sabato 29 giugno 2013

Scrivere racconti è viaggiare con il solo bagaglio a mano

Amos Oz dice che quando scrive racconti brevi si sente come un viaggiatore abituato a molte valigie, improvvisamente deciso a portarsi solo il bagaglio a mano: deve compattare tutto quel che prova. Tra amici, il suo ultimo libro, è un bauletto perfetto: man mano che si squadernano i personaggi delle singole storie, quello che era il sogno e la realtà del kibbutz negli anni '50 si ricompone come un puzzle coinvolgente e veloce. Da un lato l'incontenibile utopia di una società giusta, perfetta, spartana, collettiva, di un'umanità trasformata, di un ebreo nuovo, abbronzato, lontano dalle fragilità e dai compromessi - dalle sconfitte - che avevano caratterizzato la diaspora, 
dall'altro le solitudini, le debolezze e gli egoismi entrati in clandestinità in un microcosmo rigido che si proponeva di cancellare il lato oscuro, e ancora la tenerezza, talvolta la voglia di fuga, le ferite, i tradimenti, uomini e donne nella loro concretezza. 

incipit della recensione di Susanna Nirenstein alla raccolta di racconti di

Amos Oz
Tra amici
traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli 2012
Repubblica 24 giugno 2012

venerdì 28 giugno 2013

La ragion d’essere dell’arte del romanzo

Don Chisciotte spiega a Sancio che Omero e Virgilio non descrivevano i personaggi «così com’erano, ma come dovevano essere per servire da esempio di virtù alle generazioni future ». Ma lo stesso don Chisciotte è tutto fuorché un esempio da seguire. I personaggi romanzeschi non chiedono di essere ammirati per la loro virtù. Chiedono di essere compresi, il che è completamente diverso. Gli eroi dell’epopea vincono o, se sono sconfitti, conservano sino all’ultimo respiro la loro grandezza. Don Chisciotte è sconfitto. E senza grandezza alcuna. Perché d’un tratto tutto è chiaro: la vita umana in quanto tale è sconfitta. Di fronte all’ineluttabile sconfitta che chiamiamo vita non ci resta che cercare di comprenderla. In questo risiede la ragion d’essere dell’arte del romanzo.

Milan Kundera
Il sipario
da Il povero Alonso Quijada
traduzione di Massimo Rizzante
Adelphi 2005

giovedì 27 giugno 2013

Scrivere e cancellare: cercare causa e rimedio

Adagio

Da mattina a sera fuori scorre una luce che tutto pensa fuorché d'essere luce.
Cime di fronde che respirano silenzio senza bisogno alcuno di trovare
il codice dell'essere alberi. Steppe inerti per sempre adagiate senza darsi pena della propria desolazione. Sabbie sperdute senza stare a domandarsi
fino a quando e perché e dove. Tutto questo esistere strabiliante
eppure non strabiliato. Rossa sale la luna, un occhio versato pare
che ustiona la tenebra del cielo, tacita ma non attonita. Un gatto appisolato sul muretto.
Pisola e respira. Niente più. La notte il vento gira, alita sui boschi e colli, Gira e va. Alita.
Senza pensieri e mugugni. Solo tu, terra e umore, sino a che viene mattino
scrivi e cancelli, cerchi causa e rimedio.

Amos Oz

Lo stesso mare

Feltrinelli 1999

mercoledì 26 giugno 2013

Arcipelaghi

Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All'orlo della pioggia una vela.

Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un'intera razza.

La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.

Il gocciolio si tende come le corde di un'arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia

e pizzica il primo verso dell'Odissea.
Derek Walcott
Mappa del Nuovo Mondo
Traduzione di Barbara Bianchi, Gilberto Forti, Roberto Mussapi
Adelphi 1992
)
da PensieriParole

martedì 25 giugno 2013

Scrivere è cercare il tempo presente

Il narratore, per definizione, racconta ciò che è accaduto. ma ogni piccolo avvenimento, non appena diventa il passato, perde concretezza e assume contorni indistinti. La narrazione è un ricordo, quindi un riassunto, una semplificazione, un'astrazione. Il vero volto della vita, della prosa della vita, si trova solo nel tempo presente. Ma come raccontare gli avvenimenti passati e restituire loro il tempo presente che hanno perduto? L'arte del romanzo ha trovato la risposta: presentando il passato attraverso scene. La scena, anche se raccontata al passato grammaticale, è, ontologicamente, il presente: noi la vediamo e la sentiamo; si svolge davanti a noi, qui e ora.

Milan Kundera
Il sipario
da Alla ricerca del tempo presente
traduzione di Massimo Rizzante
Adelphi 2005

lunedì 24 giugno 2013

Scrivere significa saper cancellare


Juan Rulfo invece dopo La pianura in fiamme Pedro Paramo «non pubblicò praticamente più nulla. Scrisse quello che doveva e si ammutolì come uno che ha fatto l'amore nella migliore maniera e poi si addormenta nella camera da letto. Un giorno, nella sua casa in Messico, prese una lavagna a due facce che aveva da un lato una penna e dall'altra un cancellino: si scrive con questa, mi disse indicando la penna, ma soprattutto con quest'altra, con il cancellino. Penso di essere stato un buon allievo».

Eduardo Galeano intervistato da Sebastiano Triulzi
Repubblica 29 gennaio 2012

domenica 23 giugno 2013

Il silenzio è un linguaggio perfetto


Quando lo andavo a trovare, Juan Carlos Onetti mi offriva un vino che causava una cirrosi istantanea e mi impastava la bocca, sicché mi chetavo subito. Fumava come un turco e per dare lustro alle sue parole mentiva attribuendole a un proverbio cinese o a un detto etrusco. Una volta mi disse: le uniche parole che meritano di esistere sono quelle migliori del silenzio. Non solo gli scrittori ma anche i politici dovrebbero imprimerselo nella mente. Il silenzio è un linguaggio perfetto ed è dura per la parola competere. Per questo riscrivo più volte un testo finché non sento che è migliore del silenzio». 

