio tra queste pieghe minime del giorno nuovo, nel pieno
della luce meridiana e nei bagliori del sole che cede alla notte.
La poesia preferisce
i margini e le soglie
La tazza di tè è calda, il mattino
grigio
e non cerco ispirazione
nei
colori o nell’aroma che respiro.
Gli
attimi si dispongono nel giorno
come
note sullo spartito, ma è
ancora
troppo presto perché io
possa
cogliere questa nuova
melodia
e così, chiedo alla luce
un
nuovo fulgore, uno scarto
nell’armonia,
perché sono margini
e
soglie i luoghi dove la poesia
si
annida, dove posso fermarmi
e
invitarla a raggiungerci in
questa
pagina che era bianca.
Così
sta trascorrendo questa giornata, tra la luce e i suoi margini, tra la soglia e
l’occhio che la contempla. Perché la poesia è anche questa capacità di mutare la
cronaca di un giorno qualunque in un frammento di eternità.
Oggi
è lunedì 20 settembre del secondo anno senza Carnevale, un lunedì armonioso che
abbraccia questa Cronaca 561 e le sue parole appena scritte.
lunedì 31 maggio 2021
Cronache dagli anni senza Carnevale/449. Forme del tempo e tassonomia dei giorni
Tra le domande oziose e senza risposta intorno alle quali mi perdo a fantasticare, di sicuro una di quelle ricorrenti e preferite, è chiedermi dove vanno a finire le giornate finite, come se ogni giornata fosse un oggetto compiuto e archiviabile.
Ci sono i giorni-libro, ordinati, divisi in capitoli e paragrafi, hanno un indice e una copertina, è facile riporli negli scaffali della memoria e poi ritrovarli, perché sono giorni in cui qualcosa di memorabile è accaduto, qualcosa che ha dato senso al nostro vivere e che continua a darlo quando ce ne ricordiamo.
Ci sono i giorni-fili, sono quelli che il tempo ci lancia ogni mattina perché possiamo inserirli nella nostra tessitura, sono i giorni che non hanno tracce individuali, ma hanno un senso insieme agli altri fili cui sono accostati, non lasciano particolari ricordi, ma entrano a far parte della trama della nostra vita e la colorano.
Ci sono i giorni-onde tranquille, profumano di mirto e sale, i gabbiani gridano nell’aria e loro, i giorni, vanno e vengono, sono i giorni dove facciamo sempre le stesse cose, lavoro-casa-lavoro-famiglia-lavoro-amici-lavoro, sono giorni rassicuranti, senza sorprese e senza particolari fatiche, addirittura, forse con un po’ di noia. Questi giorni semplici entrano nell’ordito della nostra vita, ne sono l’impalcatura, la maggioranza di quelli che avremo vissuto e che solo per noi avranno avuto un senso.
Ci sono giorni-fuoco, non bruciano solo nel camino ma anche nel cielo e nei boschi, sono giorni che consumano tutta l’aria intorno, li viviamo a perdifiato perché siamo immersi in una nostra passione che, tanto ci consuma, tanto ci ravviva. Questo fuoco non si estingue e non troveremo cenere dov’è passato, ma diamanti grezzi da lavorare e argilla forgiata dalle fiamme, che ha preso forme inusuali, ma che a noi, proprio a noi parlano.
Ci sono giorni-seme che racchiudono nel fragile guscio tutta la promessa del futuro. L’importante è non tenerli in mano, ma farli sprofondare nella terra sino a quella che sarà la giusta distanza dal cielo. Lì, nel buio umido e profondo, i semi parleranno con le radici, diranno la loro paura, ma le radici racconteranno che il buio finirà anche per loro, che ci saranno anche tronchi, rami e foglie, per qualcuno fiori e poi frutti. Ci saranno i nidi tra questi rami e i canti degli uccellini, ci sarà il vento che andrà e tornerà seguendo quel cammino che è ignoto a chi non fa parte di questa trama.
Ci sono giorni-giorni che sono tutte queste cose insieme e anche altre che scriverò in un tempo futuro, mentre oggi, lunedì 31 maggio del secondo anno senza Carnevale, ancora non so che tipo di giorno sarà stato, me lo dirà lui stesso intorno a mezzanotte mentre la Cronaca 449 si sarà adagiata nell’amaca del tempo.
sabato 13 marzo 2021
Cronache dagli anni senza Carnevale/370: è salata l’aria, amara l’attesa e muto anche il mare
Sono andata in giro per la città con una rete a strascico
per acchiappare immagini e frammenti di conversazione. Quanti nomi sono rimasti
in questa rete, quanti germogli e quanti fiori. Potrei fare pagine e pagine di
elenchi ora. Ma per la memoria occorre poco, solo un’immagine, solo un profumo
nell’aria e un giorno molto più in là nello spazio tempo, tornerà questa
giornata, mi chiederò se davvero l’ho vissuta o se è stato solo un sogno, solo
un frammento di quell’altra realtà che abitiamo dietro gli occhi chiusi e il
respiro acquietato dalla notte. Posso anche giocare con i nomi, scambiarli di
posto, ma a nulla serve, perché l’acqua trascina il senso e la ragione proprio
dove devono essere e li impregna di poesia e l’acero soffia il passato verso la
fiamma che danza nel camino e la legna profuma, e il passato ritorna proprio
nelle narici.
