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venerdì 24 giugno 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/838. Quanto sei bella Roma quando è sera

 


  

Prima di partire dall’Umbria per Roma, sono rimasta parecchio a guardare il lago Trasimeno e la bellezza del paesaggio intorno, quanto mi è mancato viaggiare in questi anni…. come a tutto il resto del mondo. Ormai faccio davvero fatica a restare seduta davanti al computer a lavorare, fare call, corsi. Via, via, via… voglio stare in giro, ascoltare la voce delle persone dal vivo, abbracciarle, fermarmi a guardare il cielo e continuare a pensare che in questa bolla di mondo che il destino ci ha riservato, possiamo fare finta di niente e vivere come se non ci fossero la guerra, la pandemia in recrudescenza, la siccità. È davvero uno scenario da pre-apocalisse, ma lo ignoro, volutamente. Raffaella mi accompagna alla stazione e poi parte per uno dei suoi molti viaggi di lavoro. Ho il tempo di fare colazione in pasticceria e fare un po’ di osservatorio antropologico, una delle mie attività preferite. Colgo frammenti di conversazione tra la barista e gli avventori, poi vado in stazione dove una pattuglia della Polizia di Stato, chiede i documenti a tutti i presenti. Finalmente è ora di partire, il viaggio per Roma non è lungo, e sui treni regionali si vede la vera Italia che viaggia, lavora, dorme, ride, ascolta musica ad alto volume. Quel che non ho calcolato è che il treno regionale arriva alla stazione Termini nell’ultimo binario, proprio fuori, fuori, e sotto un sole cocente bisogna trascinarsi sino all’uscita. Affaticata non prendo in minima considerazione l’idea di andare coi mezzi pubblici e prendo un taxi, in una coda di taxisti nervosi che temono che gli altri rubino i clienti, che pure sono tanti. Infatti, due litigano violentemente e si prendono a male parole, alla fine salgo sul mio taxi e dopo aver dato l’indirizzo della mia amica Camilla, mi immergo nella bellezza eterna della città eterna, assediata da cinghiali e rifiuti, ma non in tutti i quartieri. Quando arrivo lei e suo figlio Nico mi stanno aspettando per il pranzo. Prima mangiamo una zuppa fredda di zucca e carote, poi pomodori ripieni di riso al forno, insalata fredda di pollo, mozzarella e pomodoro. Mangiamo un poco di tutto e avanzerà abbastanza cibo per il mio pasto serale. Dopo pranzo Nico sparisce in camera sua e io e Camilla ci adagiamo sui divani paralleli del soggiorno e iniziamo a parlare di Celan, Kafka, Bachmann, di tutte le cose accadute in questi anni, dei figli cresciuti, dei libri scritti e da scrivere. Nel tardo pomeriggio Camilla e suo marito Paolo partono perché devono seguire dei lavori nella casa in campagna, che è in Umbria, non molto lontano da Piegaro, dove ero io sino a qualche ora prima. Quando loro sono partiti e sono rimasta sola in casa ho sentito forte le stesse emozioni che ho provato la prima volta che sono venuta a trovarli, un senso di casa e di famiglia, loro hanno quattro figli, e di benessere. Resto per un po’ ancora a leggere allungata sul divano, poi vado in terrazza ad ascoltare le rondini, a guardare un cielo che si tinge di rosa, ad ascoltare le voci degli avventori dei bistro e ristoranti che sono nelle numerose vie che si incrociano. Apparecchio la tavola in maniera spartana, recupero dal frigorifero il cibo avanzato dal pranzo, una bottiglia di acqua fresca e mi lascio cullare dall’atmosfera dolce e romana. Prima di andare a dormire leggo e sono gioiosa per questo venerdì 24 giugno del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 838 è lieta di essere qui con me a Roma.

giovedì 23 giugno 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/837. Impressioni di Perugia e dintorni

 


 

Impressioni di Perugia la prima volta che la visito: Medioevo, allegria, curiosità, bellezza, a misura umana. Il mattino facciamo una lunga passeggiata per le vie del centro, fermandoci a guardare le facciate dei palazzi, i cortili, le facce dei perugini, a respirare i profumi che escono dai forni e dalle pasticcerie. Dopo un pranzo rapido in una piazza attraversata da pochi turisti, torniamo a casa di Raffaella, l’editrice di Kaba Edizioni che mi ha invitato a presentare il nuovo libro di Anna Maria Farabbi La via del poco, in coedizione tra piédimosca edizioni e Al3vie, una raccolta di otto plaquette uscite negli anni che trovano insieme una nuova vita e contribuiscono a dare il senso all’opera raffinata della poetessa. Nel pomeriggio scendo in giardino, mi ronzano intorno api e farfalle, il profumo delle piante che mi circondano è intenso è persistente, mi riempio gli occhi di verde e provo una gioia creaturale perfetta. Il gatto – o gatta ? – che si è presentato alla porta ieri sera miagolando a voce altissima sino a quando non abbiamo condiviso il prosciutto crudo che stavamo mangiando insieme a un melone dolcissimo, non appena mi siedo per rileggere gli appunti e prepararmi alla presentazione che ci sarà nel tardo pomeriggio da POPOUP libri-spunti-spuntini, arriva e inizia a fare le fusa, si rotola nel prato, mi salta in braccio, mi dà tenere testate sulla guancia e poi si sdraia accanto a me. Le ore che passano sono perfette, una vita più vita, grazie alla natura nella quale sono immersa e alla presenza dell’adorabile micio. Poi arriva l’ora di tornare in città, la libreria è in uno slargo che mi ricorda un borgo ligure, c’è una fontana, le case rosa, gialle e verdi, la gente inizia ad arrivare, ci accomodiamo, beviamo acqua fresca, chiacchieriamo, poi inizia la presentazione, Anna Maria legge alcuni testi su mio invito, ha una voce molto bella e una grande capacità interpretativa. Del suo libro vorrei parlare in un post dedicato, così mi limito a copiare una poesia.

