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domenica 24 aprile 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/777. Dove lo specchio di Alice si è rovesciato nel mondo di qua

 


 


Anche oggi sono stata indaffarata con i soliti infiniti e sfibranti lavori di selezione di oggetti, libri e vestiti, così anche oggi non sono riuscita a partecipare al laboratorio con Fiammetta sul sublime contemporaneo. Cercherò di recuperare con le registrazioni, anche se non è mai la stessa cosa. Sto scrivendo qualcosa in merito al mio giardino ideale, un giardino che è fatto dei giardini che ho amato o anche solo immaginato, come il giardino che circonda la Casa delle Parole nella terra delle Montagne della Nebbia che, purtroppo, non frequento tanto spesso come durante il primo anno della Cronache, durante l’eterno lockdown, quando pensavamo che sarebbero bastate quelle poche settimane chiusi in casa per debellare il maledetto virus che ci aveva presi di sprovvista poche settimane prima e che ancora impazza per il mondo. Ormai è certo che la variante Omicron, nelle sue svariate manifestazioni oltrepassa la barriera anche della tripla vaccinazione. Sono sempre più amici e conoscenti che si chiudono in casa perché scoprono di essere positivi anche con sintomi molto lievi, febbriciattola, raffreddore, un po’ di ossa rotte. Tra i contagiati che sono sempre nell’ordine delle decine di migliaia, spicca il numero dei morti che si aggira più o meno, ogni giorno, intorno ai duecento. Intanto, mentre la Cina segrega milioni e milioni di persone a Shangai e Pechino, nel resto del mondo le misure di prevenzione e contenimento vengono via via revocate. Lasciando così orfani di argomentazioni i no-vax nostrani che in moltissimi giustificano ora l’invasione dell’Ucraina e in ancor di più hanno trovato in questa guerra una fonte di ispirazione per una nuova battaglia anti-governativa, anti-sistema, anti-tutto. Sarebbe interessante andare a vedere le reali motivazioni di ciascuno, a capire quali siano le ragioni profonde di queste prese di posizione estreme. Forse un giorno lo faranno psicologi, psichiatri e storici, oggi dobbiamo fare ipotesi basate sulla conoscenza diretta di alcuni di questi individui. Avrei cose da scrivere su alcuni amici perduti nei loro deliri complottisti e no-vax, così qualcosa la scrivo, a futura memoria. Di una di loro so che appoggia l’operazione speciale del dittatore russo. Ma che tristezza mi fanno queste persone che pure, in un tempo lontano, erano amici e amiche con cui ho condiviso molto. Erano diversi quando eravamo giovani? Erano più razionali? L’unica cosa che mi sento di dire è che si tratta di persone irrisolte che nella vita non hanno trovato, almeno da giovani, un reale interesse, una passione da coltivare e che quando sono stati illuminati dalla pandemia, magicamente hanno capito tutto del grande complotto in corso contro l’umanità di cui noi poveri sciocchi siamo vittime e neanche ce ne accorgiamo. Eppure sono certa che si tratti di persone che amano leggere, alla signora ho regalato decine di libri quando eravamo giovani e poi quando ha pubblicato lei il suo primo libro per mandarmelo mi ha chiesto il prezzo di copertina più le spese di spedizione, l’altro amico è anche laureato, ma insegue da anni teorie e corsi delle più esoteriche discipline che ho fatto sempre più fatica a seguirlo nelle sue peregrinazioni. E ricordo anche che da giovani erano di sinistra e uno discendente di un ombroso partigiano di cui credo di non avere mai sentito la voce quando andavo a casa loro a studiare. Ecco, il mondo è diventato come se lo specchio di Alice si fosse rovesciato da questa parte, perché tutto è scombussolato e i punti fermi sono pochi, le informazioni arrivano a ondate e ci lasciano storditi e spaventati, con la bocca e il naso pieni di acqua e sale. Ma non siamo ancora affogati, meglio tenersi un po’ alla larga dalla riva e andare a pescare nei laghi interni del pensiero e dei libri.

Un ultimo pensiero lo dedico alla mia amica del cuore dell’adolescenza: oggi avrebbe compiuto un altro decennio tondo. Cara Antonia ti penso con affetto e nostalgia per quei pomeriggi trascorsi a raccontarci i nostri sogni e a imbastire racconti epici con protagonisti i due fratelli di cui eravamo cotte all’epoca.

Oggi è domenica 24 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 777 continua a girare e rigirare lo specchio, cercando il verso giusto.

giovedì 14 aprile 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/767. Pensieri a zonzo sulla guerra e sulla violenza

 


 

Gli oggetti sono la prova che abbiamo vissuto, che in un tempo passato abbiamo compiuto azioni, condiviso il tempo con altre persone, che abbiamo amato e abbiamo sperato nel futuro. Ci penso di continuo mentre seleziono e ripongo oggetti personali che sono appartenuti ai miei genitori - vestiti, cappelli, maglioni – e oggetti di uso comune come piatti, bicchieri e tovaglie. Lavo, asciugo, stiro e ripongo. Poi mi vengono in mente tutti gli esuli dalle guerre, i rifugiati, i sopravvissuti, quelli che non hanno più nulla, che sono ancora rifugiati in fabbriche, scuole e ospedali, in Ucraina e non solo. Ma l’Ucraina è una ferita aperto sul fianco dell’Europa, una terra offesa dalla menzogna e dalla violenza, le migliaia e migliaia di morti, le violenze, la perdita della speranza e le migliaia di giovani soldati russi costretti a diventare assassini, partite per la guerra senza neanche sapere cosa stavano per fare. Mi fermo sulla soglia dei miei ragionamenti, già fatti migliaia di volte sui social da persone ben più competenti di me. Mi fermo sulla soglia con una vecchia fotografia di famiglia in mano e sento quanto anche un piccolo oggetto porti in sé il tempo prezioso che abbiamo vissuto con i nostri cari. Quel che accade oggi in Ucraina in Europa è già successo, è successo con la disgregazione della Jugoslavia, è successo con la Prima e con la Seconda guerra mondiale e credevamo che non sarebbe accaduto mai più. Lo credevamo noi baby boomer, la generazione più fortunata della storia. È difficile trovare una forma nuova in questi tempi nuovi e al contempo vecchissimi. Di veramente nuovo c’è che vediamo immagini della guerra pressoché in diretta. Ma la guerra è vecchia, vecchia come l’umanità. Forse è arrivato il momento di ammettere con noi stessi che la nostra specie si fa la guerra non solo per necessità o per difesa, ma perché fare la guerra agli esseri umani piace. Forse sarebbe meglio ammettere che il male è parte di noi, è la nostra natura profonda e che il bene è una conquista quotidiana. Forse sarebbe meglio ammettere che il male vince comunque: vince se non ci difendiamo, vince se ci difendiamo perché la violenza esploderà in noi. È compito comune dell’umanità imparare a contrastare le nostre pulsioni profonde, a riconoscere tutte le emozioni, anche quelle negative, e a dare loro il giusto nome. Ci sono persone che per istinto, fede o decisione si votano al bene con la stessa forza con cui altre si votano al male, mentre nella massa oscilliamo tra indifferenza, piccole malvagità e piccoli beni quotidiani. Sentire il male che gli altri patiscono, sentirlo nella propria carne è il primo passo per contrastarlo questo male e smettere di farlo. Siamo tutti in balia delle stesse pulsioni e degli stessi istinti, non è un caso che della quindicina di specie di ominidi vissuti sulla terra siamo rimasto soltanto noi, i più efferati, i più violenti, forse i più forti, quelli che comunque si sono affermati nella conquista di risorse alimentari quando eravamo cacciatori raccoglitori e in quelle delle terre quando siamo diventati creature più stanziali, anche se il movimento e la scoperta fanno parte della nostra natura profonda tanto quanto la violenza. Credo che sia arrivato il tempo giusto per rileggere un libro interessantissimo di Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, un libro che spiega perché l’occidente bianco ha conquistato e dominato il mondo per qualche secolo. E racconta come anche gli altri popoli non bianchi e non occidentali erano, sono stati, popoli guerrieri e violenti. E dopo Diamond ho deciso che leggerò anche il nuovo libro di Federico Rampini Suicidio Occidentale, ne ho già lette alcune parti e credo sia un libro importante. Per oggi è tutto da giovedì 14 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 767, da brava studiosa, è già a capo chino sui libri.