Prima
della resurrezione
Arriva un’onda, il primo sogno
si infrange sulle rive del mattino.
Arriva un sogno, la prima onda
si infrange sulle rive della notte.
Tra il sogno e l’onda è passato
questo giorno e non abbiamo
raccolto né sassi, né conchiglie
e il buio scende e ancora non
abbiamo trovato un riparo
per i miei sogni e per le tue
onde. È salata l’aria, amara
l’attesa e buio questo buio
che aspetta un inciampo
prima della resurrezione.
Oggi ho incrociato una donna che stava raccontando di
avere fatto un fioretto sino a Pasqua: niente dolci, di nessun tipo. Era mezzo
secolo che non sentivo parlare di fioretti, rinunce, Quaresima e digiuni. C’è
un grande senso di futuro e di speranza nel periodo di Quaresima. Sappiamo cosa
accadrà, l’esito fatale del Venerdì Santo, così come conosciamo il senso della
Pasqua, il ritorno da quel luogo sconosciuto che tanto temiamo. Pasqua
significa Resurrezione, significa che il bene vincerà di nuovo sul male,
significa che la speranza sarà sempre più forte della paura.
Per questo posso lasciarmi andare allo sciabordio delle
onde che arriva dalla spiaggia e al crepitare della legna che arde nel fuoco. Non
sono solo rumori o suoni questi. Sono il canto del tempo che va e viene, che
ritorna e si allontana, poi torna, poi tace.
Questa è la Cronaca 370 e oggi è sabato 13 marzo del
secondo anno senza Carnevale, mia madre avrebbe compiuto 85 anni e ho sognato
che mi stava sorridendo. Prima della
Resurrezione è la quasi quotidiana poesia inedita che mi accompagna verso
la notte che viene.
martedì 16 febbraio 2021
Cronache dagli anni senza Carnevale/345: la neve muta i contorni delle betulle, solo il silenzio è sempre lo stesso
Facciamo sempre le stesse cose, eppure ogni giorno è diverso, eppure ogni giorno è uguale. Non siamo noi a stabilire l’ordito, è l’ordine del tempo a plasmarlo. Ma la trama è nostra, nostra la tessitura. Anche in spazi minimi e senza cielo, possiamo definire come saranno le ore del giorno e tirare i fili quando la sera sarà arrivata.
La
stagione chiara che sta arrivando
Cosa potremmo offrire a questo giorno
che ancora non abbiamo dato? Sue
sono le tre sillabe d’argento portate
dal mattino, sue sono le pietre che
ho deposto sulla riva del fiume e
suo è il vento che ci sfiora nel nostro
solito cammino. Ora che è sera è tempo
del fuoco diventare dono insieme alle
arance che risplendono sul tavolo, si
sentono i canti degli uccellini in fondo
al giardino. Ma forse è solo un sogno,
un desiderio per la stagione chiara che
sta arrivando.
La sera è l’ora dei libri, si accendono le luci nei punti
migliori per leggere, la casa ripiega le ali e si prepara alla notte. Non sempre
è un uccello migratore la mia casa. A volte è un veliero alla ricerca di un
nuovo approdo, a volte è una slitta che attraversa la tundra siberiana mentre
la neve cade e muta i contorni alle betulle. Solo il silenzio è sempre lo
stesso, sfiora il capo di ciascuno e dormono i pesci sul fondo del mare e il
gelo è una coperta ricamata, una quiete altissima avvolge ogni cosa, e noi
possiamo scendere in un libro e iniziare una vita diversa e nuova.
Oggi è martedì 16 febbraio del secondo anno senza
Carnevale. La stagione chiara che sta
arrivando è inedita e l’ho scritta per questa Cronaca 345.
giovedì 11 febbraio 2021
Cronache dagli anni senza Carnevale/340: i lampioni coricati e i matti della letteratura russa
Ci sono giorni in piedi, come questo che volge al termine. E ci sono giorni seduti, la maggior parte. E ci sono giorni sdraiati dove la pigrizia e il riposo prevalgono.
I giorni in piedi hanno confini segnati da lunghe
passeggiate il mattino molto presto, prima di lavorare e il tardo pomeriggio,
quando la luce scema e la notte torna nel suo ovile fatto di città e lampioni.