 

 

È la freccia scoccata dal dio delle origini

che affonda precisa/mente

dentro la terra vivente

della mia fronte

Sono milioni di uccelli

in uno stormo a punta

che vengono a riprodursi in me

nel brevissimo periodo del disgelo

 

 

Prima di ripartire ci fermiamo a comprare al volo due pizze, così scopro che in Umbria la quattro stagioni la fanno col prosciutto crudo e mezzo uovo sodo. Farò felice il micio, ne sono certa. La mia pizza alla fine la mangio in macchina, non tutta, e quando arriviamo a casa ecco che subito il gatto arriva a chiedere la pappa. Mangia senza esitazione il prosciutto, ma di fronte all’uovo sodo, si ferma e mi guarda, come se mi stesso dicendo “Ma davvero devo mangiare questa roba gialla e bianca?”, alla fine mangerà solo il tuorlo. Quando ha finito se ne va e mi intristisco un po’, perché non so se e quando ci rivedremo. Ecco che finisce così questo giovedì 23 giugno del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 837 afferma con decisione che l’uovo sulla quattro stagioni non ci va.

sabato 11 giugno 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/825. Una lingua millenaria che solo gli alberi conoscono

 


 

I viaggi lenti sono i miei preferiti, i viaggi in treno soprattutto, perché posso guardare il mutare del paesaggio, fantasticare, dormire, leggere e contare le stazioni che mancano all’arrivo. È stato un viaggio lento quello odierno in compagnia di Elisabetta e Roberta e la meta era una regione remota dell’Italia centrale a me sconosciuta, gli Abruzzi che al plurale mi piace di più. Siamo partite all’inizio del pomeriggio e arrivate in tarda serata. Poi abbiamo depositato i bagagli in albergo e raggiunto le amiche e gli amici per bere qualcosa. Il profumo del mare si mescolava con quello della pineta che separa il lungomare dalla strada principale che attraversa il paese. Gli invitati del Nord erano arrivati tutti, c’era un’allegria diffusa e quando i quasi sposi sono arrivati, abbiamo notato subito che lei sprizzava gioia come una ragazzina. Abbiamo tirato tardi ridendo e scherzando e poi siamo tornati in albergo. Dal balconcino della mia camera vedo le colline illuminate, l’aria è sempre profumata e il paesaggio mi ricorda quello calabrese della mia infanzia. Si sta bene sul balconcino, così prendo uno dei quattro libri che mi accompagnano in questo viaggio e leggo una poesia, quella sulla copertina della raccolta Quando non ci sono:

 

Vogliamo imparare in due giorni

una lingua millenaria

che solo gli alberi conoscono:

lasciarsi cullare dall’aria,

mentre le foglie dicono me ne vado

e le radici resto qui.

 

 

Una giornata lunga e bella questo sabato 11 giugno del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa breve Cronaca 825 si accontenta di tutta la bellezza che abbiamo condiviso.

lunedì 25 aprile 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/778. Ora e sempre Resistenza

 

 


Come ogni anno canto a squarciagola Bella ciao e vado su Youtube a cercarne diverse esecuzioni, ogni anno mi rivedo i Modena City Ramblers e Bregovic. Poi, già che ci sono canto anche la Marsigliese in francese, che l’ho imparata da bambina con la mitica professoressa Carla Colombo, visto che in Francia non è accaduto il peggio temuto. Già che ci sono non può mancare anche El Pueblo Unido Jamás Será Vencido cantata dagli Intillimani. E poi anche Fischia il vento e mi vengono in mente le vicissitudini di Federico “Ico”, padre del mio amico Dario che è stato un giovanissimo partigiano e poi un brillante medico. Il tempo è cambiato in questi giorni e ogni tanto piove, con tuoni fortissimi, che sembra di essere sotto uno di quei temporali estivi che una volta esplodevano solo dalla seconda metà di agosto. Il cambiamento climatico è un fatto incontrovertibile, come lo scioglimento dei ghiacciai, i grandi fiumi in secca, le intelligenze che sono evaporate con l’acqua, la pandemia che impazza, gli idioti che attaccano la Brigata Ebraica durante la manifestazione del 25 aprile. Uno dei pochi punti fermi della vita, anche se è la creatura più mobile e irrequieta che io conosca, è la mia amica Elisabetta che ho visto nel tardo pomeriggio per una passeggiata e un po’ di chiacchiere. Per fortuna aveva smesso di piovere, così abbiamo passeggiato un po’ e poi ci siamo sedute all’aperto in un bar in piazza Wagner a bere un aperitivo analcolico. Abbiamo parlato di un mucchio di cose come al solito, degli scritti autobiografici di Françoise Héritier, notevole antropologa già allieva di Claude Levi-Strauss e moglie di Marc Augé, del prossimo viaggio che lei farà in Finlandia, del desiderio di muoversi, scrivere, creare. E dello scontro quotidiano con la realtà, con la guerra, con la pandemia, con il lavoro e così andando e tornando. Sgranare i pensieri con un’amica è sempre un momento importante, non solo di condivisione, ma anche di chiarezza e liberazione. Così com’è stato anche ieri con Rossana e stasera con Annalisa, anche loro amiche amatissime che vedo molto meno spesso di quanto vorrei.

Ecco non ho molta voglia di scrivere altro per questa sera, penso che andrò a rivedermi i video di Bella ciao, che mi sembra un bel modo per concludere questo lunedì 25 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra. Con questa Cronaca 778 ci siamo messe il fazzoletto rosso al collo e anche le scarpe da ginnastica per correre meglio incontro al futuro.

sabato 19 marzo 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/741. Ma restare è come partire…

 

 


 

Viaggiare è la cosa che più mi è mancata in questi anni, viaggiare con in mente una vaga idea della meta e una ancor più vaga idea del percorso. Tutti i viaggi che ho fatto e che farò sono viaggi della memoria e del sentimento e allora mi affido a viaggio poetico di Kate Clanchy.

 

 

Viaggiare

 

(alla maniera di Gösta Ågren)

 

Se dovessi andare a Samarcanda

magari troveresti Sherazade

in mille riproduzioni,

vestita di lustrini, come souvenir,

e le cupole dorate di Al-al-Din

ricoperte di segnali turistici sovietici

e ossidate, su un cielo metallico.

 

Ma restare è come partire.

Da qui si stendono i campi

dell’Oxfordshire

già del colore di una sovrana d’oro.

E quando il fieno è raccolto in balle

che sembrano ruote, e l’occhio corre

dai solchi scuri dei trattori all’orizzonte

nudo dell’autunno,

là brucerà là Samarcanda

 

e Samarcanda, e Samarcanda.