Eduardo Galeano intervistato da Sebastiano Triulzi
Repubblica 29 gennaio 2012

sabato 22 giugno 2013

Scrivere è mantenere il silenzio su ciò che siamo


Noi siamo ciò su cui manteniamo il silenzio.

Sándor Márai
Le braci
a cura di Marinella d'Alessandro
Adelphi 1998

venerdì 21 giugno 2013

Scrivere è il contrario dell'impulso a tacere


 (...) arriva la notizia che la scrittrice canadese ha annunciato che no, lei non scriverà più. E difatti da più di un anno al suo editor non arriva niente. L'aveva già detto altre volte, viene da pensare d'istinto a chi ama i racconti della Munro. L'ultima volta in una recente intervista: «Non che non abbia amato la scrittura», aveva detto, «ma forse quando si arriva alla mia età non vuoi più essere sola come uno scrittore deve essere». E aveva aggiunto: «Smetto per quella strana idea di essere "più normale"».
L'aveva già detto e non l'ha fatto. Il che non significa che menta. Al contrario. Ogni autentico scrittore insieme alla gioia di scrivere, ha anche l'impulso contrario a tacere. Quando lo vince, è perché lo trascina una volontà prepotente e ostinata di mettersi alla prova: provare a dire, provare a esprimere il proprio mondo interiore.

Nadia Fusini su Alice Munro
Repubblica 21 giugno 2013

giovedì 20 giugno 2013

La casa della scrittura

La solitudine non si trova, si fa. La solitudine viene da sé. Io l'ho fatta, perché ho deciso che qui avrei dovuto esser sola, che sarei stata sola per scrivere libri. 
È avvenuto così, sono stata sola in questa casa, mi ci sono rinchiusa, con un po' di paura, certo. E poi l'ho amata. È diventata la casa della scrittura. I miei libri escono di qui, anche da questa luce, dal parco, da questa luce riflessa dallo stagno. Mi ci sono voluti venti anni per scrivere quello che ho detto ora.

Marguerite Duras

Scrivere
traduzione di Leonella Prato Caruso
Feltrinelli 1994



mercoledì 19 giugno 2013

Come una fiamma, come un arcobaleno: scrivere in compagnia di un altro libro

Il 14 luglio 1920 Thomas Mann annotava sul suo diario: «È arrivata la Biologia generale di Hertwig». Si trattava di un popolare manuale pubblicato nel 1906 dal biologo Oscar Hertwig, nel quale si identificava per la prima volta il Dna come il portatore dell' informazione genetica (un' intuizione poi confermata sperimentalmente nel 1943 da Oswald Avery). L'8 agosto Mann si proponeva coraggiosamente: «Leggere la Biologia generale di Hertwig». E il 30 settembre annunciava: «Terminato ieri il capitolo biologico». Il capitolo in questione era Indagini, e appartiene alla Quinta Parte della monumentale opera che lo scrittore stava componendo in quegli anni, La montagna incantata (ora ritradotta nei Meridiani Mondadori alla lettera come Montagna magica ), che lo occupò dal 1913 al 1924. Come lui stesso raccontò il 18 maggio 1939 all'Università di Princeton, l'ispirazione per il romanzo gli era venuta da un fatto accidentale: nel 1912 sua moglie era stata ricoverata per sei mesi nel sanatorio svizzero di Davos, e durante una visita di tre settimane che le aveva fatto, Mann si era preso un banale raffreddore. Il primario gli "diagnosticò" immediatamente un'infezione polmonare, prescrivendogli un immediato ricovero di sei mesi, ma egli scappò a gambe levate. E invece di sottoporsi a tempo indefinito a una cura per una malattia inesistente, preferì utilizzare le impressioni ricevute in quelle tre settimane per scrivere La montagna incantata. Con questo romanzo bisogna esser disposti a lasciarsi trascinare come fuscelli da un impetuoso fiume di parole, i cui meandri si addentrano nei melmosi terreni della divagazione. 
(...)
Mann organizza il suo discorso biologico attraverso i pensieri del giovane Hans Castorp, protagonista del libro e prigioniero dell'incantesimo della montagna di Davos. Anch'egli ci va per una visita di tre settimane a un parente ricoverato, e rimane invischiato per sette anni come un insetto nella tela che il primario gli tesse attorno, riuscendo con lui nella finzione dove aveva fallito con Mann nella realtà. E come lo scrittore, anche il suo personaggio legge testi di biologia, ponendosi domande più grandi della sua capacità di comprensione delle risposte (pur essendo, a differenza di Mann, un ingegnere e non un letterato). La domanda da un milione di marchi è ovviamente quella che si pongono tutti coloro che adorano il dio delle generalità, ed esorcizzano il diavolo dei dettagli. «Che cos' è la vita?», ripete dunque Castorp per tre volte, agli inizi del suo monologo interiore, e si dà tre risposte diverse. La prima collega la vita a una «coscienza di sé», che è «semplicemente una funzione della materia ordinata in modo che possa vivere». La seconda la ritrova «nella generazione spontanea, cioè nell' origine dell'organico dall' inorganico», che altro non è se non «un miracolo». La terza la situa nel «prodotto calorico di una sostanza sostenitrice di forme», descrivendola come «l'essere del non poter essere», «un fenomeno non materiale su base materiale, come l'arcobaleno sopra la cascata e come la fiamma». 