Oggi un lampione, nella via principale del mio quartiere,
ha iniziato a oscillare e inclinarsi, subito dopo che ci sono passata sotto con
mio nipote Marco, sino a che si è fermato formando un angolo ottuso con il
marciapiede. In diversi abbiamo chiamato il pronto intervento. Un uomo accorto,
ha deviato il flusso del traffico verso l’altra via percorribile. Tante persone
hanno continuato ad avvicinarsi e a guardare con il naso all’insù e a scattare
fotografie e girare video di quanto stava accadendo. Dopo un po’ sono arrivati
i vigili del fuoco e i vigili urbani, un cavo di sostegno è stato tagliato. Il traffico
impazzito a causa del blocco ha dato l’impressione che fossimo quasi a Natale. Ma
c’era il sole e l’aria era tiepida e non pensavo a niente se non all’oscillazione
di quel palo che stava cercando di coricarsi. Cosa potrebbe essere accaduto? A maggio
dell’anno scorso ci sono stati due blackout durati il primo cinque ore e il
secondo l’intera giornata nel corso della stessa settimana, sono stati fatti
scavi per cercare il guasto. Sotto quella via passa la metropolitana, sono
stati fatti scavi negli anni Sessanta del secolo scorso, ma il palo è molto più
recente. Nel vecchio quartiere della Maddalena, ora De Angeli, il fiume Olona
scorreva libero fino agli Trenta del Novecento. Ora è sotterrato, motivo per
cui Milano è una città senza fiume. Hanno scavato anche per costruire le
discese facilitate dai marciapiedi, tantissimi anni fa e, cercando in Rete, ho
scoperto che a dicembre del 2020 un altro palo dell’elettricità è caduto nella
via parallela a quella odierna e una donna è rimasta ferita. Cosa sta accadendo
nel sottosuolo? Qualcuno se ne sta interessando? Così la città non più
silenziosa affronta le piccole emergenze che ci riportano in una vita quasi
normale, se non fosse per le mascherine. Poi all’imbrunire sono andata a fare
un giro in Feltrinelli e ho comperato 3 copie di un libro che adoro e alla cui
realizzazione ho contribuito tra il 2019 e il 2020.
Il repertorio dei matti della letteratura russa, curato da Paolo Nori e pubblicato da Salani, raccoglie piccole storie, immagini e sogni tratti da romanzi e racconti russi. Il mio contributo sta in 6 frammenti presi dai racconti di Anton Cechov, storie tristi e allegre allo stesso tempo, ecco che ne scelgo una per chiudere le divagazioni quotidiane, una Cronaca tutta Cronaca, con la poesia chiusa in casa a meditare.
624. Il cappotto e
l’ombrello
Uno era un pope e aveva una fede tale che quando, in
tempo di
siccità, usciva per le campagne a chiedere la pioggia, si
portava
dietro l’ombrello da acqua e il cappotto di pelle, perché
sulla via
del ritorno la pioggia non lo inzuppasse.
Questa è la Cronaca 340 di giovedì 11 febbraio del
secondo anno senza Carnevale, anche se pare che da qualche parte lo si
festeggerà. Ma le notizie sulle mutazioni del virus, sembra che esista una
variante milanese, sono sconsolanti e il piano vaccinale va a rilento. E, a
meno che il virus non decida di ritirarsi a vita privata, continueremo a stare
lontani e a girare mascherati.
martedì 26 gennaio 2021
Cronache dall’anno senza Carnevale/324: l’oggi ha creduto in se stesso, oppure è caduto
Che relazione c’è tra l’artista e il suo tempo? E questo
tempo di pandemia come si mette in relazione con gli artisti?
Nel XXI° secolo si può continuare a essere artisti come lo si era nel XX°? Mi faccio questa domanda dopo aver letto che la giovane poetessa Amanda Gorman, la cui notorietà è esplosa il giorno dell’insediamento del nuovo Presidente americano, è stata messa sotto contratto da una nota agenzia di modelle, è molto bella quindi non è strano. Ma lei scrive poesie, è un’attivista politica, perché fare la modella?
Oggi ho condiviso, grazie all’Associazione Culturale “Apriti
Cielo”, una breve, ma non troppo, conversazione con alcune persone interessate
a sapere qualcosa di più delle poetesse americane Anne Sexton e Sylvia Plath. È
dagli anni Ottanta del secolo scorso che le leggo e le studio, ne scrivo –
sull’Enciclopedia delle donne ci sono le due voci dedicate a loro – mi
interrogo sulla loro voce poetica e sul loro destino di donne.
Il loro incontro avvenne nel gennaio del 1959 a un
workshop dedicato alla poesia tenuto dal padre della poesia confessional Robert Lowell alla Boston
University. Le due poetesse, non ancora famose ma già suicide, si riconobbero,
si fiutarono, si studiarono, condivisero ogni volta con l’amico George Starbuck
almeno tre Martini extra-dry, patatine fritte e lunghe conversazioni sui metodi
migliori per suicidarsi, come descrisse la Sexton in un ricordo scritto dopo la
morte della Plath,: «Spesso molto spesso, Sylvia e io riparlavamo dei nostri
primi tentativi di suicidio: molto, in dettaglio e in profondità fra una
patatina fritta e un’altra. Il suicidio, dopo tutto, è il contrario della
poesia. Sylvia ed io la vedevamo spesso in maniera opposta, ma parlavamo della
morte con ardente intensità, entrambe attratte da questa come le zanzare dalla
luce elettrica».