 

 

Andrò a Samarcanda quando si potrà ricominciare a viaggiare. Sarà un sogno e sarà reale. Lo prometto a questa Cronaca 741 di sabato 19 marzo del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra. La poesia è tra da Poesia 193 Aprile 2005 e dal libro di Kate Clanchy  Dall’Oxfordshire a Samarcanda, Crocetti Editore 2005

venerdì 25 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/719. Stazioni di arrivo e stazioni di partenza



 

"Questa non è casa tua, spostati, mi dai fastidio”. Questa mattina mi sono svegliata con queste parole in testa e negli occhi le prime immagini dell’invasione dell’Ucraina. Prima ancora di essere ben sveglia mi sono ritrovata a pensare alle immagini che i media stanno pubblicando e che questa invasione sarebbe stata il Vietnam della Russia. Come tanta gente nel nostro mondo, non ho competenze politologiche, leggo e ascolto molto, mi dispero. Ho cercato di mantenere un po’ di distanza, ma non è facile, come fare a non disperarsi? Così adesso, dopo due anni di pandemia, ci ritroviamo di fronte a un’invasione che potrebbe essere il prologo della terza guerra mondiale, una guerra che forse è già iniziata e ancora non lo abbiamo capito. Più che continuare a guardare telegiornali e leggere reportage, mi sono rifugiata nei libri e sono tornata a immergermi nei 19 incontri di Paolo Di Paolo con altrettanti scrittori.

«Contatti magici»

Amava stanare gli scrittori, il giovane Frederic Prokosch, scrittore a sua volta. Li cercava come si cercano i libri e i dolci. O i padri.

«Potrei parlare con la signora Woolf?».

«Temo che la signora Woolf sia occupata».

Ha poco più che vent’anni, l’americano Prokosch, un fascio di fogli sotto il braccio e molta emozione addosso, quando si affaccia sulla soglia della londinese «Hogarth Press» per incontrare la grande scrittrice. «Era seduta dietro una cascata di bozze e teneva una matita dritta sullo scrittoio». Si guardano. Frederic comincia a parlare delle sue poesie (ne ha portate con sé alcune). «Sarò felice di leggerle, dal momento che sono soltanto trentatré...», sorride sarcastica Virginia.

«Oh, signora Woolf», dissi affannosamente, «non è questa la ragione della mia visita. Sono venuto perché...».

«Voleva guardarmi in faccia, suppongo». All’improvviso il contatto magico era stato stabilito. Il suo viso si delineò meglio, come

in una pellicola sotto l’azione dell’acido.

«Esattamente» dissi.

(…)

La domanda da cui ogni volta sono partito, ha a che fare con i libri. E con i luoghi. Nasce dalla volontà di capire che cosa lega, che cosa può legare pagine di carta e inchiostro alla geografia fisica e sentimentale. Nella vita di ogni lettore appassionato, ci sono singolari corrispondenze tra libri e paesaggi attorno. Per questo, «la tentazione di accoppiare luoghi e letteratura – ha scritto Giorgio Montefoschi – non ce la scrolliamo di dosso». Per questo, se andiamo a San Pietroburgo, mettiamo in valigia un romanzo di Dostoevskij; e se passeggiamo per le strade di Parigi, può tornarci sulle labbra un verso di Baudelaire. Sarà che spesso le parole di un poeta si rivelano più utili di quelle stampate sulle guide turistiche. Sarà che i libri ci tengono compagnia (e in viaggio spesso siamo soli); ci aiutano a mettere a fuoco dettagli, a fare scoperte, a ricordare. Ma anche, banalmente, a passare il tempo. Si racconta in proposito di tale Sir Richard Morison che, partito da rive inglesi al la volta della Germania, riuscì a leggere in viaggio tutto Erodoto, cinque tragedie e tre orazioni di Isocrate e altre sette di Demostene, in lingua originale. Ma era il 1550 e, per arrivare, impiegò ventisei settimane. In queste pagine si racconta di romanzi che mettono addosso il desiderio di partire; di viaggi fatti sulle tracce di scrittori amati; di strani cortocircuiti che si attivano quando un libro sfiora il paesaggio dell’infanzia, o una terra lontanissima in cui ci perdiamo, o ancora, semplicemente, la nostra poltrona in salotto. Per ogni viaggio, quindi, ci sono stazioni di arrivo ma anche di partenza. Che, messe l’una accanto all’altra, disegnano un itinerario tutto italiano: dal mare di Genova a Orbetello, da Piacenza a Castellammare di Stabia, giù fino a Vigàta, che forse non esiste, o forse sì. A spiegare quanto decisivo sia il luogo da cui ci muoviamo, pensa Raffaele La Capria nelle ultime pagine: «Viaggi, conosci paesi nuovi e diversi, per sapere qualcosa che già stava scritto nel punto di partenza. Ma è al ritorno all’arrivo che lo scopri. Che scopri quanto sia parte di te».

Ecco finita la lunga citazione da Di Paolo, che ho copiato per poterla rileggere.

Resto nei libri oggi, fino a quando non esco a cena con due amiche che sono state anche colleghe. Si chiamano entrambe Paola, quindi sono le Paoline per estensione, e compiono entrambe gli anni il giorno precedente il mio compleanno, cioè il 28 giugno.

Ecco che anche questa Cronaca 719 di venerdì 25 febbraio del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra, si acquieta un po’ e mi accompagna a zonzo, in una serata fredda e luminosa.

mercoledì 23 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/717. Ogni viaggiatore è un grande occhio spalancato sul mondo

 



Stiamo qui in attesa, increduli che qualcosa di irreparabile possa accadere. Continuiamo a studiare, a lavorare, a scrivere e a leggere. Sono un po’ inquieta e oscillo di continuo tra il desiderio di stare rintanata in casa e il desiderio altrettanto forte di viaggiare, di ricominciare a viaggiare. Così ho iniziato l’ennesima risistemazione dei libri per avvicinare tutti i libri dedicati ai viaggi e al viaggiare. E poi, come faccio sempre, ne ho preso uno e ho iniziato a leggere, in questo caso rileggere. Il libro in questione è di Paolo Di Paolo, Ogni viaggio è un romanzo. 19 incontri con scrittori, e così ho smesso di sistemare gli altri libri.