giovedì 11 novembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/613. Costruire la primavera intorno alle anime nascoste nell’autunno

 


 

Nel mondo che non è il mio e allo stesso tempo lo è, vecchi e bambini si trascinano nella neve e sopravvivono con abiti dismessi, secchi di latte appena munto da pietosi contadini.

Nel mondo che è il mio, nella città mai più silenziosa, ho visto uccelli migratori disegnare il cielo e poi svanire dietro i grattacieli, ho visto le foglie diventare gialle in pochi giorni e prepararsi tutte insieme alla caduta.

Nel mondo che è il mio e non lo è, raffinati intellettuali si accapigliano su segni, simboli e pronunce per far diventare la lingua più inclusiva. Allo stesso tempo uomini anziani discutono del perché le donne siano discriminate nel mondo del lavoro.

Nel mondo che è il mio un astuto imprenditore, che ci ha già rinchiusi nel suo mondo di volti e amici, si prepara, forse, a rendere le gabbie ancor più raffinate. Saremo tutti prigionieri in un metauniverso dove i corpi saranno sempre più altrove, mentre le menti si azzufferanno e insulteranno e la pubblica gogna sarà sempre più normale.

Nel mondo che è il mio le donne continuano a sobbarcarsi lavoro per guadagnare e lavoro per la cura dei figli, della casa, dei genitori. Le donne non fanno altro che lavorare e la definizione di qualunque vita femminile passa attraverso definizioni decise da altri e volte a controllarle. Il mondo del lavoro è ritagliato ancora a misura del maschio che non ha altra preoccupazione che pensare a lavorare. Solo sparute minoranze di uomini condividono il peso della vita quotidiana con le compagne e con le loro madri e sorelle.

Potrei continuare per pagine, nel furore sociologico e antropologico che mi prende ogni tanto, a elencare come sono i mondi che sono e non sono il mio.

Viviamo tutti in una molteplicità di mondi, di memorie e di immaginazioni, anche se per la maggior parte del tempo non ci pensiamo. La grande differenza, rispetto al passato, sono le continue sollecitazioni che arrivano dai social che si sono sommate nell’ultimo decennio a quelle della televisione e dei giornali.

Forse siamo più informati, forse siamo in grado di ragionare e scegliere con maggiore consapevolezza, ma la mole di informazioni, opinioni e immagini ci sovrasta, ci schiaccia e ci allontana dalla dimensione minuscola del mondo e delle persone di cui possiamo realmente occuparci nella nostra vita quotidiana. Rendermi conto di questa dimensione non ha rimpicciolito il mio mondo e le mie azioni. Anzi, lo ha allargato e mi fa guardare e agire con maggiore compassione e gentilezza. Avere cura del mondo comincia dai piccoli gesti della vita quotidiana, dall’aiuto concreto, da un sorriso, da un saluto, da una telefonata a qualcuno con cui abbiamo litigato e che avevamo deciso di non vedere mai più. Il mai più è uno degli orizzonti della nostra vita, ma non l’unico possibile.

 

 

 

Sapere che le anime e i giardini si assomigliano

 

 

Non so quando sia stato

l’ultimo saluto, com’eri

vestita l’ultima volta che

ti ho parlato. Ricordo molto

bene cosa hai detto e

cosa non hai fatto, è questa

frattura tra le parole e

i gesti a segnare il tempo

dell’amicizia, il prima e

il dopo. Ma le fratture si

possono ricomporre, bisogna

solo ricordarsi che le anime

e i giardini si assomigliano

proprio tanto e non è

facile averne cura.

 

 

Oggi giovedì 11 novembre del secondo anno senza Carnevale è stata una giornata di riflessioni sulle relazioni tra le persone, sui mondi molteplici in cui ciascuno di noi vive e sulle amicizie che, a volte, cadono in letargo come le marmotte e gli orsi e bisogna costruirgli una primavera intorno per stanarli e farli tornare alla vita, come ben sa questa ingegnosa Cronaca 613 che sta ancora lavorando in giardino.

lunedì 16 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/526. Quel che accade nel mondo, oltre queste pagine

 

 


Oggi volevo pubblicare un brano dal mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese, un brano che racconta un’estate a Milano in agosto. Ma come spesso accade, le mie intenzioni mattutine si piegano alla vicende e alla cronaca della giornata.

Le immagini drammatiche dell’aeroporto di Kabul, il video della ragazza afghana che piange e dice “a nessuno importa di noi, moriremo lentamente nella storia” e per finire una fotografia manipolata, con la didascalia “New York 2001-Kabul 2021” dove vengono affiancate l’immagine degli uomini che cadono dalle torri gemelle nel 2001, con quella degli uomini che cadono dopo essersi aggrappati al carrello di un aereo che stava decollando. L’immagine prima è girata senza censure su Facebook e poi velata dalla quella copertina grigia sfumata con la dicitura “Contenuti riservati. Questa foto potrebbe mostrare immagini forti o violente. Scopri di più. Vedi la foto”.

La foto l’avevo vista stamattina, postata da un contatto che conosco a malapena, ma poi l’ho rivista con la copertina, postata da alcuni intellettuali dei quali ho grande stima. E mi sono davvero arrabbiata. Gliel’ho scritto nei commenti, cosa che faccio di rado commentare i post altrui, non ho tempo e non mi interessa, se ho visto o letto qualcosa che mi è piaciuto, metto il “mi piace” o un cuoricino. Chiunque abbia avuto la pessima idea di creare quell’immagine ha contribuito a rendere ancora più vani e inutili i nostri soliloqui sui social. Quando l’etica soccombe all’estetica, allora come possiamo cercare di asciugare le nostre lacrime di coccodrilli occidentali e pensare di poter davvero agire nel mondo? I social ci danno l’impressione di stare agendo, di stare leggendo e condividendo. La fruizione di ogni post varia dai pochi secondi per una foto, ai minuti necessari a leggere uno scritto. E a dimenticarlo subito dopo. Perché la nostra memoria si sbriciola sui social, ci relazioniamo quasi esclusivamente con persone che hanno i nostri stessi interessi, l’algoritmo onnipotente ci premia aumentando la visibilità dei nostri post in maniera direttamente proporzionale al tempo che trascorriamo e alla quantità di “mipiacciamenti” che mettiamo, e anche in base ai trending topic del giorno. Quando ho dedicato la mia Cronaca alla scomparsa di Calasso e ai suoi due ultimi libri, ho quintuplicato i miei lettori sia su Facebook che sul mio blog. Cosa c’è di reale in queste bolle che catturano la nostra attenzione? Possiamo in qualche modo trasformare dolore e indignazione in azioni efficaci e sensate? Non credo, non credo proprio. Mentre sto scrivendo queste poche righe è scoppiato un temporale. Bisogna fidarsi dei tuoni e delle saette, è un modo del cielo per ricordarci che siamo creature terrestri e mortali. E la maggior parte di noi occidentali, per quanto indignati e addolorati, siamo per lo più in vacanza, a guardare il mare o una bella vallata alpina.