Frammenti dell'articolo che Piergiorgio Odifreddi ha dedicato a Thomas Mann acuto lettore di Oscar Hertwig
Repubblica giovedì 10 dicembre 2010

martedì 18 giugno 2013

Raccontare storie è stare lassù, da soli, con una sedia

Il mio mestiere è quello di raccontare storie agli altri.
Devo raccontarle.                           
Non posso non raccontarle. 
Racconto storie di altri ad altri.                                            
O racconto storie mie a me stesso o agli altri.                                                               
Le racconto su un palco di legno, con altri esseri umani, in mezzo a oggetti e luci.             
Se non ci fosse il palco di legno, le racconterei per terra, in una piazza, in una strada, in un angolo, a un balcone, dietro una finestra. 
Se non ci fossero esseri umani assieme a me le racconterei con pezzi di legno, brandelli di stoffa, carta ritagliata, latta, con qualsiasi cosa esista al mondo.                 
Se non ci fosse niente, le racconterei parlando ad alta voce, se non avessi voce parlerei con le mani, con le dita.                                                  
Se non ci fossero le mani e le dita, le racconterei con il resto del corpo. Racconterei muto, racconterei immobile, racconterei attraverso i fili, dentro uno schermo, dentro una ribalta. 
In qualsiasi modo racconterei, perché l'importante per me è raccontare le cose ad altri che le ascoltano.                        
Non capite che il resto non conta quasi nulla?
Non capite che il mezzo per raccontare è solo un passaggio, un oggetto, un pretesto per parlare con gli altri, di cose che ti stanno dentro?
Cosa mi parlate di teatro, di cinema o di altro.
Appeso a un filo in una piazza, seduto su una sedia a venti metri da terra, sarebbe anche quello un modo di raccontare cosa può fare un uomo, solo, lassù, con la sua sedia.
Raccontare che esiste, che sta in equilibrio, che può cadere e non cade, che ha paura e che non lo fa vedere e mille mille altre cose.
Non capite questo? 
Non avete proprio mai capito niente.
Ma l’importante è che non mi importa più di essere capito.
Mi basta di essere ascoltato.

                                                                                                      
Giorgio Strehler
citato in Italo Moscati 
Strehler
Vita e opere di un regista europeo
Editore Camunia 1985

lunedì 17 giugno 2013

Scrivere quello che vedo o scrivere i sogni?

Kureishi: «Siamo entrambi scrittori realisti, come Balzac o Flaubert. A me piace scrivere quello che vedo. Di solito, faccio una prima stesura a mano e poi trascrivo nel computer. Ricordo il rumore che faceva mio padre battendo sulla macchina da scrivere. Scriveva romanzi, tutti finiti in un cassetto. Volevo somigliare a lui, forse ancora oggi vorrei essere mio padre». 

Houellebecq: «Io invece ho incominciato trascrivendo i miei sogni. A un certo punto, ho mostrato questi testi ad alcune persone e ho avuto una reazione molto positiva. Fondamentalmente, ho continuato per rivivere quella sensazione».

frammenti del dialogo tra Hanif Kureishi e Michel Houellebecq
curato da Anais Ginori su Republlica del 14 dicembre 2010

domenica 16 giugno 2013

Scrivere è sfondare una finestra chiusa

Immaginate una stanza affollata - l' aria viziata, stagnante. Tra i presenti uno va alla finestra. Bene, pensate: la aprirà. Invece la sfonda. Ecco: per Virginia Woolf quello è Joyce. Per lui bisognava scuotere le fondamenta per rinnovare la fabbrica narrativa. Alcuni pilastri, però, li lascia intatti: la triade di Padre, Figlio, Madre - la più antica cellula del mito, della religione, della società. Della letteratura. Ma poiché per Joyce la letteratura si rinnova a punti crociati di tradizione e tradimento, le alterazioni contano: il padre Ulisse è un ebreo di erranza stanziale. Il figlio Telemaco è un intellettuale riottoso incatenato al labirinto in terra d' Irlanda; la Grande Madre Molly, più che una Mater Matura che apra all Aurora, è Afrodite sulla via del tramonto. Di questa cellula germinale - Joyce docet - la letteratura non può fare a meno; soprattutto della Grande madre - umida, acquatica. Come lui di Nora Barnacle: moglie e madre. E' con Nora - il 16 giugno 1904 - a Dublino che concepisce per sé la vita nuova. Sempre con Nora si ingravida di se stesso e nasce scrittore in esilio, che brucia in olocausto le inerti escrescenze di un genere stanco - il romanzo. E lo riporta ad abbeverarsi alla sua origine epica.

Nadia Fusini
Repubblica 16 giugno 2004

sabato 15 giugno 2013

Elogio della brevità alla Hemingway

Si dice che gli editori non amino pubblicare i libri di racconti perché secondo loro i racconti non si vendono bene, mentre i romanzi sì. A me pare che questo non corrisponda a verità e che tutto dipenda dal fatto che scrivere un bel libro di racconti è forse meno frequente che scrivere un bel romanzo. Credo anche che i racconti siano, e non abbiano mai cessato di essere, il fulcro della narrativa. E si leggono inoltre in un tempo più breve. Questo della brevità è un tema su cui ci si potrebbe soffermare per un momento perché mi ricorda quello che in modo provocatorio disse Borges in un'intervista. 
Disse: «I romanzi sono organismi troppo grossi, gonfi di cose troppo pesanti e troppo inutili. La forma letteraria perfetta può essere soltanto il racconto, che permette di concentrarsi direttamente sull'essenziale, come fa la poesia...». Anche se dopo, in un' altra intervista, Borges si corresse e riconobbe che la sua era stata una boutade, tuttavia in quella provocazione era implicito un sentimento che oggi molto spesso affiora nell'animo di uno scrittore, il sentimento che ormai tutti i romanzi siano stati scritti e che forse è inutile rifarli perché ogni trama ne vale un' altra e ogni fatto somiglia a un «fatto diverso» che la televisione ogni giorno ci propina. 