Leggo la dotta introduzione di Pietro Citati che ammette che “Dopo anni di tranquillità e di pace, anche il sedentario è assalito dall’inquietudine. La vita, nella quale si adagiava così mollemente, ora lo soffoca. Gli stessi volti, che lo circondano da anni, le stesse parole ascoltate ogni giorno, la stessa cerchia nella quale vive con una indifferenza sempre più grande, senza vedere né ascoltare, sembrano stringerlo da ogni parte, con un’intenzione minacciosa. Egli teme di essere inchiodato per sempre nel medesimo luogo; e in segreto «col cuore grosso di rancore e di amari desideri», comincia a meditare la fuga, come tutti quelli che vogliono «cullare il loro infinito sul finito dei mari». La preparazione del viaggio è lenta e meticolosa. Raccoglie libri di ogni specie sul paese che visiterà, compra manuali di storia e di archeologia, e soprattutto le predilette guide di viaggio. Consulta le carte, studia gli itinerari, calcola le distanze: cerca di avere precisa nella mente la topografia di Luxor o di Amsterdam, di Palmira o di Praga; tenta di indovinare quale sorpresa lo coglierà ad ogni angolo della strada, come se, per un’ultima, invincibile resistenza, volesse consumare il viaggio prima di compierlo. Infine, l’aereo corre sulla pista, solleva il carrello, si slancia nel cielo, attraversa montagne di nubi; e mentre il viaggiatore slaccia la fibbia che lo tiene legato, l’ultimo distacco si compie dentro di lui. Si lascia tutto dietro le spalle, anche i volti più amati che sembrano cadere come ombre nel pozzo del passato. La vita che ha vissuto o finto di vivere, i libri che ha letto, i pensieri che ha coltivato per anni, gli sguardi che ha intrecciato con altri sguardi non esistono più. Ora egli è un grande occhio spalancato sul mondo: un occhio che non conosce passato e futuro, ma soltanto presente, e cerca di raccogliere quanto attraversa per un attimo la sua pupilla. Non ha molto tempo davanti a sé. Come tutti, sosta in alberghi anonimi e indifferenti, in aeroporti tediosi, percorre sopra un tassì nelle ore di un solo giorno lo spazio che altrimenti avrebbe percorso in un anno. I monumenti si affollano l’uno dopo l’altro nella sua mente; e sembra che le impressioni non abbiano il tempo di raccogliersi e di distinguersi. Ma proprio questa velocità dà al suo sguardo una forza visiva, che altri tempi ignoravano. Le linee essenziali del paesaggio vengono improvvisamente colpite dalla luce, le forme e i colori delle opere d’arte risaltano con un’intensità allucinante, ciò che è secondario viene cancellato, e i rapporti tra le tappe del viaggio, che un lungo soggiorno gli avrebbe nascosto, si intrecciano con una precisione geometrica. Così, il viaggiatore si accorge che il suo percorso non è casuale. Tra un aereo e un tassì, tra un albergo e un ristorante, il viaggio disegna senza che egli lo abbia voluto un itinerario simbolico, una forma misteriosa: qualcosa che accenna a un principio e a una fine, a ritorni, echi, pause e riprese; dove tutto è così carico di significati da generare una tensione quasi insostenibile”.

 

È questo anche per me il senso del viaggio?, mi chiedo mentre continuo a leggere e mi dimentico di tutte le altre incombenze.

Oggi è mercoledì 23 febbraio del terzo anno con un quasi Carnevale e questa Cronaca 717 ha deciso che è ora di andare a recuperare la tracolla da viaggiatrice, e credo che abbia ragione.

giovedì 30 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/571. Viaggiare su ogni confine del mondo, tracciare la mappa dei nostri sentimenti

 



Come si riconoscono i confini nel deserto se la linea è solo una teoria di granelli di sabbia?

Come possiamo sapere dove finisce il mare e dove inizia il cielo sul filo dell’orizzonte?

E che ne è stato di quel confine sulle rocce, soprattutto ora che la prima neve è caduta?

E noi siamo del mondo e nel mondo o la nostra pelle è confine tra noi e il mondo, tra noi e l’altro? Un confine è un confine anche quando è invisibile, può essere dentro di noi o fuori di noi, è ciò che ci distanzia dal mondo e ci definisce nel mondo.

Quando non ci sono altre mappe da tracciare, ma intuiamo che ci siano terre ancora inesplorate, ecco che possiamo scrivere Hic sunt leones e fermarci al di qua, dove la terra è nota e dove non verremo assaliti da belve feroci. Tracciare confini e violarli per andare a caccia, per depredare le terre altrui, pare che sia una delle attività predilette dalla nostra specie. Chi ha dominato politicamente il mondo negli ultimi due secoli ha tracciato confini col righello, insostenibili nella realtà. Chissà se qualche viaggiatore ha mai camminato su tutti i confini del mondo. Quanti chilometri saranno? Sarebbe possibile fare questo viaggio in questi non-luoghi tracciati per spartire, dividere, confinare? Sarebbe possibile vivere senza confini? Forse in una favola, non certo in questo mondo, non certo in questo tempo. Ora che tutto è stato mappato, che abbiamo mappe satellitari e fotografiche pressoché perfette, può continuare il mondo a essere un luogo interessante e misterioso? Per fortuna sì, perché è l’esperienza individuale di ciascuno che definisce un mondo e i confini. E dobbiamo averne fatto esperienza. Dobbiamo averlo veduto di persona o in immagini e video per farcene un’idea. Forse basterebbe anche un racconto, ascoltato seduti accanto a un fuoco per avere un’idea di un luogo remoto e desiderare di andare a conoscerlo. La pandemia ha moltiplicato in noi questo desiderio e ha scavato abissi nei ricordi dei viaggi fatti e nel rimpianto di quelli che non abbiamo potuto fare.

 

 

Chiamare per nome ogni rosa

 

Mi muovo sempre tra

due linee immaginarie:

una segna il passato,

l’altra il futuro. Una traccia

la nostalgia, l’altra il desiderio.

Sono parallele queste

due linee, ma basta quel

piccolo scarto dell’immaginazione

per tornare o andare, per

dire io o pronunciare il tuo

nome. Solo l’amore varca

i confini senza lasciare

traccia, perché non li

vede, perché non li sente.

E tu, e io, siamo vicini

in queste parole amorose

che chiamano per nome

ogni stagione, ogni rosa.