 

Questa Cronaca 526 di lunedì 16 agosto del secondo anno senza Carnevale, è arrabbiata e triste, due volti della stessa medaglia che si chiama impotenza.

giovedì 10 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/459. Dove la gioia irradia luce mentre passeggiamo in riva ai Navigli.

 



Veniamo al mondo nudi, indifesi e ciechi, senza poter parlare. Piangiamo tantissimo per farci capire, sorridiamo e lalliamo. Resteremo a lungo affidati alle cure degli adulti, soprattutto a quelle materne. Portiamo in noi un’eredità genetica di cui non siamo né consapevoli, né responsabili. Intrecciamo relazioni, assorbiamo l’ambiente che ci circonda, impariamo in ogni istante. Il tempo è infinito durante l’infanzia, ma è l’unica fase della nostra vita in cui siamo esseri fuori dal tempo. Per ciascuno di noi è molto diverso il momento in cui entriamo nel tempo, diventiamo, cioè, consapevoli che il tempo esiste e ci governa. Forse è il corpo il primo a saperlo, quando inizia a cambiare grazie alle tempeste ormonali che si scatenano nella pre-adolescenza. Ma il nostro essere nel tempo, quando siamo adolescenti, non è ancora il momento della consapevolezza della nostra finitudine. Gli adolescenti sono eterni, eterna è la giovinezza, la maturità è la vecchiaia sono eventi che accadono agli altri, non a noi. In queste prime e brevissime fasi della vita, ogni giorno erigiamo palazzi, seminiamo campi e attraversiamo terre sconosciute. Gli unici a capirci sono i nostri coetanei e qualche adulto illuminato che non ha dimenticato la propria adolescenza. Oltre agli adulti della propria cerchia familiare, sono soprattutto gli insegnanti che ci insegnano a stare nelle relazioni, che ci offrono competenze, risposte e molte nuove domande da esplorare insieme. Continuiamo a imparare ogni giorno cose nuove senza neanche accorgercene. Impariamo l’alfabeto delle emozioni e quello del corpo, che parla una lingua universale. Il futuro è vasto e meraviglioso, anzi è infinito e pieno di gioia. Poi finiscono le scuole superiori, i più fortunati, dotati e volenterosi vanno all’università, gli altri a lavorare. Questo è quello che accadeva nelle vite di noi baby boomer, la generazione più fortunata della storia dell’umanità, almeno così ci piace pensare, quelli che hanno avuto tutte le opportunità e le hanno sfruttate: studiare, viaggiare, lavorare e smettere quando se ne aveva voglia, andare a vivere da soli ancora molto giovani. Ricordo che quando ho trascorso un’estate in Svizzera a studiare letteratura francese all’università di Losanna, ero l’unica poco più che ventenne che viveva ancora in casa con la famiglia d’origine e tutti i miei nuovi amici e amiche se ne stupivano. E poi? Come accade che si entri nella maturità e si inizi a guardare il mondo con occhi diversi? Parto di nuovo dalla mia esperienza individuale per cercare di trarne ispirazione per formulare leggi “universali”. Si entra nella maturità quando ai guadagni e all’espansione del respiro verso il futuro, si affiancano le perdite: il proprio corpo che inizia ad avere i segni del tempo, la scomparsa di persone care, di solito i nonni e gli anziani della famiglia, quando si affievoliscono i legami con i compagni di scuola. Nessuno di noi è veramente preparato alle perdite che la vita ci infliggerà, all’inesorabile trascorrere delle giornate che si faranno tutte molto simili e poco avvincenti. Il lavoro, soprattutto se sarà un lavoro non molto interessante e non molto amato, sarà causa di grande afflizione. Ma anche a questa afflizione esiste un rimedio che è frutto della maturità e della consapevolezza, cioè la capacità di prenderci cura delle persone, dei luoghi e degli oggetti. Se è intuitivo pensare alla cura degli oggetti, mantenerli in buone condizioni d’uso, preservarne la bellezza e la trasmissione alle generazioni future, avere cura del paesaggio e dei luoghi è ancor più complesso e difficile. Se riusciamo a curare la nostra casa, per avere cura dei luoghi e dei paesaggi bisogna che entrino in gioco forze e intelligenze collettive che abbiamo una visione d’insieme. E qui entra in gioco la dimensione politica della vita, dove sono necessarie persone appassionate e competenti. Abbiamo visto in anni recenti i disastri fatti da politici improvvisati. Per quanto riguarda la cura delle persone, a partire da noi stessi, dei corpi e delle anime, il processo è delicato, continuo e necessita di passione e di compassione, di capacità di ascoltare e di donare, di amore per le persone a partire da quelle più vicine a noi, di amore per le loro storie, perché dare un senso al nostro vissuto attraverso la narrazione della nostra vita, soprattutto in forma scritta, può diventare anche un percorso di terapia e di auto-terapia. Declinando il nostro personale Alfabeto della Cura impariamo ad accettare le perdite, che sono inevitabili e fanno parte della nostra natura umana, e costruiamo giorno per giorno quella ricchezza che trasmette gioia irradiata da noi stessi e che su noi stessi ritorna. Così perdite e guadagni, anche se non mi piace molto questa contabilizzazione dei sentimenti, scorrono in noi e attraverso noi e ci permettono di guardare al passato senza nostalgie e rimpianti e ci aiutano a stare nel tempo presente, quello che smette di essere tale respiro dopo respiro, parola dopo parola. Oggi è stata una bella giornata estiva anche nella mia amata città non più silenziosa, in questo giovedì 10 giugno del secondo anno senza Carnevale, dove ho condiviso il tempo con la mia adorata amica Rossana, a zonzo sui Navigli, come amiamo fare d’estate e come anche questa Cronaca 459 ricorderà.

sabato 29 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/447. Guardare le città notturne da un satellite e poi girarsi verso le stelle