Raffaele La Capria
incipit dell'articolo pubblicato 
sul Corriere della Sera del 6 febbraio 2008

venerdì 14 giugno 2013

Quel gioco leggero di scrivere romanzi

Durante tutta la vita, Kawabata ha pensato che lo scrittore e il pittore non nascono in una sola generazione: essi sbocciano dopo che il sangue degli antenati ha attraversato molte generazioni. Le virtù artistiche si trasmettono col tempo. 
Soltanto quando il sangue delle antiche generazioni perde vigore e sta per estinguersi, il grande scrittore e il grande pittore vengono alla luce, come l'ultimo bagliore di una fiammata. 
La letteratura e la pittura sono dunque arti della decadenza: fiori del tramonto di una cultura.

Pietro Citati su Yasunari Kawabata
incipit della recensione pubblicata su Repubblica
del 30 maggio 2003

giovedì 13 giugno 2013

Il mio mestiere è quello di scrivere

Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. 
Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. 
So che scrivere è il mio mestiere. 
Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene: adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani.

Natalia Ginzburg
Le piccole virtù
Einaudi 1962

mercoledì 12 giugno 2013

Tre nubi e queste poche parole

Il giorno apre la mano

Tre nubi

E queste poche parole


(El día abre la mano

Tres nubes

Y estas pocas palabras)


Octavio Paz

martedì 11 giugno 2013

La scrittura vive di folgorazioni e ostacoli

La scrittura vive di folgorazioni e ostacoli e l'ostacolo vale quanto la folgorazione, è una folgorazione rimossa.
Non si frammenta il tempo in quantità lineari per scrivere, la scrittura non è questo.
Le folgorazioni sono rapide, gli ostacoli sono lenti e sono folgorazioni rallentate che faticano a uscire, che devi scavare, inseguire, limare.

Danilo Bramati

lunedì 10 giugno 2013

Scrivere con forza e ispirazione

Il romanzo I Fratelli Karamazov è l’ultima opera di Dostoevskij. Doveva essere il primo di una serie. Dostoevskij aveva allora cinquantanove anni; egli scriveva «Constato spesso con dolore che non ho espresso, letteralmente, la ventesima parte di quello che avrei voluto, e, forse anche, potuto esprimere. Quello che mi salva è la speranza abituale che un giorno Dio mi manderà tanta forza e ispirazione, che mi esprimerò più completamente: in breve, che potrò esporre tutto quello che racchiudo nel mio cuore e nella mia fantasia».
Era uno di quei rari geni che avanzano, d’opera in opera, per una sorta di progressione continua, fino a che la morte non li venga bruscamente a interrompere. Nessun ripiegamento in quella sua focosa vecchiaia, non più che in quella di Rembrandt o di Beethoven, al quale mi piace paragonarlo: un sicuro e violento approfondirsi del suo pensiero.
Senza alcuna compiacenza verso di sé, continuamente insoddisfatto, esigente fino all’impossibile, - e tuttavia pienamente cosciente del suo valore, - prima di abbordare i Karamazov un segreto trasalimento di gioia l’avverte: possiede, finalmente, un soggetto della sua statura, della statura del suo genio. «Mi è raramente capitato», scrive, «di aver da dire qualcosa di più nuovo, di più completo e originale». E questo libro fu quello che accompagnò Tolstoj sul suo letto di morte.


André Gide
Dostoevskij
Medusa 2013
anticipazione su Repubblica di oggi

domenica 9 giugno 2013

Andare a capo prima di fine riga non significa scrivere versi

Ogni qual volta leggo un titolo di giornale che preannuncia versi e poesia mi dispongo in uno stato d'animo di lieta attesa, anche perché ciò accade sempre più di rado. Ogni giorno spero di scoprire versi sorprendenti, pieni di forza, metafore e passione. 
Sul Corriere della Sera di oggi a pagina 23 un bel titolone bluette preannuncia "il racconto in versi",  dedicato al padre Mario, famoso analista junghiano,che lo scrittore e critico, notevole critico e buon scrittore, Emanuele Trevi leggerà mercoledì prossimo al Festival delle letterature nella Basilica di Massenzio a Roma.
Dunque leggo:

La scena è poco allegra.
Era la metà di marzo.
Stavo con mio padre, una notte di pioggia,
un paio di settimane prima che morisse.
Ero contento di tenergli compagnia, fare
qualche servizio, ma a un certo punto
lo avevo perduto. Da un giorno all'altro
aveva smesso di parlare. Letteralmente,
non sapevo più dove era. Immaginavo
l'anima, il soffio, la forza vitale
- chiamatela come credete - 
impegnata in un tentativo
lento e laborioso di distacco
dalla vecchia carcassa.

Le righe totali, non i versi perché versi non sono, ammontano - se nella furia non ho sbagliato la conta - a 176. 
Confesso anche che leggere la descrizione del declino fisico e mentale di un uomo brillante e creativo - anche se scritta con la piana semplicità e anche l'affetto mostrati - che Trevi ha fatto di suo padre, mi ha causato un disagio più che percettibile.
Non intendo mettere in discussione la libertà assoluta che ogni artista ha rispetto alla materia dell'arte che gli è propria, né del diritto di fare di ogni cosa pasto per i lettori. Nella nostra epoca voyeuristica tutto passa dall'esperienza del reale alla parola scritta con la velocità e la concisione di un tweet.
Ma avrei preferito leggere il racconto di un personaggio anziano e morente che il figlio cerca di comprendere e ricordare vivo con la fiamma delle parole.
Se riprovate a leggere il racconto eliminando gli "a capo" vedrete che così funziona decisamente meglio e le ultime righe possono lasciare libere quelle tre parole di innalzarsi in una guizzante, e subito spenta, fiammella poetica:

... E credo
che il sorriso di mio padre
rappresenti il grado più alto
della consapevolezza
la coincidenza dell'umanità
e dell'idiozia che fa di noi,
quando viene ammessa ed onorata,
creature sacre e vere,
sacre 
e vere.