 

 

 

Oggi è giovedì 30 settembre del secondo anno senza Carnevale e ho sistemato il cassetto dove tengo le cartine geografiche, ho ripercorso gli itinerari di alcuni grandi viaggi compiuti nel passato e mi è venuta questa idea folle che sarebbe bello fare un viaggio ripercorrendo tutti i confini del mondo. Questa Cronaca 571 ha già lo zaino in spalla e scarpe comode, la lascio partire, voglio proprio vedere dove mi porterà.

giovedì 9 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/550. Si viaggia per viaggiare, non per arrivare

 



“Il viaggio era finito, o forse era appena iniziato. Ero arrivato nella città d’acqua, ma cogliendola alle spalle, ero sceso in autobus giù dalla cordigliera, dove ogni strada era poco più di una mulattiera, a ogni curva avevamo rischiato di scivolare in un burrone, solo l’autista non si era mai dato pena a continuava a masticare foglie rosse e a sputarle in una sputacchiera che doveva avere visto l’alba del nuovo secolo. Fui tra i primi a scendere, fu facile recuperare la mia vecchi valigia di cuoio, mentre lo zaino e il tascapane, colmo dei miei taccuini, lo avevo tenuto sempre a tracolla. Insieme ai miei scritti c’erano il passaporto, qualche spicciolo, una scorta di matite Palomino e un temperamatite, un mazzo di chiavi che aprivano le porte di tutte le case dove avevo vissuto e che mi piaceva ricordare. Quante ne avevo conservate? Mi ripromisi di contarle una volta arrivato in albergo e decisi che, finalmente avrei scritto la storia di ogni chiave. Ero ancora molto giovane quando arrivai a Estrella do Mar, ne avevo sentito parlare così a lungo che voleva vederla e fermarmi qualche tempo per vedere se riuscivo a scrivere il romanzo che avevo in testa. All’epoca credevo ancora che la buona riuscita di un romanzo dipendesse dai luoghi che visitavo e dai luoghi dove avrei scritto. Niente di più sbagliato, non erano i luoghi reali a essere importanti. Non erano neanche i luoghi ricordati, lo scarto davvero importante era quello dell’immaginazione. Quel luogo marinaro e non ancora del tutto balneare, poteva anche esistere solo nella mia testa e da nessun altra parte. Era quel che sarebbe uscito nella pagina ad avere valore, e nient’altro. La piazza degli autobus era proprio nel cuore della città, da lì ci si poteva spostare senza problemi seguendo una delle avenidas, niente di monumentale com’ero abituato a vedere nella mia città natale, che si diramavano come i raggi di una ruota di bicicletta ed erano intersecate dalle calle che dividevano il quartiere in rioni e borghi. Volevo stare il più possibile vicino al mare, così mi incamminai per Avenida de El cangrejo cansado. Faceva caldo, ma il vento marino rinfrescava subito il sudore, mi fermai a un chioschetto a prendere una limonata e a guardarmi intorno. Era già pieno di gente in vacanza che bighellonava come me, anche se io ero lì per uno scopo ben preciso e nobile: sarei diventato un grande scrittore un giorno, sarei stato onorato da tutto il mondo, mi avrebbero invitato anche in Europa e un giorno, prima che i miei capelli fossero diventati completamente bianchi, mi avrebbero conferito il premio Nobel per la Letteratura. Al solo pensiero fremevo di orgoglio e mi stupisco oggi, che i capelli li ho bianchi e il Nobel hanno preferito assegnarlo a guitti e strimpellatori, mi fanno sorridere le ingenue ambizioni del ragazzo che sono stato. Ancora non avevo imparato che non è la mèta a dare valore al cammino, ma è vero l’esatto contrario. È la strada che conta e non l’arrivo, Kavafis lo aveva già scritto meglio di quanto io non lo avessi pensato, ma nella mia ignoranza poetica non avrei letto quella poesia che molti anni più avanti. Pur immaginandomi come uno scrittore avventuroso, aveva chiamato l’albergo per prenotare una stanza con vista mare per un intero mese. Avevo trovato il depliant della Posada de El cangrejo descansado, in una bettola portoghese che era intitolata a Miranda do Douro, un paesello che avrei poi visitato quando mi tradussero in portoghese. Mi era sembrato un segno del destino e così ero tornato nella pensioncina che era diventata il sacrario della mia scrittura. Dissi a donna Alexandra che mi sarei assentato per un mese, le pagai due mesi di pigione anticipata e andai a fare qualche compera prima di partire. Non era da me avere tutti quei soldi in tasca, ma la fortuna mi aveva sorriso quando avevo comprato un biglietto del lotto e avevo vinto una cifra tale da permettermi almeno un anno di vita morigerata senza dovermi preoccupare di arrabattarmi a scrivere qualunque testo per mangiare e pagarmi l’alloggio. Quel che non potevo neanche immaginare, quando presi possesso della camera con vista mare, e che pagai in anticipo per essere sicuro che i proprietari mi avrebbero trattato con rispetto e le cameriere con solerzia, era come la mia carriera di scrittore avrebbe avuto una svolta. Dopo avere sistemato i bagagli chiesi consiglio su un buon posto per cenare e loro furono ben lieti di prenotarmi un ottimo tavolo alla taberna de El cangrejo saciada. E di granchi cucinati in svariati modi mi saziai quella sera, in insalata di mare, poi cotti in una terracotta col riso e il pomodoro. Ma volli finire con un’aragosta grigliata perché ne avevo viste di belle grosse nella vasca all’ingresso del locale. Fu proprio lì che posso affermare sia iniziata la mia vera vita da scrittore”.

Alvaro, cioè io, interruppe il racconto proprio sul bello e Lucente e Adelina non riuscirono a convincerlo in nessun modo a continuare. Avevo fame e lo proclamai a gran voce, di sicuro con la pancia piena avrei raccontato meglio. Così le mie due anziane amiche si rassegnarono a portarmi alla locanda perché potessi sfamarmi. Poi ricominciai il racconto, ma non è questo il momento di scrivere per voi cosa mi accadde.