Finito il seminario si scrissero qualche volta ma non si
videro mai più. Ci sono brevi cenni sulla Sexton nei Diari della Plath;
sappiamo che quando venne a conoscenza del suo suicidio tre settimane dopo
l’accaduto, la Sexton si rammaricò che, anche quella volta, Sylvia fosse
arrivata prima di lei. C’è poi un blando scambio di lettere dove vengono scritte
opinioni sui libri pubblicati e sulla vita quotidiana. Coltivare patata e
allevare api sono due delle attività che impegnavano la Plath nella sua
fattoria nel Devonshire e che la Sexton riportò nella sua poesia La morte di Sylvia.
Entrambe avevano smascherato l’implacabile meccanismo del
Sogno Americano che le aveva imprigionate. Anche se Anne aveva vissuto con più
noncuranza e senza grandi obiettivi sino a quando non aveva scoperto che
scrivere sonetti le veniva spontaneo, e che scrivere la faceva stare meglio. Soprattutto
da quando era diventata madre e non sapeva fare fronte ai suoi doveri
genitoriali. Scrivere era l’unica cosa che le interessasse, ormai.
In un’intervista rilasciata alla Paris Review nell’agosto
del 1968 la Sexton ricorda così quel periodo: «Fino ai ventotto anni avevo una
specie di sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, ma
che passava il tempo a rimescolare besciamella e badare ai bambini. Non sapevo
di avere alcuna profondità creativa. Ero una vittima del Sogno Americano, il
sogno borghese della classe media. Tutto quello che volevo era un pezzettino di
vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che gli incubi, le visioni, i
demoni, sarebbero scomparsi se io vi avessi messo abbastanza amore nello
scacciarli. Mi stavo dannando l’anima nel condurre una vita convenzionale,
perché era quello per il quale ero stata educata, ed era quello che mio marito
si aspettava da me… Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto
anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi».
La Plath, invece, voleva essere tutto, brava figlia,
madre, moglie, poetessa, insegnante e scrittrice. Questi desideri folli vennero
meno quando andò a insegnare nella sua stessa università a Boston e scoprì che
l’insegnamento aveva bisogno di tempo e studio, tempo e studio sottratti alla
poesia.
Il loro fortunato incontro avvenne in un’epoca d’oro
della poesia americana e occidentale e quella piccola comunità di riferimento
fu fondamentale perché le loro radici si fortificassero. Per questo motivo sono
convinta anch’io che per gli artisti, per chi scrive soprattutto perché questa
è la mia arte, sia importante confrontarsi con altri poeti e scrittori, per
farsi da specchio reciproco e condividere le ossessioni e le passioni. Che i
primi lettori siano altre persone che scrivono aiuterà di sicuro nel portare
avanti la propria ricerca e i propri progetti prima di arrivare al più vasto
pubblico dei lettori.
Forse quando si scrivono solo romanzi questo passaggio è
meno complicato, più complicato lo è quando si scrive poesia. Che non è mettere
sulla carta le proprie emozioni, ma riuscire a combinare metafore, ricordi, immagini,
parola, forma ritmo in quella misteriosa alchimia che fa di una poesia una
poesia.
È poi lo spirito del tempo che va indagato, compreso e
attraversato, ma su questo tema ritornerò, così come voglio continuare a
riflettere sulla necessità di una comunità di riferimento per gli artisti,
anche se il luogo da cui la poesia e la scrittura scaturiscono, è sempre un luogo
misterioso.
Sylvia Plath scriveva questo delle origini della sua
poesia:
«Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì
la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A
volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo…
E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo
di allora respira».
Il mondo di allora respira, perché la poesia salva e
riporta in vita la gioia che abbiamo vissuto in qualunque momento.
Il titolo di questa Cronaca 324, scritta il 26 gennaio del secondo anno senza Carnevale, è un verso di Anne Sexton tratto dal poemetto La doppia immagine.
sabato 23 gennaio 2021
Cronache dagli anni senza Carnevale/321: cammino per cercare la tana della volpe e un filo trasparente di nebbia e gelo viene con me
Un giorno nuovo è un libro non ancora scritto, l’alba è una copertina dal colore mutevole che cambia stagione dopo stagione.
Ogni giorno speriamo che il suo svolgimento non sia solo
il lento srotolarsi di parole, luoghi e volti noti, ogni giorno vorremmo che il
nuovo facesse irruzione.
Sentiamo ancor più questo desiderio in questo inizio del
secondo anno di pandemia e il nuovo, ciò che prima non c’era o non faceva parte
delle nostre vite, arranca e soffoca.
Dobbiamo continuare ad aspettare, per questo accolgo con
gratitudine questo giorno che sarà simile ai 320 che l’hanno preceduto e guardo
la copertina polverosa, grigio tenue e inframmezzata dai segni lasciati dai
rami nel cielo chiaro.
Le pagine della mattina sono intessute di conversazioni
che sono nuove e già questo giorno prende una piega diversa, un formato del
libro non ancora sfogliato.
Ascolto la fontana, l’acqua e poi la pioggia che ne copre
il rumore. I pensieri si adeguano ai suoni che giungono dall’esterno.