La poesia, gentile Trevi, vive di parole, immagini, ritmo, contenuto, che stanno tutti insieme indissolubili e fittamente intrecciati, andare a capo prima di fine riga proprio non basta.

E siccome non basta, trascrivo i primi versi del Requiem, nell'edizione einaudiana curata da Giacomo Cacciapaglia nel 1992, che Rainer Maria Rilke scrisse in soli tre giorni fra il 31 ottobre e il 2 novembre 1908,  e che dedicò all'amica pittrice Paula Modersohn-Becker morta a soli 31 anni nel 1907:

Ho morti  ed a se stessi li ho lasciati,
stupito di vederli così in pace,
a casa loro nella morte, giusti,
così diversi dalla loro fama. Tu sola
torni, mi sfiori, qui t'aggiri, vuoi
urtarti a cosa che di te risuoni
e ti riveli. Oh, non togliermi quello
che lentamente imparo. Io ho ragione, tu erri
se cosa alcuna a nostalgia ti muove.
Perché le cose noi le trasformiamo;
non sono qui, appena riconosciute
noi ne facciamo specchi della nostra sostanza. 

sabato 8 giugno 2013

Un pomeriggio woolfiano a Brescia

Una luce estiva affilava gli angoli delle strade, il mercato risuonava di cento lingue diverse. Odori di spezie piccanti e di pane bianco si affollavano nell'aria ferma del mezzogiorno. Poi piano si sono placate le voci e i passi, solo un vento lieve e il silenzio del giardino delle rose hanno accolto il mio arrivo nella casa.
Ho respirato quel silenzio per qualche ora e poi accompagnata dalla prima edizione Oscar Mondadori del Diario di una scrittrice, che il fratello del dottor Gherardo P. mi prestò in un remoto novembre del secolo scorso, e dai Meridiani dedicati a Virginia Woolf curati da Nadia Fusini, sono andata alla libreria Rinascita e ho raccontato la "mia" Woolf, partendo proprio dalla storia di quella copia del Diario e ho intrecciato le sue annotazioni agli avvenimenti della vita e poi alle prime e ultime righe di alcuni dei suoi romanzi: Jacobs's room, Al faro, Orlando, Le onde. Ho sentito e visto l'attenzione e le emozioni delle donne e degli uomini presenti. Non è semplice fare un discorso unitario su una scrittrice così imponente e particolare. Dopo tanti anni dalla mia prima lettura, ancora mi meraviglio del suo genio e della bellezza di quello che ha scritto. Così, a circa ottanta anni di distanza dal tempo in cui scrisse quelle parole, oggi pomeriggio eravamo con lei, presi in trappola dalle arti sapienti di una scrittrice che sapeva intessere nella trama narrativa momenti di poesia assoluta. E che sapeva illuminare le metafore con un ritmo della lingua unico. 
Era bello essere lì con tutte e tutti voi. 

E.P.

Je responderay: io risponderò, sarò responsabile

Ciò che chiamiamo "motto" è probabilmente un concetto estraneo ai giovani d'oggi. Guardando dalla mia epoca a quest'altra, mi rendo conto che questo concetto - la parola, le mot, il motto - è uno dei fenomeni della vita che col passare del tempo hanno decisamente perso valore. Per i miei coetanei il nome era la cosa o l'uomo, addirittura la parte migliore di un uomo, e dire che egli valeva quanto la sua parola era un grande complimento.
(...)
La famiglia inglese dei Finch Hatton ha nel suo stemma la divisa 
« Je responderay ». Credo lo abbia da molto tempo, visto che è scritto in francese antico; 
(...)
Questo vecchio motto mi piaceva tanto che chiesi a Denys, che era sbarcato in Africa prima di me, ..., se potevo farlo mio.
Lui me lo regalò generosamente e me lo fece incidere persino su un sigillo. Quella divisa mi era cara e per me significava molto, per diversi motivi, di cui uno in particolare.
Il primo era il grande valore che dava alla risposta in sé. Perché una risposta è una cosa molto più rara di quanto in genere si creda. Ci sono molte persone estremamente intelligenti che non hanno nemmeno una risposta. Una conversazione o una corrispondenza con loro non è altro che un doppio monologo; sia che tu le accarezzi appena, sia che le colpisca con forza, non manderanno un'eco più sonora di un ciocco di legno. E allora come si fa a continuare a parlare?
Nelle lunghe valli degli altopiani africani sono stata circondata e seguita da echi soavi come quelli di una cassa armonica. Laggiù la mia vita quotidiana era piena di voci che rispondevano, non parlavo mai senza ottenere risposta, parlavo liberamente e senza soggezione, anche quando tacevo. 
Una spiegazione era, credo, che vivevo molto in alto a più di duemila metri sopra il livello del mare, per così dire sul tetto del mondo, dove l'aria sembra l'elemento dominante e tende a trasformare tutti i cuori in arpe eolie.
(...)
In secondo luogo amavo il motto dei Finch Hatton per il suo contenuto etico. 
Io risponderò di quello che dico o faccio; corrisponderò all'impressione che do. 
Sarò responsabile.

Karen Blixen
Dagherrotipi
I miei motti
(discorso pronunciato al Dinner Meeting Address del 28 gennaio 1959)
traduzione di Bruno Berni
Adelphi 1995

venerdì 7 giugno 2013

Le cose belle di una giornata a Milano

Le cose belle di una giornata a Milano non sono poche.
Il profumo dei gelsomini andando al lavoro.
La passeggiata dopo pranzo dal Duomo sino a Cairoli camminando a passi piccoli e lenti.
Lo sguardo che indugiava sui passanti e sui vecchi palazzi.
L'angolo di città proprio dietro il teatro Dal Verme dove mi sembra sempre di essere in un'altra epoca.
Il chiosco di libri usati che non mi delude mai.
La fortunosa scoperta di un libro introvabile di Karen Blixen, Dagherrotipi.
La risposta a una domanda non fatta che ho trovato nel libro.
La chiacchierata con la signora del chiosco dei libri usati.
Il profumo di un caffè appena fatto.
Il sole sfrangiato dal vento.
Il profumo dei gelsomini tornando a casa.
La lettura ad alta voce a un amico del saggio della Blixen 
I motti della mia vita
La lunga conversazione che ne è scaturita.
L'adesione a più di uno di questi motti ma soprattutto a due in particolare:
Je responderay e Pourquoi-pas?