Anche in questa Cronaca 550 di giovedì 9 settembre del secondo anno senza Carnevale, siamo rimasti in compagnia del mio Mutis apocrifo. Per inciso: oggi è un anno e mezzo preciso che scrivo le Cronache, dovrò forse festeggiare?

giovedì 12 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/522. Misteriosa, marina, sdraiata sotto un cielo stellato

 



Storie del Mediterraneo/1

Pensiamo che sia il vento a condurci verso la mèta, ma è lui a lasciarcelo credere. Neanche il vento sa bene dove va e perché. Così quando sbarchiamo sull’isola il primo a stupirsi e a correre a giocare con i cespugli di mirto è proprio il vento della traversata e dello sbarco. Tutto è silenzio intorno a noi quando il vento si rifugia all’interno. La spiaggia ha piccole dune e si allunga a destra e a sinistra e sembra non finire mai. Abbiamo ancorato la barca e portato a riva solo le poche cose che ci servivano, più tardi andremo a pesca e coglieremo le noci di cocco, avremo di che mangiare e bere. Ma se riuscissimo a trovare una fonte d’acqua fresca, potremmo stare ancora più tranquilli e riempire i bidoni a bordo, anzi rinnovare tutta la scorta già che ci siamo. Ci sarà luce ancora per molte ore, anche se la verticale del mezzogiorno l’abbiamo già dietro di noi. Philippe e Luis decidono di andare oltre le dune a vedere cosa c’è, io preferisco restare a guardare il mare e buttare giù un altro schizzo nel mio taccuino. Quando torneremo a bordo per dormire userò gli acquarelli, ma adesso mi basta tracciare le linee che replicano quel che il mio occhio racchiude in un unico sguardo. Non passano che pochi minuti e il fischio di Luis perfora l’aria intorno. È il nostro segnale per dire che tutto va bene e di raggiungerli. Così metto a tracolla la mia borsa di cuoio che viaggia con me da un decennio e mi avvio seguendo le loro tracce. La spiaggia finisce poco oltre le dune e rocce nere, forse vulcaniche, circondano un bosco non troppo fitto nel quale mi introduco. Subito canti di uccellini invisibili mi circondano e sento anche il loro chiocchiolare. Dopo qualche passo ancora, è un rumore d’acqua che mi attira e mi trovo di fronte a un laghetto con due piccole cascate gemelle e rive pianeggianti. I miei amici si stanno lavando, si spruzzano, ridono e scherzano. L’idea di un bagno d’acqua dolce mi attira, abbiamo uno strato di sale sulla pelle che nessuna delle docce riesce mai a scalfire fino in fondo. Quel che nessuno di noi tre ha notato, è la donna vestita di bianco che se ne sta accoccolata dall’altro lato del laghetto e ci guarda. Ce ne accorgiamo solo quando inizia a rispondere ai canti degli uccelli e si alza in piedi. Ha capelli lunghi e ricci, scuri come il fitto del bosco, porta collane di conchiglie e una corona di bacche rosse. Anche i suoi occhi sembrano scuri nella distanza. Ci fa segno di raggiungerla e chi siamo noi per rifiutare l’invito? Ci avviciniamo con cautela e ammiriamo le cosce sode, le gambe lunghe, il seno florido e invitante. Sono mesi che non incontriamo una donna e lei è così bella! Pensiamo all’unisono la stessa cosa mentre ci avviciniamo. Chissà se uno di noi sarà così fortunato da unirsi a lei. Quando arriviamo, io a piedi e gli altri due a nuoto, lei si presenta con il nome. Magali parla la nostra lingua e ancora non è il momento di fare domande. Dice che anche lei è scesa al lago per fare il bagno e si leva con un solo gesto la tunica, mentre noi continuiamo a guardare il suo corpo magnifico appena coperto da un piccolissimo costume che sembra di pelle di daino. Nuota meglio di noi e nessuno riesce a prenderla, va fino alle cascate e si lascia sommergere dall’acqua. Lo facciamo anche noi tre ed è una sensazione bellissima. Così adesso siamo rinvigoriti, eccitati e affamati. La seguiamo fuori dall’acqua e andiamo verso la capanna dove vive. È decorata con le stesse conchiglie che porta al collo, ampia e con l’ingresso chiuso da una stuoia. In una buca coperta di foglie di palma, sta cuocendo del pesce. Ne riconosciamo l’aroma mescolato a quello delle erbe spontanee con cui l’ha ricoperto, timo e rosmarino. Mette sul fuoco cocco con il suo latte e curry, quello deve averlo portato dalla terraferma, e prepara un piatto abbondante per ciascuno di noi, una pietanza che è allo stesso tempo esotica e familiare. Mangiamo con le mani e non parliamo perché lei non parla e non lo farà se non dopo avere raccolto i gusci dentro i quali abbiamo mangiato e averci invitato a sciacquarci a una fontana fatta di bambù dove scorre la stessa acqua delle cascatelle. Il sole è ormai calato oltre le colline più alte e l’aria inizia a rinfrescare. È lei che accende il fuoco e dispone quattro stuoie intorno. Io sono l’unico che giù al lago non si è presentato. “Sono Michel” le dico e lei mi ripete il suo nome come se io non lo avessi sentito quando ci siamo visti giù alle cascate. Il fuoco è di piccole dimensioni ma diffonde intorno quel calore giusto che invita al racconto. “Ditemi di voi, raccontatemi chi siete e come siete arrivati qui nella mia isola. Io vi dirò di me, ma dopo. Inizia tu Philippe, sei il meno abbronzato e quello che nuota meno veloce. Non sei abituato a stare settimane in mare come loro due. Raccontami chi sei e svela anche ai tuoi amici almeno un segreto”. Così Philippe iniziò a parlare e mi trovai di fronte uno sconosciuto, non l’amico che frequentavo da oltre vent’anni.

 

Oggi mi è presa così, un nuovo filone narrativo, un’isola sconosciuta, una donna misteriosa. Chi sono quei tre giovani uomini? Chi è Magali? Magari lo scopriremo insieme nei prossimi giorni.

 

Oggi è giovedì 12 agosto del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 522, marina, misteriosa, sdraiata sotto un cielo stellato.

martedì 10 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/520. Non ho nessuna voce, eppure tutte le voci sono mie

 

 


 

Tra le mie ossessioni meteorologiche e le mie passioni poetiche, in cima alla lista metto di sicuro il vento. Un tempo a Milano, il vento era un fenomeno molto raro, talmente raro da diventare, per me, una festa. Col vento potevo fingere di essere nella steppa siberiana, in mezzo all’oceano o in Patagonia, tutti posti remoti che con la città non avevano nulla a che fare ma che desideravo vedere con tutte le mie forze. Quando si è molti giovani, viaggiare ci sembra l’unico modo per conoscere non solo il mondo, ma anche noi stessi. Ed è vero, perché la durezza della strada, gli incontri inaspettati, la lingua differente, il cibo, i paesaggi, tutto ci costringe a uscire dal guscio comodo della vita nota e a metterci in gioco.