Possono essere proprio tante le cose belle di una giornata bella, cose gioiose, interessanti, coinvolgenti. Partiamo dalla lunga giornata con Valentina Durante e Simone Salomoni a parlare di immaginario e scrittura autobiografica, una meraviglia ascoltare loro e poi le altre persone a Bottega. Un sacco di spunti interessanti su cui riflettere, appunti da risistemare, nuovi libri da leggere. Una delle eredità positive della pandemia è, per quanto mi riguarda, l’uso delle piattaforme per incontrarsi e parlare nonostante la distanza. Sempre grazie alla tecnologia, un’altra delle cose belle di questa giornata sono le fotografie satellitari delle città terrestri durante la notte, mi sono fiondata a cercare Milano, che sembra una ragnatela intessuta di goccioline di rugiada all’alba. Poi sono fiorite altre rose nel giardino, i gelsomini sono quasi tutti sbocciati, ho una pila di libri nuovi da leggere, su Netflix è iniziata la terza serie del metodo Kominsky con Michael Douglas, su FB mi ha scovato una serie TV turca doppiata in spagnolo El Sultan, ispirata alla vita del sultano Solimano il magnifico. Come tutte le serie tv, si sprecano intrighi di corte, gelosie, rapimenti e omicidi, e intanto che la guardo, faccio esercizio di spagnolo che è molto meno arrugginito di quanto mi aspettassi. Sempre FB mi propone e ripropone una serie indiana dove ci sono magnifici balli di gruppo e una serie coreana su una storia imperiale, sempre in costume, entrambe con sottotitoli in inglese. Le attrici e i costumi sono sempre magnifici, quel che mi colpisce e che accomuna tutte queste trame è che le donne sono quasi tutte cattivissime e disposte a qualunque cosa pur di avere il favore del principe di turno. Non importa se siano spose ufficiali o concubine, l’importante è essere la favorita e dare figli maschi al potente di turno. Non ho idea dell’accuratezza storica e della verosimiglianza, ma i ruoli femminili, oltre a quelli già citati sono solo: madre del principe, schiava, fattucchiera, medichessa, figlia del principe, figlia del nemico rapita dal principe. Non c’è nessuna donna che sia possibile definire al di fuori del ruolo sociale e riproduttivo, una donna esiste solo in relazione al legame che ha con il maschio dominante. Certo ci sono anche i vice, ma spesso sono traditori e vengono giustiziati. Unica consolazione i figli maschi e i gioielli. Bisognerebbe fare più riflessioni sul ruolo femminile nell’esercizio e nella trasmissione del potere con annessi e connessi. Perché sono proprio i meccanismi di potere a regolare la maggior parte delle relazioni umane. Insieme alla ricchezza, alla bellezza, alla giovinezza e ai legami di sangue. Mi sono resa conto durante quest’anno abbondante di lockdown, che più il presente si faceva pesante, più il mio interesse per il passato e per la storia diventava pressante. Ho letto parecchi libri sulla storia delle due guerre mondiali del secolo scorso, sull’epidemia di spagnola, sulle epidemie di peste nera. Ho riletto La peste di Albert Camus e l’ultimo libro, che ho iniziato proprio oggi è Racconti contagiosi di Siegmund Ginzberg, un solo commento su queste letture compulsive: per quanto ce la passiamo male, una volta l’umanità stava molto, ma molto peggio da tutti i punti di vista, sociale, economico, sanitario. Certo il mondo era ancora un luogo incantato, non esistevano gli influencer e neanche gli smartphone, ma sono abbastanza contenta che il fato mi abbia destinato a questo scorcio di spazio tempo dove ho avuto la possibilità di viaggiare, fare lavori interessanti, studiare, leggere qualunque libro, scrivere e scrivere. Un’età dell’oro nella storia di noi umani è pura leggenda, una pandemia come quella in corso, anche solo venti anni fa avrebbe avuto un numero di contagi e di morti dieci volte superiore. Certo non avremmo passato tutto il tempo tappati in casa, non saremmo stati terrorizzati dai media come nelle prime settimane di lockdown, ma saremmo in molti meno a raccontarcela oggi. Certo, la settimana scorsa ho sentito una signora di mezza età parlare al telefonino con un’amica e a dichiarare con vigore, ovviamente senza mascherina, che lei mai e poi mai sarebbe andata a fare il tampone anche se avrebbe dovuto, perché quando fai il tampone ti mettono i microchip nel naso e lei vuole essere una donna libera. Non commento, anche perché non c’è bisogno di commenti, ma poi ho scoperto che anche persone a me care e insospettabili sono contrarie al vaccino e non c’è modo di condurle alla ragione. Certo bisogna rispettare le convinzioni di tutti, certo viviamo in democrazia, ma quando ero bambina tutte le vaccinazioni, dalla polio alla TBC, erano obbligatorie, non c’era possibilità di sguazzare nella propria ignoranza pretendendo di avere la verità in tasca, si sguazzava nell’ignoranza, come peraltro ci sguazziamo oggi, perché al di là del fatto che siamo capaci, io per prima, di ripetere a pappagallo le cose orecchiate in tv e lette sui social, noi popolo, del virus non sappiamo proprio nulla. Quindi preferisco fidarmi dei virologi esperti, del governo e dei medici. Anche perché, se la popolazione italiana non si vaccinerà – a oggi pare che il 10% abbia deciso di non farlo e il 18% sta pensando di non farlo, rischiamo di sviluppare una nostra variante italiana e di vanificare lo sforzo collettivo e i sacrifici fatti sinora per uscirne. Cosa accadrebbe se si passasse alle vaccinazioni obbligatorie come un tempo? (Non lo so, ma me lo chiedo).

Oggi, sabato 29 maggio del secondo anno senza Carnevale, mi è presa questa vena sociologica-storica-televisiva-pandemica: è bello avere anche il tempo per divagare e pensare scrivendo. Questa Cronaca 447 se ne torna sul satellite a guardare le città notturne illuminate e augura a tutti una buona notte. Non prima di avere, però, girato lo sguardo verso il buio e le stelle di cui sappiamo giusto qualcosa.

domenica 2 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/420. Poetica delle tazze di porcellana e di Philip Roth

 

 