Un
filo trasparente di nebbia e di gelo
Una voce che ripete le stesse parole,
una voce che ascolto in silenzio, anche
se il canto mi è noto, se la caduta è
vicina. Ha voce di gelo questa giornata
e l’acqua ha voce di sogno. Tutto è
avvolto in una coltre densa, tutto
quel che resta di ieri è un filo da
tenere saldo e sperare che ci sia
tu, all’altro capo, che mi stai cercando.
Filo e tesso i minuti con le parole, ascolto molto e non
parlo. Sono così belle le voci umane, mi piace sentir parlare di libri e di
stile, di letteratura e di scrittori. Anche uno scambio come questo, a
distanza, nutre questo giorno invernale che scende lieve verso la dimora finale
di tutti i giorni che l’hanno preceduto. L’eternità è un letto ampio e caldo, i
giorni non la temono e anche noi dobbiamo immaginare come sarà il tempo allora,
quando non ci saranno giorni e ore a farci da barriera.
Cammino
per cercare la tana della volpe
Sono piccoli i passi dell’inverno
quando un’altra stagione reclama
lo spazio per il suo prossimo arrivo.
La stagione fredda è l’unica che
si muove per forza di levare. Strappa
le foglie ai rami, la luce al giorno, ad
alcuni uccelli toglie il canto, ad altri
anche il volo e la terra lontana oltre
il mare è l’unico cielo davvero amato.
Si presenta così l’inverno, spoglio e
rude, ci sfida a sentire il mondo
nonostante il gelo. Ci sfida anche
la pioggia ad accompagnare la sua
voce fredda e noi andiamo, noi
andiamo seguendo le tracce
verso le tane e troveremo rifugio
proprio in fondo alla radura e
la volpe ci accoglierà nonostante
la nostra voce, che è un sibilo nel vento,
una preghiera che sta ancora cercando
Dio, e sale verso il tramonto privo
di rondini e di stelle, in alto, dove
Dio si nasconde e noi ci inginocchiamo.
Ora il pomeriggio ha terminato di scrivere le ore quiete,
sono stata bene, ancora a parlare di lingue e di stile. Posso affidarmi alla
notte e continuare a scrivere poesie, che sono la mia preghiera, il mio
desiderio e la mia immaginazione.
Questa è la Cronaca 321, scritta sabato 23 gennaio del
secondo anno senza Carnevale. Le poesie sono inedite e sono zampillate dalla
mia penna come l’acqua della fontana.
venerdì 22 gennaio 2021
Cronache dagli anni senza Carnevale/320: il tempo è diventato una teoria di frammenti
Ogni giorno appena iniziato è un libro non scritto di
almeno ventiquattro pagine, ogni pagina ha sessanta righe, ogni riga sessanta
caratteri.
Queste costanti di ciascun giorno non avranno come esito
la stessa densità, lo stesso slancio vitale, la stessa gioia.
Raccogliamo in un unico fascio le otto ore dove, almeno
in teoria, dovremmo star dormendo. Otto ore di cui ricorderemo solo qualche
frammento di sogno, se saremo fortunati, al risveglio.
Diamo otto ore anche al lavoro, allo studio, all’impegno
quotidiano. Se lo studio ci consegna il senso di una crescita e di un
apprendimento, molto diversi sono gli esiti di una giornata lavorativa. Che
lascerà traccia se avremo fatto qualcosa di straordinario o incontrato qualcuno
di straordinario. La maggior parte dei lavori che facciamo per vivere non sono
straordinari, sono solo lavori fatti per vivere.
Restano otto ore per tutto il resto: l’amore, i figli,
gli amici, i genitori e la famiglia. I libri, lo sport, le passeggiate, il
cinema, le telefonate, la spesa, la cucina, la manutenzione della casa.
In tutti e tre questi ventagli fatti delle nostre ore, la
tecnologia e i social media hanno fatto irruzione sconvolgendone i ritmi.
Mi ha sconvolto oggi la notizia della bambina palermitana
che per rispondere a una “sfida”, come vengono chiamate le stupidaggini
collettive cui ci prostriamo, ha perso la vita. Dieci anni appena e di chi è la
colpa? Non so più chi, dal rumore di sottofondo dei media, ha urlato che sono i
genitori a dover controllare l’uso che dei social fanno i figli. Troppo facile
e troppo comodo accusare la famiglia della bambina. In quella famiglia sono
tutti vittime della stupidità collettiva di noi esseri umani. È dalla stupidità
tecnologica che i bambini vanno difesi, non possiamo difendere i bambini dalla
vita, ma dalla nostra stupidità sì. E come collettività abbiamo il dovere di
farlo. Se un social non è in grado di eliminare contenuti potenzialmente
pericolosi va bloccato. Un paese civile dovrebbe farlo subito.
Sento già le voci di chi inneggia alla libertà e che la
tecnologia in sé non è né buona né cattiva, che tutto dipende dall’uso che se
ne fa.
Certo, questo vale per gli adulti, ma non tutti gli
adulti ci arrivano; allora va organizzato un massiccio programma di educazione
civica digitale. Perché la vita digitale è la prosecuzione della nostra vita
reale con altre modalità.