 

Anche leggere, soprattutto i romanzi d’avventura, in età giovanile ci costringe a uscire dalla nostra pelle. E ogni libro diventerà poi un’esperienza, un vero viaggio nella vita dei personaggi, nella loro mente e allo stesso tempo nella nostra.

Con l’età ho imparato ad apprezzare il viaggio intorno alla mia stanza che è l’esperienza della lettura e sento quanto leggere e viaggiare siano due esperienze complementari.

 

Il vento resta comunque messaggero di avventure, di mare aperto, di spazi incontaminati. Mi basta chiudere gli occhi e sono in un altrove lontano, la città svanisce e con il vento che soffia io sono io ma anche altro.

 

 

Il canto del vento

 

Attraverso i deserti e sollevo

nugoli di sabbia, costringo

i viandanti a nascondere

il viso nelle sciarpe, chiudono

gli occhi, ma tanto non

mi potrebbero vedere.

Spingo le vele verso il largo

e le onde verso riva, mi

accompagnano i gabbiani,

ma non ho voce neanche

con loro. Mi aspettano

gli alberi per ridere con

me e scompiglio i campi

tanto quanto le foreste e

sono dolce, un refolo sperduto

e sono ostinato, una tramontana.

Non ho nessuna voce, eppure

tutte le voci sono mie.

 

 

Questa Cronaca 520, ventosa viaggiatrice, è la compagna di questo martedì 10 agosto del secondo anno senza Carnevale. Torneranno giorni silenziosi? Non lo so, mi risponderà il vento.

venerdì 6 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/516. Ogni libro è la promessa di un viaggio

 


Il viaggio inizia con l’euforia, con il desiderio di scoprire nuovi luoghi, nuovi cieli e incontrare persone sconosciute. Di assaporare sapori inconsueti, di immaginare come sarebbe vivere in un altro paese o città. Noi umani abbiamo bisogno di cambiare, il nostro cervello ha bisogno di stimoli nuovi ogni giorno, abbiamo bisogno di imparare. Ma insieme a questo bisogno di movimento, a questa irrequietezza convive in noi il bisogno di stare, di costruire la nostra casa, il nostro rifugio, di creare un ambiente dove crescere i figli, condividere il tempo con le persone che amiamo, dare una dimora ai ricordi. Vogliamo allo stesso tempo una cosa e l’altra e nel tempo oscilliamo tra questi due movimenti della nostra natura profonda che sono imprescindibili. Abbiamo desideri polarizzati che si contraddicono, il nostro animo è una contraddizione e si parte anche per il gusto di ritornare, e poi si sta chiusi in casa pensando al prossimo viaggio. Ho familiarità con i lunghi viaggi di andata, e ritorno, in auto grazie alle estati trascorse in Calabria con la mia famiglia e poi ai vagabondaggi giovanili in giro per tutta Europa. Auto e campeggio continuano a essere una combinazione irresistibile per me. E ho sempre fantasticato sui viaggi, a partire dalla lettura infantile di Jules Verne e del suo romanzo Il giro del mondo in 80 giorni. Che bello viaggiare in compagnia di Phileas Fogg in un mondo che non esisteva neanche più. E poi Marco Polo e Il Milione, l’Odissea, e poi la scoperta di Bruce Chatwin, Nicolas Bouvier, Robert Byron, Patrick Leigh Fermor, Alexandra David-Neel, Isabelle Eberhardt, Paolo Rumiz, Predrag Matvejevic, Luis Sepulveda, Norman Douglas, Andrea Bocconi, Simone Perotti e Marco Steiner, di cui ho comprato oggi, Nella musica del vento e poi chissà quanti altri che sto dimenticando.

Ogni libro è la promessa di un viaggio, un viaggio che qualcun altro ha compiuto e poi ha voluto raccontare. I libri di viaggio sono un eccellente antidoto alla nostra irrequietezza che niente riesce mai davvero a placare. I libri dove non ci sono viaggi sono lo stesso uno strumento per viaggiare nel tempo e nello spazio e poi ritornare, mai davvero uguali a chi eravamo quando siamo partiti.

 

 

Viaggiare è il tradimento del focolare

 

Cerchiamo l’ombra, nostra

sovrana nei mondi nuovi e

poi le orme di chi è passato

prima di noi. Abbiamo Itaca

che ci aspetta e il silenzio

declinato nelle lingue che non

parliamo. Forse avremo

circumnavigato il mondo,

ma quando torneremo,

il cielo non sarà lo stesso e

nemmeno il nostro mare

interno, ce lo dirà lo specchio

l’enorme cambiamento, quel

tradimento del focolare che

abbiamo distrutto e poi

ricostruito, della barca che

abbiamo sognato e che

ci ha portato in ogni altrove,

in ogni sogno, in ogni poesia.

 

 

 

Ecco, sono pronta a partire, finirò il giro della stanza, saluterò la casa. E partirò con un libro nuovo e un taccuino intonso.

Oggi è venerdì 6 agosto del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca viaggiatrice è la 516, ancor più desiderosa di andare di quanto non lo sia io.

mercoledì 16 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/465. Il tempo è un cerchio e noi un vortice

 



Il cespuglio di lavanda cresce anno dopo anno e quando in giugno la fioritura esplode, ecco che arrivano le api da ogni punto cardinale. Così mi metto comoda e resto a guardarle anche per ore. Il volo delle api ha qualcosa di ipnotico, il profumo della lavanda è inebriante e così mi ritrovo catapultata in Provenza, dalle parti di Vaison-la-Romaine, in una mattina di giugno dove il cielo era azzurro brillante e l’aria un miscuglio di profumi fioriti. Il paese è piccolo, c’è una piazzetta con una fontana, un bistrot. È quasi ora di pranzo, così ci sediamo a mangiare un pan bagnat e una salade niçoise, gli ingredienti sono praticamente gli stessi. Insieme al ronzare delle api, è il canto delle cicale che dà il ritmo a questo momento.

Dopo la sosta per il pranzo ci muoviamo per andare a Vaucluse, il sole è a picco sopra le nostre teste e quando raggiungiamo la fontana, ecco che vediamo e ascoltiamo le Chiare, fresche et dolci acque di Petrarca e il tempo si piega su stesso e noi lo vediamo, il poeta, fermo a contemplare queste acque verdi.