Dopo la pioggia battente arrivano le sorprese, un cielo di smalto azzurro e tutta l’infinita domenica davanti. Nelle strade del quartiere tutti gli ippocastani sono in fiore, pinnacoli rosa e avorio che svettano sotto le nuvole ballerine e ritagliano arabeschi anche nello sguardo. Stamane i supermercati aperti e le strade erano pieni di gente. Adesso che l’Inter ha vinto lo scudetto, non seguo il calcio ma sono interista per tradizione familiare, cortei di auto strombazzanti si susseguono come a un corteo nuziale. Sempre meglio che il suono tragico delle ambulanze di ieri, nel quartiere se ne sono fermate una decina ed è la prima volta dall’inizio della pandemia. Mi sto interrogando da lungo tempo sulla nostra società e ho iniziato a pensare in questi ultimi tempi che la nostra civiltà è proprio quel che voleva essere. Predatrice, avida, desiderosa di ricchezza, fasti e agi. Guardando un noto programma televisivo dedicato all’arte di ricevere, ho visto sfilare gente di tutti i tipi, compresi rapper, pompieri, sportivi di varia natura e non solo casalinghe, affannarsi a cercare l’apparecchiatura perfetta con le forchette e il tovagliolo a sinistra e il coltello a destra con i bicchieri in ordine di altezza. Il valore e la bellezza di interior design, mise-en-place e menù viene quasi sempre dalla tradizione, dalle ricette di mamme e nonne, da mobili e suppellettili ereditati. Ora, facendo un’operazione intellettualmente scorretta, tirerò questa mia osservazione sino ad arrivare a dichiarare che le tazze da tè hanno sconfitto il comunismo più di quanto non abbia fatto la democrazia rappresentativa. Tutti vogliono essere borghesi, o almeno la maggio parte delle persone, e il capitalismo ha mostrato per tutto il Novecento, e ancora ci mostra, di essere in grado di piegare alle proprie esigenze e poi di convivere con qualunque regime politico. Democracy and Capitalism, l’interessantissimo e imperdibile saggio di Samuel Bowles e Herbert Gintis mai tradotto in italiano, fornisce convincenti analisi e spiegazioni in merito. I regimi post comunisti di Russia e Cina, quelli teocratici dei paesi arabi, fondano sulla forza dello stato centrale e della preminenza di un’ideologia politica o religiosa il loro dominio. Ma le sirene degli stili di vita occidentali sono irresistibili e la rivolta contro l’Occidente è per la mancata accoglienza nel modo di vita borghese, non per il rifiuto di esso. In Occidente accade, però, che un senso di colpa collettivo, pandemia a parte, stia mettendo a dura prova la salvaguardia, la conservazione e la diffusione delle radici stesse della nostra cultura. Di recente, tale Dan-el Padilla Peralta, che insegna a Princeton, e che è diventato esponente di spicco di quella cancel culture di cui è preda una parte del mondo intellettuale anglosassone che ha attaccato da tempo Shakespeare – per la morte di Desdemona e Ofelia,  e di recente Jane Austen e Philip Roth. Padilla Peralta in interviste meno recenti esaltava la cultura classica, il cui studio – a lui bambino povero immigrato dalla Repubblica Dominicana – aveva permesso grazie alle borse di studio, di affrancarsi da una vita povera intellettualmente e materialmente. Jane Austen viene attaccata perché suo padre aveva quote di proprietà nelle piantagioni di zucchero e tè. Philip Roth perché era misogino e sessuomane, in rete trovate decine di articoli, e il suo biografo Blake Bailey la cui biografia di Roth viene mandata al macero dall’editore perché alcune studentesse, emerse dalle nebbie del passato, lo accusano di molestie e violenze sessuali e psicologiche. È giusto separare la biografia di un artista dalla sua arte? Io credo di sì, io sono convinta che Philip Roth sia uno dei più grandi scrittori del Novecento e che avrebbe meritato il premio Nobel, lui sì, mica Bob Dylan che scrive canzoni, che non sono poesia, sono un’altra cosa. Cancellare il passato, le tracce dello schiavismo, la violenza, nega la storia e la dignità di chi ha dovuto subire violenza e schiavismo. Non è abbattendo le statue di Colombo o facendo interpretare ruoli impossibili in epoche dove i mondi erano rigidamente separati, ad attori afroamerican,i che si possono correggere le storture della storia, il male fatto e il male patito.

Con il #metoo la presunzione di innocenza è venuta a cadere e si è affermata una logica inquisitoria, ogni uomo accusato è colpevole senza processo, ogni donna una vittima. Una vittima che resterà tale per sempre, inchiodata alla violenza subita senza poter andare oltre, come se la cura fosse impossibile e il marchio indelebile. Io credo che una donna che denunci una violenza sia sempre degna di fiducia, ma la colpevolezza dimostrata nelle aule di un tribunale è uno dei fondamenti dello Stato di diritto.

La letteratura è uno specchio deformante o forse un filtro, attraverso cui la vita passa e ci viene restituita da uno sguardo particolare, dalla creatività e dall’uso della lingua che gli scrittori sanno utilizzare come nessun altro. Non è la letteratura a essere violenta, misogina, razzista, è la vita, la vita che viviamo. L’educazione che impartiamo ai giovani, il rispetto per la fragilità, la solidarietà, lo spirito di cooperazione, il bene che siamo in grado di compiere, sono una conquista quotidiana. Il male fa parte della nostra natura, della nostra biologia, la storia di tutte le civiltà e le epoche ce lo dimostra. Negarlo e cancellarlo non ci aiuterà mai a combatterlo. Il male va guardato negli occhi, scritto, raccontato e combattuto al meglio delle possibilità di ciascuno. Bisogna essere vigili, all’erta, e ricordarsi che lo sguardo di Medusa, a volte, è nel nostro stesso specchio. Jung ci ha insegnato che l’ombra negata può prendere il sopravvento, per questo bisogna interrogarla e non negarla. Dove sono i liberi pensatori e le libere pensatrici? Dove è finita la libertà sessuale? E quella di pensiero? E quella di scrittura?

E adesso vado a leggere I fatti. Autobiografia di un romanziere di Philip Roth e a bere il tè in una classica tazza di porcellana a fiori, eredità di famiglia.

Oggi è domenica 2 maggio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 420 è impoetica e vibrante come l’aria tra gli alberi, come la vita che non ha paura, che guarda e indaga e non si arrende alle vuote ideologie che vogliono prenderla a calci per farla entrare in schematismi e gabbie disegnate da tristi figuri.

giovedì 15 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/403. La cura del mondo è un cerchio che danza

 