A domani non la spiegazione ma le citazioni.

E.P.

mercoledì 5 giugno 2013

La frase si ritirava verso il suo segreto


E così, vicino alla fine, in fondo all'ultima pagine, è come se tu, con quelle parole, mettessi la tua firma: "Vi è la cenere". Leggevo, rileggevo; era così semplice ma capivo benissimo che non c'ero per nulla: senza attendere me, la frase si ritirava verso il suo segreto.

Tanto più che quella parola, là, non era là per essere udita. Mentre mi limitavo ad ascoltarla, con gli occhi chiusi, mi piaceva lasciarmi andare a mormorare la cenere, confondendo quel là, appunto, col femminile singolare dell'articolo determinativo. Dovevo decifrare senza perdere l'equilibrio, in bilico tra l'occhio e l'orecchio: non sono sicura di essere riuscita a trovare, là, un punto di arresto.

Per parte mia, avevo dapprima immaginato che cenere fosse là, non qua, ma là, come una storia da dipanare: la cenere, questa vecchia parola grigia, questo tema polveroso dell'umanità, immagine immemoriale che si era disfatta da sola, metafora o metonimia di se stessa. È questo il destino di ogni cenere, cenere separata, consumata, come cenere di cenere. Chi mai oserebbe affrontare ancora il poema della cenere? E quanto alla parola "cenere", mi piace immaginare che essa stessa sia davvero una cenere, nel senso di qualche cosa che fu, là, in fondo, lontanissima nel passato, memoria perduta per tutto ciò che non appartiene più al qui. Di conseguenza, la sua frase avrebbe inteso significare, senza più: la cenere non è più qui. Ma è mai stata qui?

Jacques Derrida
Ciò che resta del fuoco
traduzione di Stefano Agosti
Sansoni Editore 1984

martedì 4 giugno 2013

L'ebbrezza della luce

Di ritorno dal Cairo, Flaubert scrisse a un amico: "Ho acquisito la certezza che le cose previste accadono di rado". 
Nelle città del Mediterraneo è spesso così. Non trovi mai davvero quello che eri venuto a cercare. Forse perché questo mare, i porti che ha generato, le isole che culla, le linee e le forme delle sue rive rendono la verità inseparabile dalla felicità. L'ebbrezza stessa della luce non fa che esaltare lo spirito di contemplazione.
L'ho scoperto a casa mia, A Marsiglia. Vicino alla baia des Singes, ben oltre il porticciolo di Les Goudes, all'estremità orientale della città. Ore e ore a guardar passare nello stretto di Les Croisettes le barche di ritorno dalla pesca. È qui, e in nessun altro posto, che queste mi sembrano, mi sembreranno sempre le più belle. Ore e ore ad attendere quel momento, più magico di qualsiasi altro, in cui un cargo entrerà nella luce del sole al tramonto e vi scomparirà per una frazione di secondo. Il tempo di pensare che tutto è possibile.

Jean-Claude Izzo
Aglio, menta e basilico.
Marsiglia, il noir e il Mediterraneo
(Mediterraneo delle felicità possibili/1)
traduzione di Gaia Panfili
edizioni e/o 2006


lunedì 3 giugno 2013

La vita che ho inventato

Uno scrittore è responsabile della vita che ha inventato, non di quella che ha vissuto.

Lalla Romano 
Diario ultimo
a cura di Antonio Ria
Einaudi 2006

domenica 2 giugno 2013

Un giorno di tregua domenicale, la poesia di una città

Vento largo e caldo. 
Luce morbida e lunga sui tetti.
Rondini in picchiata riempiono d'allegria il cielo.
I ragazzini-gelsomini sono fioriti da martedì scorso e al tramonto si schiudono e diffondono il loro intenso profumo sui passanti. E io passo davanti a quella cancellata chiudendo gli occhi e affondando il viso nella fioritura.
Oggi è la prima domenica di giugno, di questa strana primavera che non è iniziata e sta per finire. Godo di questa giornata di tregua, del cielo smaltato, delle case che risplendono, dei visi degli estranei che passeggiano e so che condividiamo lo stesso piacere.
Sul suo balcone mia madre mi mostra la fioritura dei gerani rossi e rossa, delle ortensie dal colore ancora incerto, delle ginestre dal giallo appena accennato, dei garofanini rossi e altezzosi, dei piccoli cespugli di rose rosa, malva e rosse, del basilico che inizia appena a profumare, della menta già alta e vigorosa.
In giardino gli alberi storpiati dalla potatura dissennata dell'anno passato - mi chiedo che competenze avessero quei massacratori che hanno tagliato rami possenti e vecchi di mezzo secolo - si sono presi la loro rivincita e le foglie nuove si stirano pigre seguendo il vento nella sua danza. 
Nel mio quartiere le due torri novecentesche svettano e mi riportano a un giugno di tre decenni fa, quando uscita dal cinema Zenit, che era dove ora c'è la Feltrinelli in piazza Piemonte, ero rimasta abbagliata dalla loro solennità di pietra che incideva l'azzurro del cielo e teneva sospesa una falce di luna e una stella proprio in cima ai tetti che si specchiavano uno nell'altro. I locali sono pieni di gente che mangia e beve, chiacchiera e ride. Una tregua domenicale per tutti gli abitanti della capitale del nord, per accogliere la settimana che viene e i soliti problemi seri e grevi che sembra non trovino rimedio. Ma questa sera voglio pensare solo al profumo dei gelsomini per averne nostalgia quando la notte sarà scesa e il sipario della luce sarà solo stella o lampione.