Ma è solo un momento, perché il canto delle cicale mi trasporta prima nella baia del Silenzio a Sestri Levante, dove galleggio placida in un’acqua quasi immobile e guardo il cielo e la spiaggia poco lontano d’estate e poi in inverno mi siedo sulla sabbia e leggo i diari di Anaïs Nin e penso che voglio diventare una scrittrice.

Sono sempre le cicale e il profumo di salsedine a riportarmi a Manarola, dove pranziamo da Aristide, antica trattoria, e poi a Vernazza, all’ombra di un pergolato a bere il mio primo Sciacchetrà delle Cinque Terre, mentre leggo Simone De Beauvoir e scrivo nel diario le mie giovani riflessioni da giovane aspirante scrittrice.

L’estate è sempre stata sinonimo di viaggi e di scrittura in libertà, lo era in gioventù, lo è anche adesso, più che mai. L’estate è anche sinonimo di mare e di poesia, perché il ritmo delle onde accompagna molto bene il ritmo dei versi.

 

 

Nel cortile d’infanzia

 

Dovrei conoscere le risposte,

ma preferisco il suono del mare

alla mia voce e non parlo, qui

ascolto e basta. Lascio che ogni

domanda si depositi sul fondale

in compagnia dei pesci e delle

stelle marine, emissarie del cielo

e portatrici di quiete. Mi chiedo

se mai torneranno a riva tutte

queste parole, ma sulla spiaggia

ci sono solo ciottoli e frammenti

di vetro verde, dello stesso colore

delle acque di Vaucluse. Il tempo

è un cerchio e noi un vortice, per

questo ci inseguiamo da un’era

all’altra, né giovani, né vecchi,

ma eterni in questo cortile della

nostra infanzia.

 

 

Così anche questa Cronaca 465 di mercoledì 16 giugno del secondo anno senza Carnevale, ha scritto una poesia prima di accomiatarsi, mentre io sono ancora seduta sotto quel pergolato e scrivo, scrivo, scrivo.

mercoledì 9 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/458. Per le mani che vi hanno toccati, per gli occhi che vi hanno guardati

 



Una delle questioni ultime intorno a cui mi arrovello è la passione di noi umani per gli oggetti. Facendo ordine tra cose appartenute alla mia famiglia d’origine, ho ritrovato una quantità di cose la cui visione ha scatenato un fluire ininterrotto di ricordi e storie.

Un vecchio telo da mare a righe bianche e rosse, mi ha riportato a un viaggio verso la Calabria, uno dei molti durante la mia infanzia, dove quel telo era stato messo sullo schienale del sedile del guidatore, cioè mio padre, e me lo ricordo bene perché quella mattina all’alba mancavano pochi chilometri al nostro arrivo a casa della nonna. Abbiamo cantato e riso ed era tutto bellissimo e non vedevamo l’ora di essere lì con lei e tutta la nostra infinita tribù di zie e zii, cugine e cugini. La mia grande gioia era anche sapere che stavo per rivedere mia cugina Mariuccia con la quale avrei trascorso tutte le settimane successive, insieme ogni minuto della giornata come due gemelle siamesi e felici di esserlo.

In un sacchetto di cotone bianco, lindo e ben stirato, altrettanto lindi e ben stirati erano riposti otto camiciole ricamate a mano, un bavaglino, una cuffietta, una mezza dozzina di ciripà in cotone cuciti all’inizio degli anni Sessanta che ho indossato prima io e poi mio fratello.

Ho anche ritrovato un plaid di lana rosso, verde, blu e nero che è stato letto e tavola di innumerevoli picnic d’infanzia. A volte con la famiglia pugliese di mia madre, altrettanto tribù di quella calabrese di mio padre, andavamo in campagna, verso Sud, nell’Oltrepò, sul Ticino, oppure in Brianza, al parco di Monza, o in qualunque altro prato disponibile dove fermarsi a mangiare, pisolare, guardare il cielo e giocare a carte. Quando avevo sette anni ho imparato a giocare a Scala Quaranta proprio in una di quelle domeniche pomeriggio, che divertente era stato capire le regole e iniziare a sfidare mia madre. Per vostra informazione: nei decenni successivi dove io ho raffinato il mio gioco e le ho pure insegnato a giocare a Pinnacola, mia madre ha continuato a vincere implacabilmente.

Decine di oggetti appartenuti ai genitori e ai nonni e ogni oggetto  custode di almeno un ricordo e di una storia. Tutti noi siamo custodi di oggetti perché amiamo le storie che si portano dentro. Per alcuni questo amore assume tinte cupe, perché gli oggetti prendono il sopravvento sulla vita e sul loro possessore, un accumulatore seriale ne è il classico esempio, un’altra forma del desiderio fuori controllo è quella dei collezionisti. Gli accumulatori si nascondono negli oggetti perché cercano protezione, i collezionisti perché cercano valore. Non voglio avventurarmi qui in spericolate e incompetenti elucubrazioni psicologiche, voglio però sottolineare che, secondo me, un po’ tutti abbiamo un rapporto animista con le cose di cui ci circondiamo. E che non buttiamo neanche quando non le usiamo più.

 

 

Nel paradiso delle cose

 

Non è un foglio qualunque, è

il foglio dove ho scritto la mia

prima poesia, è il foglio dove

tu hai scritto la tua prima poesia.

E quello non è un bicchiere, è

il bicchiere che mio padre preferiva,

e quelle sono le forbici di mia

madre, e l’orsacchiotto Lobo

era di mio fratello che non

lo lasciava mai solo perché

di notte avrebbe potuto avere

paura. L’anima delle cose è

l’anima del tempo passato,

dei nostri sguardi, della tenerezza

che abbiamo avuto e dato.

Lo so perché un giorno,

mentre gettavo un paio

di vecchie scarpette blu

con delle fibbie argentate

e me ne dispiacevo, pensare

che le avrei ritrovate nel

paradiso delle cose mi aveva

rassicurata. Bizzarra idea

dell’aldilà la mia, dove ci saranno

tutte le cose e, soprattutto, tutte

le persone che ho amato e che

mi hanno amato.


Ho riposto in un cassetto pieno di oggetti d’infanzia quelli nuovi che sono entrati oggi, mercoledì 9 maggio del secondo anno senza Carnevale, nella mia casa e in questa Cronaca 458. Nuovi in questa collocazione, eterni nei miei occhi e nello struggimento per le mani che li hanno toccati.