Cosa significa avere cura del mondo? In parte è impedire che l’azione del tempo offenda la bellezza delle cose e il nostro agire è tutto centrato su questo. Perché noi sentiamo le lacrime delle cose, ne percepiamo il dispiacere quando la bellezza originaria svanisce e, soprattutto, è difficile recuperarla. Io amo molto le cose già usate, quelle che hanno una storia, un passato, che altre mani hanno tenuto, usato e conservato. Amo anche le cose scompagnate, non ho servizi di posate ma quartetti di forchette, coltello, cucchiaio e cucchiaino che arrivano dagli ormai lontani anni Cinquanta del secolo scorso. Erano il campionario di una sorta di cugino calabrese che faceva il rappresentante di casalinghi e, quando aveva cambiato lavoro, aveva lasciato il suo baule in deposito a casa di mia nonna. Mia zia Maria, che detestava le cose vecchie, voleva buttare tutto, ma mia madre e mia nonna paterna salvarono tutto. Insieme a questi quartetti di posate, ce ne sono alcune trafugate dalla casa dei miei genitori e altre comprate nei mercatini. Anche per i piatti e i bicchieri ho partecipato al salvataggio di parecchi oggetti dimenticati e insieme a porcellane di fattura recente, ho piatti bellissimi del servizio buono dei miei genitori, bordato di oro zecchino. Ma non volevo parlare delle mie collezioni incompiute, che vanno a braccetto con la mia passione dei frammenti poetici e letterari, stasera volevo scrivere del senso della cura. Buona parte del lavoro quotidiano, soprattutto quello dedicato alla casa, serve a tenere gli oggetti in buone condizioni e gradevoli all’uso. In una casa curata possiamo vivere meglio, rilassarci, godere della piccola bellezza delle cose di uso quotidiano. Abbiamo poi cura dei giardini, delle piante sui balconi, degli alberi che fiancheggiano le nostre strade, dei monumenti, dei palazzi a partire dalle loro facciate. Il nostro manutenere fa parte di un senso più ampio della cura. Ma la dimensione che più interessa questa cura è quella del tempo, delle azioni e dei pensieri che dedichiamo ai nostri simili. Non sono solo i gesti dedicati alla vita materiale, cucinare, pulire, vestire che pure sono fondamentali, ma soprattutto i gesti e i pensieri che sostengono e accarezzano la fioritura di chi ci sta accanto. Ascoltare, sostenere, incitare, ispirare sono azioni che fanno bene al prossimo e a noi che le compiamo. Si parte sempre in concreto da chi ci sta vicino e poi, per cerchi concentrici, allarghiamo le nostre azioni agli altri ambiti della nostra vita. Il tempo della cura è un tempo donato che viene ripagato, nella cerchia di parenti e amici, con cure contraccambiate e con la gioia della condivisione. L’espressione della cura negli ambiti lavorativi è un'altra dimensione importante della nostra esperienza di vita, un’esperienza orbata e forse cambiata per sempre a causa della pandemia. La vita d’ufficio, l’unica esperienza lavorativa significativa e ormai lunghissima che mi appartiene, nonostante i molti lavori diversi che ho fatto, è una dimensione dove la cura si è espressa attraverso l’arredamento degli spazi con piante e quadri, prima ancora che lo facessero le aziende, ninnoli, libri e penne colorate sulle scrivanie. Piccole attenzioni nei confronti dei colleghi: invitarli a prendere il caffè, uno dei pochi momenti rituali della vita d’ufficio, insieme alla convocazione delle riunioni, che permetteva di scambiare opinioni fuori onda e ridere insieme. Pochi minuti al giorno, ma che facevano bene. Le pause sulle varie piattaforme sono, come dire carine, ma non possono sostituire la ritualità e il profumo di numerosi caffè che si espandeva nell’aria intorno. Avere cura in ufficio significava anche portare brioche per merenda di metà mattina, mele e arance in stagione, bottiglie d’acqua quando i distributori automatici non erano frequenti. E poi il regalo di piante grasse da mettere accanto al computer, di piccoli oggetti di cancelleria e di tazze colorate per il tè. La parte immateriale stava nell’aiutare chi era indietro nella consegna del lavoro, chi era in difficoltà con la tecnologia – mi viene in mente Nicoletta S., una collega talmente maldestra da essere riuscita a far saltare la scheda video del suo pc e la cui caratteristica principale stava nel lamentarsi in continuazione e in continuazione chiedere aiuto per fare qualunque cosa. Se lei è stata l’estremo dell’esperienza della cura, questa dimensione dell’aiuto e dell’ascolto, della solidarietà è fondamentale per rendere piacevole e per dare un senso all’agire quotidiano, anche se tutti, ormai, conosciamo benissimo l’insensatezza della burocrazia e la pesantezza che scarica ogni giorno sia sugli utenti che sui lavoratori. Esserci per gli altri è l’unica cosa che fa la differenza al lavoro, l’unica cosa che dà senso e piacere nel lavorare. Diversissime dalle mie esperienze impiegatizie sono quelle di amici e conoscenti che lavorano nel campo della produzione di beni e servizi e, in questa fase storica, il lavoro durissimo di medici, infermieri e paramedici e di insegnanti e dirigenti scolastici, di psicologi, psicoterapeuti e assistenti sociali. Avere cura degli altri, dei corpi malati, degli spiriti sconfortati, delle giovani menti in formazione di bambini e ragazzi, è l’attività fondamentale che garantisce la continuità della società e il legame sociale. Il legame è la condizione che favorisce le attività di cura e ne è anche una conseguenza. Oltre ai geni e all’ambiente in cui cresciamo, sono i legami e le relazioni che possono rendere la nostra vita un viaggio appassionante o l’anticamera dell’inferno. Chi fa politica, chi fa volontariato, va oltre la dimensione affettiva e lavorativa, perché si occupa e si preoccupa della vasta cerchia degli sconosciuti che compone il resto dell’umanità. Ma non ci si improvvisa in nessuna attività, vanno acquisite le competenze tecniche per ben espletare le attività di cura, di qualunque attività che va riconosciuta e ricompensata se coincide con l’attività lavorativa prevalente. Riconoscere la cura e la dimensione relazionale, ci porta a riconoscere la nostra dipendenza gli uni dagli altri, a rispettare le nostre fragilità e bisogni e sottolinea come la fiducia sia l’altra faccia della cura, un’altra condizione essenziale delle nostre vite.

È un cerchio che danza la cura, un bisogno e un effetto della vita, bisognerà che continui a rifletterci.

Questa Cronaca 403 di giovedì 15 aprile del secondo anno senza Carnevale, è la prima Cronaca della cura, penso che ne seguiranno altre, che altre poesie verranno a prendersi cura delle nostre anime inquiete di giorno e di notte.

mercoledì 10 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/367: primavera e nostalgie, in egual misura


 Nel quartiere in cui vivo stanno ristrutturando un negozio dove negli anni si sono succeduti vari ristoranti e pizzerie. Così ho visto che hanno svuotato magazzino e cantine perché c’erano mucchi di oggetti da cui era possibile risalire ai probabili proprietari. Tazze da caffè, piattini, piatti, vassoi, ciotole e scodelle, bicchieri da birra di varie fogge, pentole di terracotta. E poi libri e intere collezioni di fumetti, Linus, Zagor, Corto Maltese tra gli altri, e di fascicoli dedicati alle guerre nella storia. C’erano scaffali in metallo, pentole, portacandele, quadri, tutti i frammenti di varie vite ed esercizi commerciali che avevano occupato spazi in quel palazzo negli ultimi decenni. C’erano tre donne che curiosavano tra la montagna di oggetti e un uomo. Quando gli operai addetti allo sgombero si sono accorti dell’interesse di quei condomini, hanno cominciato a dire “gli scaffali, no, i bicchieri da birra no, le pentole di terracotta neanche, i nuovi proprietari del ristorante vogliono tenerli”, devono avere pensato che ci fosse qualcosa di un certo valore se quella gente che abitava in una bella casa d’epoca si stava impolverando per recuperare alcuni cose. Mi ha molto colpito quel confronto muro contro muro che si era scatenato tra i due gruppi. I condomini che di sicuro erano gente piena di oggetti e gli operai, tutti stranieri, dell’est dalla pronuncia, che di cose di certo non ne avevano molte. Così la mia passione sociologica ha preso il sopravvento e sono rimasta a guardare sino a che il confronto/scontro non è finito. L’uomo degli scaffali ha rinunciato ma si è preso un’alzatina di peltro per la frutta, le signore si sono spartite i libri  e le riviste e ho sentito una che diceva alle altre di avere la cantina piena di oggetti lasciati dai gestori del ristorante che si sono volatilizzati un paio di anni fa senza più pagare i conti. Una storia come tante, una storia che contiene in sé tutte le storie della varia umanità che un tempo aveva scelto quegli oggetti e li aveva portati in casa o nel ristorante. In quel mucchio di cose provenienti da almeno gli ultimi cinque decenni, non ho potuto fare a meno di riconoscere il naufragio e la fine stessa del Novecento, il secolo che è finito nel Duemilaventi con la pandemia e non quando lo credevamo finito per convenzione con l’avvento dell’anno Duemila. Oggi siamo ancora nel pieno di un evento che ha mutato le modalità lavorative, scolastiche e sociali. Il dopo è presumibile, ma non certo, possiamo avere speranze ma non certezze. Così ho ripreso la mia camminata sino a che non è il sole non è tramontato, ho guardato le prime fioriture e sono ritornata sui miei passi, fantasticando sul passare del tempo, sul succedersi delle generazioni, su quello che di noi lasceremo ai posteri, a chi ci ama, ai nostri discendenti.