E.P.

La gioia di scrivere

Piacere. Gusto, Com'è raro sentire usare queste parole. Com'è raro vedere la gente vivere o, a proposito, creare, sottomettendosi a loro. 
Eppure se mi chiedessero di nominare i principali componenti della natura di uno scrittore, le cose che formano il suo materiale e lo spingono lungo la strada per la quale vuole andare, io potrei solo consigliare di seguire il proprio piacere, il proprio gusto.
Avete il vostro elenco di scrittori preferiti; io ho il mio. 
Dickens, Twain, Wolfe, Peacock, Shaw, Molière, Jonson, Wycherly, Sam Johnson. 
Poeti: Gerard Manley Hopkins, Dylan Thomas, Pope.
Pittori: El Greco, Tintoretto.
Musicisti: Mozart, Haydin, Ravel, Johann Strauss (!).
Pensate a tutti questi nomi e penserete a grandi o piccoli, nondimeno importanti, piaceri, appetiti, desideri. 
Pensate a Shakespeare e a Melville e penserete al tuono, al fulmine, al vento.
Conoscevano tutti la gioia di creare in forme grandi o piccole, su canovacci illimitati o ristretti. Questi sono i figli degli dei. Conobbero la gioia nel proprio lavoro. Non importa se la creazione arrivò con difficoltà, qui e là lungo la strada, o se le malattie e le tragedie toccarono le loro vite più intime. Le cose importanti sono quelle che ci sono arrivate dalle loro mani e menti, e queste scoppiano di vigore animale e vitalità intellettuale. I loro odi e i loro sconforti sono stati trattati con una specie di amore.
Guardate l'allungamento di El Greco e ditemi, se potete, che non provava gioia nel suo lavoro. Potete veramente sostenere che Dio che crea gli animali dell'universo del Tintoretto è un lavoro fondato su altro che non sia il "divertimento", nel senso più ampio e più pienamente sviluppato del termine?
Il Jazz migliore dice "Gonna live forever; don't believe in death". (Vivrai per sempre, non credere alla morte).
E la migliore scultura, come la testa di Nefertiti, dice e ripete "La Bellezza è stata qui, è qui, e sarà qui per sempre". 
Ciascuno degli uomini che ho nominato ha raccolto un pizzico di argento vivo dalla vita, l'ha conservato nel tempo e ha costretto, nella fiamma della propria creatività, a voltarsi verso di esso e dire "Non è forse bello?". Ed era bello.
Cos'ha a che fare tutto ciò con lo scrivere i racconti dei nostri tempi?
Solo questo: se scrivi senza piacere, senza gusto, senza amore, senza divertimento, sei solo un mezzo scrittore.
Significa che sei così occupato a tenere d'occhio il mercato o a prestare orecchio al versante avanguardistico, che non sei te stesso. Non conosci neanche te stesso. 
Prima di tutto uno scrittore dev'essere, è, agitato.
Dev'essere una cosa di febbri e entusiasmi.
Senza questa forza, farebbe bene a uscire a raccogliere pesche o a scavare dei fossi. Dio sa che sarebbe meglio per la sua salute.
Quanto tempo c'è voluto perché voi scriveste una storia dove il vostro vero amore e il vostro vero odio finissero sulla pagina? Quand'è stata l'ultima volta che avete avuto il coraggio di abbandonare un pregiudizio che vi è caro e allora la pagina è stata come illuminata da un fulmine? Quali sono le cose migliori e le peggiori della vostra vita, e quand'è che comincerete a sussurrarle o a gridarle?

Ray Bradbury
La gioia di scrivere in
Lo zen nell'arte della scrittura
Libera il genio creativo che è in te
traduzione di Paolo Nori e Salim Catrina
DeriveApprodi 2000

Il Grande Mah: sullo scrittore come emblema della decadenza del mondo occidentale


Di norma non scrivo di libri o film che non mi siano piaciuti. Di norma. 
Però dopo avere trascorso oltre due ore a chiedermi dove fosse nascosta la Grande Bellezza ho deciso di dedicare qualche riga al nuovo (?) film di Paolo Sorrentino da cui mi aspettavo moltissimo. Mi aspettavo, appunto.

Gep Gambardella, lo splendido (in altri film) Toni Servillo, è uno scrittore napoletano trapiantato a Roma. Famoso per essere stato famoso quaranta anni fa con il romanzo L’apparato umano (spero di non sbagliare il titolo del capolavoro) vive una vita notturna di feste dal sapore anni Ottanta, che dovrebbero essere l’emblema della decadenza romana e italiana, con gente semi-famosa che balla al ritmo di suoni quasi tribali, preoccupata dell’apparire giovane e desiderabile più di qualunque altra cosa. Non memorabile e non emblematico, a questo proposito, il chirurgo che fa le “punturine” in faccia agli un tempo-giovani-e-belli.
Se il lato profano e trasgressivo della sua vita sta nelle scorribande notturne e in frettolosi e noiosi rapporti amorosi – è la povera Isabella Ferrari/Orietta, milanese che di lavoro fa la ricca -  a fare le spese della decisione di Gep di non perdere altro tempo perché ormai ha compiuto 65 anni, il lato sacro dovrebbe essere rappresentato dalle suorine che raccolgono le arance, dai bambini in abito bianco che lo osservano rientrare a casa il mattino – le passeggiate di Gep sono però davvero belle: nessuno cammina come Servillo -  dal cardinale in odore di soglio pontificio ossessionato dalle ricette a cui Gep arriva persino a fare domande spirituali. E non avendo avuto soddisfacenti risposte, torna a cuore leggero a occuparsi del suo nulla quotidiano.