Se ci fosse qualcuno fermo in un angolo della strada che
cerca di convincere dei bambini a stringersi una cintura al collo per far
vedere quanto siano coraggiosi, cosa faremmo? Non dubito che cercheremmo di
fermarlo, che chiameremmo la polizia e auspicheremmo che uno psicologo si
occupasse delle sue turbe. Perché allora dovremmo accettare che chiunque possa
dire e fare qualunque cosa sui social?
I social non sono strumenti neutri, la dimostrazione
definitiva viene dal fatto che abbiano deciso, troppo tardi, di bannare il
penultimo presidenti americano solo dopo i fatti gravissimi del sei gennaio
scorso. Dopo quattro anni di falsità e volgarità postate a decine ogni giorno
senza conseguenze per chi le aveva scritte.
La religione è l’oppio dei popoli, scriveva nello scorso
millennio Karl Marx, la citazione completa è più articolata, ma noi cittadini
del suo futuro, noi che abbiamo secolarizzato il mondo, noi abbiamo i social,
più potenti di qualunque altra cosa.
Il tempo è diventato una serie di frammenti a causa delle
tecnologie. Siamo continuamente interrotti da mail, messaggi di varia
provenienza, telefonate, newsletter e news.
Provate ad annotare cosa resta delle vostre ventiquattro
ore vissute così. Proviamo a stare un giorno il più possibile lontano dai
social, dalle piattaforme streaming, dai messaggi. Il più possibile lontano
significa solo questo, perché abolirli dalle nostre vite non credo sia possibile,
ma disciplinarli e auto-disciplinarsi, questo sì.
Oggi volevo scrivere delle ventiquattro ore che formano ogni nuovo giorno e lo rendono un libro non scritto. Forse lo farò domani, ma oggi la rabbia e il dolore per quella piccola vita spezzata hanno preso il sopravvento. Oggi che è venerdì 22 gennaio del secondo anno senza Carnevale, in Brasile hanno appena annullato il Carnevale previsto per febbraio. Che facile profezia la mia, quella di scrivere le Cronache dagli anni senza Carnevale e questa è la numero 320. Pubblicata sul mio blog (piattaforma tecnologica) e sul più diffuso social, come ne usciremo?
P.S. ho appena appreso che il Garante della Privacy ha bloccato TikTok, questo almeno pare un inizio.
martedì 12 gennaio 2021
Cronache dagli anni senza Carnevale/310: bisogna fidarsi del vento e delle onde
Entrare nel nuovo mattino così come si esce dal mare, i sogni gocciolano e scivolano via dalla nostra pelle.
Bisogna fermarsi un momento almeno a prendere fiato e
girarsi a guardare l’orizzonte sempre più lontano, dove il sole sorge e
illumina l’aria tutto intorno.
Ma un sogno mi è rimasto sul dorso della mano sinistra,
pare una farfalla, si contorce nella luce e mi consegna l’immagine di tre libri
con le copertine nera, bianca e rossa.
Sono libri scritti o libri da scrivere? Le pagine bianche
si alternano a quelle manoscritte, penso alla cosa più ovvia, all’alchimia, a
Jung, alle trasformazioni continue che avvengono non solo con noi e dentro di
noi, ma a volte senza la nostra collaborazione, o malgrado noi stessi.
L’opera al nero inizia in un’alba splendente, dalle dita
rosate. Questo è un nuovo inizio, non una falsa partenza, non come nei sogni
dove camminiamo senza avanzare mai.
Bisogna fidarsi del vento e delle onde
Il gioco non è mai in un unico
senso, non è solo lo spirito che
cerca la materia, è il nero profondo
e oscuro di ciò che rimane del giorno
dell’origine a decretare la forma e
la collaborazione. Uscire dal vaso
cosmico, poi entrare nel nuovo
mattino lasciando il sale seccarsi
sulla pelle e il mare farsi piccolo
così da entrare tutto nell’occhio
e salare le lacrime che sono state
che di nuovo saranno. Si nasce e
si rinasce in un dolore nuovo e
il tempo che è stato rimane
inerte come la forma del serpente
che ha mutato la sua pelle. Per
questo bisogna fidarsi del vento
e delle nuvole.
Bisogna credere alla forza della nostra natura profonda,
alla libertà che ci appartiene e che non dipende da quanto sta accadendo fuori
di noi, pandemia inclusa. Il nostro giardino interiore, la nostra ghianda che
cresce e la quercia che affonda le radici nella terra e i rami nel cielo.
Bisogna credere alla gioia che è in noi, anche se il
mondo continua a dirci che non c’è futuro, che non riavremo indietro le nostre
vite, che niente sarà più come prima. È vero, ma anche noi non saremo più
quelli di prima, come ogni giorno passato, come ogni giorno che sarà.