Gli oggetti parlano, è vero. Dicono di chi li ha costruiti e di chi li ha comprati, usati e poi gettati. Ma è negli occhi e nei capelli, nella corporatura, in uno sguardo, un gesto, una posa della mano, un piegamento della testa che vedo genitori, nonni e zii replicarsi nelle giovani generazioni, l’unica vera eredità di questa terra è il mistero della lotteria genetica che ci ha dato corpo e lineamenti che siamo, e una minore o maggiore resistenza al virus. Cosa sono gli anni, cos’è il tempo, cosa sono le generazioni? Torno a casa e mi metto a guardare vecchie fotografie, a commuovermi su quei volti che il tempo ha mutato o divorato, mentre tutti insieme vaghiamo per lo spazio e conosciamo poco e niente tutto l’universo che ci contiene.

Oggi è mercoledì 10 marzo del secondo anno senza Carnevale, un giorno scoppiettante di primavera e nostalgie.

domenica 7 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/364: nessuno parla, è una domenica di preghiere mute e di nostalgie

 



Nessuno parla, non ci sono tempeste, c’è calma di vento, il mare è grigio inframmezzato d’azzurro, specchio del cielo e del nostro umore. Respiriamo salsedine, odore di alghe, ci fermiamo a guardare le onde che divorano le nostre impronte. Nessuno parla, è una domenica di preghiere mute e di nostalgie. È quasi un anno che siamo chiusi in casa, un anno dalle prime paure e dalle manifestazioni di ottimismo per il futuro. E, invece, la pandemia rallenta un po’ grazie ai vaccini, la disorganizzazione territoriale della sanità sta mostrando tutte le proprie pecche in Lombardia, regione che pretendeva di essere il meglio della sanità. La lotta tra pubblico e privato in Italia non so se avrà mai fine. Il pubblico viene disprezzato, salvo quando si pretende la soluzione dei problemi con la bacchetta magica, in tanti ritengono che le perdite siano da condividere e finanziare dal tento detestato Stato centrale. I profitti no, quelli sono per loro natura privati e non condivisibili. Il patto silenzioso tra la politica e gli evasori fiscali ci ha portato ad avere i livelli di debito pubblico che abbiamo. I poco avventurosi lavoratori dipendenti delle generazioni dei baby-boomer e i pensionati, sono non solo la spina dorsale, ma tutto lo scheletro della finanza pubblica, le tasse pagate da queste persone sono quelle che hanno permesso di tenere in piedi la macchina delle politiche pubbliche e dei servizi. Le folli scelte su istruzione e sanità dell’ultimo quarto di secolo, hanno mostrato durante la pandemia il loro vero volto, chissà se il PD e le sue mille correnti se ne sono accorti, chissà se l’assistenzialismo dei 5 stelle, l’identitarismo e il sovranismo di Lega e FdI, verranno toccati da quanto sta accadendo.

Le facoltà universitarie a numero chiuso hanno decimato il numero dei medici, forse bastava mettere esami obbligatori al primo anno e solo le persone veramente motivate, avrebbero continuato quel duro percorso di studi. Forse era meglio mantenere le lauree quadriennali anziché inventarsi i licei prolungati che alcune facoltà sono diventate. Forse sarebbe stato meglio non farsi rimbambire dalla retorica televisiva degli anni Ottanta – oh ve la ricordate la Milano da bere? - e Novanta con la discesa in campo di una nuova destra aziendalista e scintillante. Cosa è rimasto di quegli anni, figli misconosciuti del Sessantotto? L’ascensore sociale è bloccato, è sempre più raro che i figli riescano a maturare condizioni di vita migliori di quelle della famiglia d’origine. La scolarizzazione di massa non ha fatto aumentare l’amore per la cultura e il sapere. Dopo il rimbambimento televisivo ecco quello social, dove tutti si sentono legittimati a esprimere la propria opinione su qualunque argomento e a riportare le chiacchiere da macchinetta del caffè come fatti e non opinioni. Non solo l’autorità è stata incrinata, anche il principio di autorevolezza, quello che fa blaterare di pandemia e vaccini chiunque. Starete forse pensando che lo faccio anch’io. Lo studio e la lettura continui mi danno forse una piccola legittimità a condividere le mie riflessioni. Nel mio spazio virtuale lancio le mie bottiglie nell’oceano dell’informazione. Dove finiranno questi scritti? Da nessuna parte è la risposta giusta. Da nessuna parte, se non qui, dove continuo ogni giorno a raccogliere frammenti di mondo e a impastarlo con la poesia che mi abita.

Nessuno parla, non ci sono tempeste, c’è calma di vento, il mare è grigio inframmezzato d’azzurro, specchio del cielo e del nostro umore. Respiriamo salsedine, odore di alghe, ci fermiamo a guardare le onde che divorano le nostre impronte. Nessuno parla, è una domenica di preghiere mute e di nostalgie. Chissà dove saremo e cosa staremo facendo il 7 marzo del 2022. Questa è la Cronaca 364 del secondo anno senza Carnevale, sociologica, riflessiva e muta di poesia.

venerdì 22 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/320: il tempo è diventato una teoria di frammenti

 


Ogni giorno appena iniziato è un libro non scritto di almeno ventiquattro pagine, ogni pagina ha sessanta righe, ogni riga sessanta caratteri.

Queste costanti di ciascun giorno non avranno come esito la stessa densità, lo stesso slancio vitale, la stessa gioia.

Raccogliamo in un unico fascio le otto ore dove, almeno in teoria, dovremmo star dormendo. Otto ore di cui ricorderemo solo qualche frammento di sogno, se saremo fortunati, al risveglio.

Diamo otto ore anche al lavoro, allo studio, all’impegno quotidiano. Se lo studio ci consegna il senso di una crescita e di un apprendimento, molto diversi sono gli esiti di una giornata lavorativa. Che lascerà traccia se avremo fatto qualcosa di straordinario o incontrato qualcuno di straordinario. La maggior parte dei lavori che facciamo per vivere non sono straordinari, sono solo lavori fatti per vivere.

Restano otto ore per tutto il resto: l’amore, i figli, gli amici, i genitori e la famiglia. I libri, lo sport, le passeggiate, il cinema, le telefonate, la spesa, la cucina, la manutenzione della casa.

In tutti e tre questi ventagli fatti delle nostre ore, la tecnologia e i social media hanno fatto irruzione sconvolgendone i ritmi.

Mi ha sconvolto oggi la notizia della bambina palermitana che per rispondere a una “sfida”, come vengono chiamate le stupidaggini collettive cui ci prostriamo, ha perso la vita. Dieci anni appena e di chi è la colpa? Non so più chi, dal rumore di sottofondo dei media, ha urlato che sono i genitori a dover controllare l’uso che dei social fanno i figli. Troppo facile e troppo comodo accusare la famiglia della bambina. In quella famiglia sono tutti vittime della stupidità collettiva di noi esseri umani. È dalla stupidità tecnologica che i bambini vanno difesi, non possiamo difendere i bambini dalla vita, ma dalla nostra stupidità sì. E come collettività abbiamo il dovere di farlo. Se un social non è in grado di eliminare contenuti potenzialmente pericolosi va bloccato. Un paese civile dovrebbe farlo subito.