Ma perché Gep è uno scrittore? È vero che in realtà vive del suo lavoro di intervistatore di gente famosa per una improbabile rivista diretta dalla forse unica amica Dadina, disincantata e a suo modo saggia, che lo accudisce con piatti caldi condivisi sulla sua scrivania ed è l’unica che dopo secoli lo chiama Geppino e non se ne va dalla sua vita. L’amico Carlo Verdone/Dante – che ha trascorso in adorazione di Gep qualche decennio e scrive soprattutto per conquistare un’attrice fallita che è diventa scrittrice – se ne torna al paese sconfitto al punto da abbandonare a Roma tutte le sue cose. Sono almeno tre, poi, gli scrittori citati nel film: Céline scomodato per l’esergo, Proust perché l’attrice sta scrivendo un romanzo dal sapore proustiano e il suicida Andrea, vittima di una madre vecchio stile, ne ha paura, e infine Flaubert, che avrebbe voluto scrivere un romanzo sul nulla. Nella sua bella casa, vicino e dietro a un letto che sembra un gommone, una zattera di salvataggio, vediamo in file ordinate e ossessive una bella collezione di libri Einaudi del secolo scorso, dagli inconfondibili dorsi bianchi o bianchi e rossi. Gep è quindi stato un intellettuale organico, a un certo punto durante una conversazione in terrazza dove smaschera le velleità dell’amica scrittrice prolifica e modaiola, viene addirittura citato il Partito.

Le altre figure che dovrebbero essere emblematiche sono la bambina pittrice-performer che scaraventa i colori e se stessa sulla tela piangendo lacrime vere, l’artista che prende a “capate” il muro di un acquedotto, tutta nuda e urlante, Sabrina Ferilli, malinconica spogliarellista con la villetta, Suor Maria detta la Santa – ma l’attrice forse era un attore – che parla con i fenicotteri e dorme sul pavimento e si nutre di 40 grammi di radici al giorno perché le radici sono importanti, le principesse che giocano a carte e il giovane affidabile che ha le chiavi di tutti i portoni, la coppia di nobili Colonna-Reggio che costano 250 euro a persona e si spostano solo in limousine e interpretano un’altra coppia di nobili a una cena sulla terrazza di Gep. E non ultimo il vicino di casa silenzioso e tetro che sembra un finanziere milanese e si rivela poi uno dei dieci ricercati dalla polizia più pericolosi.

Ma tutte queste figura restano prigioniere della loro grottesca caricaturalità che vorrebbe essere felliniana, ma resta solo grottesca e non compiuta. Quando Gep è solo nella sua cameretta passa il tempo a guardare il mare sul soffitto e a ricordare l’amore perduto della sua gioventù che lo aveva lasciato senza spiegazioni sempre 40 anni prima. La sua innamorata Elisa, nel frattempo è morta e il vedovo scopre in un diario chiuso con il lucchetto che lei ha amato tutta la vita Gep e che lui, marito devoto, è stato solo un buon compagno che ha meritato solo due righe di citazione. Quando lo scrittore va a chiedergli di poter leggere il diario lui gli rivela di averlo gettato pochi giorni dopo il funerale e gli presenta la sua nuova compagna/badante con cui trascorre delle serene serate a guardare la televisione.

Il risultato finale è una Grande Sconnessione, dove sì Roma è bella, ma niente che non avessimo già visto e l’incantato turista giapponese che stramazza al suolo, non si capisce se a causa di un infarto o della Sindrome di Stendhal, forse in realtà era appena uscito dal cinema dopo avere visto il film di Sorrentino. Non che non ci siano buone cose, battute divertenti di Gep e dell’amico che esporta giocattoli anche ai Cinesi, la musica che irrompe spesso, bellissima, che però aumenta l’effetto generale di Maionese Impazzita.

Che dire alla fine? Un appello almeno lo voglio fare – anche perché l’altra grande delusione cinematografica recente (vedi post relativo) è stata il film Nella casa di Ozon: registi lasciate in pace gli scrittori!

È già così difficile interpretare la parte dello scrittore in un mondo dove tutti scrivono e si auto-pubblicano che vorrei cercare di mantenere intatta nella mia immaginazione la figura dello scrittore interiore che mi accompagna dalla più tenera gioventù: una persona sola e solitaria - uomo o una donna che sia -  seduta a un piccolo tavolo ingombro di carte scritte mano, di quaderni di appunti squadernati a pancia all’aria, di una risma di fogli intonsi – bianchi o azzurri – che aspettano il loro turno come condannati, di una vecchia macchina da scrivere Olivetti di metallo nero con i tasti avorio, di tazze di tè o caffé semi-vuote, di matite senza la punta e stilografiche essiccate, di dizionari consumati dall’uso, di portacenere pieni di cicche e un filo di fumo che sale verso il soffitto, di una luce che illumina il tavolo ma non la stanza che è in penombra, e dove si intravedono librerie piegate dal peso dei libri, che stanno anche sul pavimento in instabili torri che creano un paesaggio che è tutto il mondo di cui lo scrittore ha bisogno, perché la finestra è alle sue spalle e le imposte sono chiuse se è giorno, ma nella mia immaginazione è quasi sempre notte, come adesso, e le albe arrivano rotolando e ghermendo con dita rosate la notte che è la vera compagna di chi scrive. E per scrivere non serve altro che un mozzicone di matita, qualche foglio bianco, la capacità di stare seduto da solo per ore. E non pensiate che questo sia un sacrificio e la vita stia altrove, lo scrittore sta seduto solo a un piccolo tavolo per ore, riempiendo quaderni e fogli, ticchettando sulla macchina da scrivere o sul meno emblematico portatile, proprio perché non c’è niente di più che gli piaccia al mondo. E a Gep scrivere sembra proprio che gli piaccia poco.

E.P.