Oggi è martedì 12 gennaio del secondo anno senza
Carnevale e questa è la Cronaca 310. Bisogna fidarsi del vento e delle onde
è la mia poesia inedita, figlia di questa giornata fredda di sole e gelo.
venerdì 20 novembre 2020
Cronache dall’anno senza Carnevale/257: polline e api, tempo e nuvole stanno nell’angolo del nostro occhio
Per ogni
cosa che accade, per ogni cosa cercare sempre il suo contrario, contrastare le
cose tristi con immagini belle, contornare le cose belle con la loro ombra per
non dimenticare quanto la bellezza e la poesia siano fragili alleati del nostro
passaggio in questa realtà.
Oggi sono uscita dalla casa nella città silenziosa e ho percorso la strada dove dimora l’albero bellissimo che mi fa compagnia da decenni.
Ho salutato le ultime foglie che vibravano nell’aria e ho visto un nugolo di farfalle estive svolazzare nel giardino della Casa delle Parole.
Hanno nomi bellissimi queste farfalle, l’Aglaia arancione, la Colia gialla, la Melitea tigrata, la Vanessa del Cardo. Hanno nomi antichi la maggior parte delle farfalle e questi nomi non dicono la bellezza, bisogna affidarsi allo sguardo e alla memoria.
L’aria era tersa dopo giorni di umidità spessa e noiosa, durerà poco perché qui, nella città sospesa, l’umidità è una sorta di mantello, così nella via vuota ho respirato per dieci secondi l’aria che aveva sentore di foglie secche, erba appena tagliata, sottobosco e riva di un lago.
Il lago che amo più di tutti, l’ho già scritto all’inizio delle Cronache, è il Lago d’Orta dove ho trascorso, soprattutto in autunno e inverno, giornate magnifiche. Quell’odore inconfondibile, lo sciabordio dell’acqua ferma che tocca le rive, le anatre che stanno per partire, il profilo dell’isola e dell’antico convento. E solo pace intorno e solo silenzio e una profondissima quiete.
In Piazza Piemonte mi sono incantata a guardare la falce di luna tra i due “grattacieli” dell’architetto Mario Borgato. Gli appartamenti magnifici dell’ultimo piano erano illuminati, non lo sono quasi mai, questa sera.
Ho affiancato a questa immagine il ricordo di una sera di giugno in cui uscivo dal cinema Zenit, dove ora c’è la libreria Feltrinelli che sta per riaprire, e il cielo splendente dell’estate faceva scintillare le due torri e guardandole avevo pensato che non le avrei mai più viste in un’immagine così definitiva e iconica. E così è stato e ogni volta che le guardo mi chiedo perché due torri e non tre e non una soltanto. Forse anche perché le torri soffrono di solitudine e hanno bisogno di rispecchiarsi in una gemella che sta accanto.
Nel quartiere gli unici negozi chiusi sono quelli di abiti, scarpe, le gioiellerie e il pub. Tutto intorno la gente fa file disciplinate e aspetta senza protestare, si fanno battute sulle mascherine e una pasticcera che lavora da Elli, una delle migliori pasticcerie di Milano, sempre lì in piazza mi ha detto “Signora, ormai sto imparando a riconoscere il sorriso dei clienti dagli occhi e lei sta sorridendo ora!”.
Al buio dei negozi chiusi oppongo il tripudio di stoffe colorate che riempivano tutta la casa, quando mia madre doveva scegliere i tessuti per i nostri abiti estivi. Oggi ho pensato a quell’abito di lino nero con piccoli disegni geometrici rossi e bianchi, gialli e blu, alla cintura gialla e alta, alla giacca dello stesso tessuto e al piacere di indossare un abito cucito su misura.
Alle strade poco trafficate, ma non vuote come durante il primo confinamento, ho regalato schiamazzi di ragazzini e di clacson, arrivati sino a me da qualche sabato degli anni Novanta.
Alla desolazione delle edicole chiuse ho opposto quella barocca e ridondante di giornali che stava in piazza prima del parcheggio sotterraneo e dove era un piacere fermarsi a curiosare.
Mentre stavo sovrapponendo lo sguardo del passato a quello del presente, un’immagine della piazza devastata, come dopo un bombardamento, mi ha aggredita. È il ricordo di un sogno di epoche scomparse, forse un ricordo non mio del quartiere martoriato dai bombardamenti nel 1943.
In altri luoghi della città sono passati nel cielo gli storni migratori, ma non qui. Da tanto tempo sono spariti gli uccelli canterini e i piccioni che facevano concorrenza a piazza del Duomo. Sono sparite anche le cornacchie, e non mi dispiace, e così sono arrivata a pensare che qualcuno se li sia mangiati perché come hanno fanno a sparire tutti insieme così?
Alla notte che è scesa offro da un lato il ricordo del giorno che è appena trascorso, un giorno molto simile ai suoi predecessori, e dall’altro lato offro la speranza dell’alba, quel ritorno della luce che invochiamo da millenni, noi della specie umana.
Siamo figli della tenebra tanto quanto la luce, ma è alla luce che siamo devoti, mentre trascuriamo le nostre ombre sul selciato, anche se le abbiamo sempre accanto.
Basta chinare lo sguardo e cambiare prospettiva. A volte nell’angolo dell’occhio si posano polline e api. Altre volte sono le farfalle e i fiori che non abbiamo colto. A volte uno sguardo amoroso che attraversa gli anni e le nuvole per posarsi su di noi, delicato proprio come le nostre farfalle.
Oggi è venerdì 20 novembre dell’anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 257, dove gli sguardi si incontrano e si riposano.
martedì 25 agosto 2020
Cronache dall’anno senza Carnevale/170: un giorno profumato di basilico e limone
Alcuni giorni assomigliano alla seta, sono lucidi, morbidi, leggeri.
Questo giorno è proprio così, è iniziato poco dopo l’alba e si è espanso per la
casa seguendo la luce del sole. Tutto si è illuminato per il tempo necessario a
che io potessi riconoscere oggetto dopo oggetto e dirgli “Buongiorno!”. A metà
mattina mi ha cercato mio fratello Alessandro per prendere un caffè insieme,
così ho lasciato per qualche ora le terre ai piedi delle Montagne della Nebbia
e sono tornata nella città silenziosa. La luce era morbida e setosa come nel
mio regno immaginario, era piacevole stare seduti a chiacchierare accarezzati
da un vento leggero, lì e altrove nello stesso momento e godere del piacere
della reciproca compagnia. Il giorno di seta è proseguito alla ricerca di un
nuovo libro da leggere, cioè da aggiungere alla pila di libri in lettura che
tengo accanto al letto. Dalle imposte accostate, dopo mezzogiorno, filtrava
quella luce che tanto amo e che invita a guardarla danzare sul soffitto dopo
che ha attraversato l’aria e le tende. Il bello di un giorno di vacanza è anche
questo potersene stare naso all’insù e non avere altro che pensieri morbidi.
Ci sono poi altri giorni che sono di lino, un po’ ruvido, chiaro e fresco. Il lino appartiene all’estate, ai racconti di viaggio, a Hemingway perso tra Parigi e l’Havana, al desiderio di fuga e di vagabondaggio, alla nostalgia di un mondo che era troppo grande per stare tutto in un cuore solo. I giorni di lino non sono lucidi come quelli di seta, ma hanno senso pratico, progetti e ventilatori accesi per poter scrivere senza soccombere al caldo. Sono giorni che iniziano su una spiaggia greca e finiscono in una piazza di Barcellona, sono giorni vagabondi, accompagnati da zaini e bisacce, da una macchina da scrivere portatile. Vestiti di lino non si può stare chiusi in casa, l’unico lino casalingo ammesso è quello della lenzuola che invitano al riposo e all’ozio.
I giorni di cotone sono anch’essi giorni estivi, sono giorni ordinari, delle cose che vanno fatte, del lavoro che aspetta, dei libri da spolverare e non solo sfogliare, della cucina da riordinare, della spesa per rimpinguare un po’ il mio frigorifero, della lunga passeggiata in via Washington per andare e tornare dall’Esselunga ed ecco che tra i palazzi antichi sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale e gli alberi i cui rami nascondono portoni e finestre, ho sempre l’impressione di stare camminando per Parigi, mi sento spaesata e in attesa, come se a ogni incrocio dovesse accadere qualcosa di imprevisto e speciale. Al ritorno la casa è fresca, profuma di limone e basilico, le tende, anch’esse di cotone, svolazzano con questo venticello e la frenesia del fare si placa nella lettura di qualche rivista.
Mentre il lino è uguale a se stesso, seta e cotone si possono declinare in altri tessuti più leggeri o più pesanti dai nomi che evocano altre epoche e mani febbrili prese dalla tessitura: tulle, georgette, crepe, chiffon, organza, mussola, shantung e taffetà. La mia passione per le liste gongola ogni qual volta riesco a farne una. Ogni nome porta con sé un’esperienza tattile, un ricordo preciso delle prime volte in cui mia madre ha iniziato a insegnarmi a riconoscere le stoffe e il miglior uso che se ne poteva fare.
Così sono i giorni, all’apparenza uguali, ma come non c’è mai una stoffa uguale a un’altra – un rotolo, una pezza – così i giorni si assomigliano ma la loro grana e il colore non sono mai uguali tra loro.
Questo è un giorno di seta che per la sera diventa ancora più leggero e trasparente, con questo abito appena cucito vado a passeggiare in spiaggia, a guardare i delfini che giocano poco lontano dalla riva.
A casa oleandri e rose si disputano il privilegio di diventare puro colore e affondare nel mastello dove una pezza di organza è raggomitolata a pensare cosa diventerà domani.
È un pensiero puro quello rivolto al domani, è fiducia nella vita che, nonostante tutto, si rinnova e respira e noi stiamo nel vento e nel profumo del giardino.
Basta così poco a spezzare il fragile equilibrio dei giorni, l’inaspettato non si nasconde solo agli incroci, ma la gioia lo contrasta e ci dà la forza di continuare.
Questa Cronaca 170, una delle poche non intessute di poesia, è stata
scritta nel venticinquesimo giorno di agosto dell’anno senza Carnevale, un
giorno di luce morbida e di venticello.