Sento già le voci di chi inneggia alla libertà e che la tecnologia in sé non è né buona né cattiva, che tutto dipende dall’uso che se ne fa.

Certo, questo vale per gli adulti, ma non tutti gli adulti ci arrivano; allora va organizzato un massiccio programma di educazione civica digitale. Perché la vita digitale è la prosecuzione della nostra vita reale con altre modalità.

Se ci fosse qualcuno fermo in un angolo della strada che cerca di convincere dei bambini a stringersi una cintura al collo per far vedere quanto siano coraggiosi, cosa faremmo? Non dubito che cercheremmo di fermarlo, che chiameremmo la polizia e auspicheremmo che uno psicologo si occupasse delle sue turbe. Perché allora dovremmo accettare che chiunque possa dire e fare qualunque cosa sui social?

I social non sono strumenti neutri, la dimostrazione definitiva viene dal fatto che abbiano deciso, troppo tardi, di bannare il penultimo presidenti americano solo dopo i fatti gravissimi del sei gennaio scorso. Dopo quattro anni di falsità e volgarità postate a decine ogni giorno senza conseguenze per chi le aveva scritte.

La religione è l’oppio dei popoli, scriveva nello scorso millennio Karl Marx, la citazione completa è più articolata, ma noi cittadini del suo futuro, noi che abbiamo secolarizzato il mondo, noi abbiamo i social, più potenti di qualunque altra cosa.

Il tempo è diventato una serie di frammenti a causa delle tecnologie. Siamo continuamente interrotti da mail, messaggi di varia provenienza, telefonate, newsletter e news.

Provate ad annotare cosa resta delle vostre ventiquattro ore vissute così. Proviamo a stare un giorno il più possibile lontano dai social, dalle piattaforme streaming, dai messaggi. Il più possibile lontano significa solo questo, perché abolirli dalle nostre vite non credo sia possibile, ma disciplinarli e auto-disciplinarsi, questo sì.

Oggi volevo scrivere delle ventiquattro ore che formano ogni nuovo giorno e lo rendono un libro non scritto. Forse lo farò domani, ma oggi la rabbia e il dolore per quella piccola vita spezzata hanno preso il sopravvento. Oggi che è venerdì 22 gennaio del secondo anno senza Carnevale, in Brasile hanno appena annullato il Carnevale previsto per febbraio. Che facile profezia la mia, quella di scrivere le Cronache dagli anni senza Carnevale e questa è la numero 320. Pubblicata sul mio blog (piattaforma tecnologica) e sul più diffuso social, come ne usciremo?

P.S. ho appena appreso che il Garante della Privacy ha bloccato TikTok, questo almeno pare un inizio.


giovedì 14 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/312: dove la poesia è un gatto davanti al fuoco e la sociologia un giro di valzer con il passato

 



Avvertenza per le lettrici e i lettori: questa Cronaca risente delle troppe ore passate a guardare vecchi programmi televisivi su Youtube, programmi che non ho visto ai loro tempi, ma che cerco oggi per dare corpo, volto e suono ai ricordi.

Quando ero molto giovane ero affascinata dalla pubblicità, vi ricordate la Notte dei Pubblivori al cinema Orfeo? Era un vero spasso, micro storie belle da vedere, musica interessante, uno sguardo sul mondo attraverso gli stili di consumo, sguardo che, essendo Internet ben lontano dall’essere creato, affiancava il cinema, la televisione e i libri.

Adesso se c’è una cosa che non sopporto è la pubblicità, tutte le smancerie legate alla privacy e ai cookies sono leziose e false, così che da anni ho deciso di non comprare prodotti che mi balzano sullo schermo con un pop-up e di sfogliare a velocità doppia le riviste cartacee, ho molto abbonamenti in corso nonostante mi sia convertita al digitale per parecchie fonti d’informazione, sono stanca di vedere modelle emaciate e modelli tristi, luoghi che non visiterò se non in sogno, vestiti che non indosserei neanche se me li regalassero. Le pubblicità che mi fanno proprio arrabbiare sono quelle delle automobili: pubblicitari?! Ma dove pensate che possiamo andare di questi tempi? Chi ha i soldi per comprarsi un’auto da ventimila euro? E soprattutto: che ce ne facciamo di un’auto che deve restare parcheggiata per non si sa quanto tempo ancora? Ciò premesso devo anche confessare che adoro guidare l’automobile, che ho preso la patente a diciotto anni e che in quinta superiore i miei genitori mi hanno regalato la mia prima auto: una 850 FIAT Special bianca con gli interni rossi di pelle e il volante di legno, forse ne ho già scritto in un’altra Cronaca; guidare l’auto per la mia generazione è stato simbolo di libertà e in auto ho scorrazzato per l’Europa e anche per la costa orientale degli USA. Sono, dunque, una contraddizione,  un perfetto esempio vivente di anti-consumista che ben vive in una civiltà tutta basata sul consumo.

La pandemia ci ha però mostrato che la maggior parte dei nostri consumi non sono né utili né necessari al nostro quotidiano avanzare nel tempo, i nostri consumi sono funzionali agli stili di vita che il capitalismo avanzato e la società di massa ci consentono e ci spingono ad adottare. Vestiti, scarpe, borse, cosmetici sono legati alla vita sociale: ufficio, bistrot, apericene, ristoranti, cinema e teatri.

Non avendo accesso causa virus a nessuna di queste forme di socialità, i bisogni crollano e gli oggetti invecchiano negli armadi, ma poi tornano di moda.

Tra l’inizio del Ventesimo secolo e questo primo ventennio del Ventunesimo sono state create, provate, consumate ed esaurite tutte le possibili forme di abbigliamento per gli esseri umani. Ora siamo dunque in una fase di ripetizione, dove siamo incantati dagli anni Cinquanta e Sessanta, sia per quanto riguarda la moda che il design, gli arredi e le architetture. Mi commuovo quando riconosco le esili gambe di sedie e poltrone che avevano anche i mobili nelle case d’infanzia e il velluto carta da zucchero per le imbottiture delle poltrone e dei divani, il verde veronese, un po’ più tenue, e l’avorio per i mobili della cucina, l’acciaio cromato e scintillante che faceva pensare al futuro.

Gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quelli della mia inconsapevole gioventù, fatti di capelli cotonati e abiti strutturati con spalline imbottite non mi piacciono. Mi incanto, invece, quando vedo i pantaloni a zampa d’elefante, i capelli afro, gli zatteroni e gli zoccoli, i colori e i fiori tipici degli anni Settanta. Se avete bisogno di rinfrescare la memoria andate su Youtube a cercare spezzoni del film Hair. Ho adorato la moda hippie, la musica di quel decennio e la libertà che quello stile di vita lasciava presagire. Ma poi sono arrivati gli ultimi decenni del secolo breve e Internet, i telefoni cellulari hanno fatto irruzione nelle nostre vite.

Il resto è storia recente, non solo cronaca. Anche questi giorni difficili e cupi diventeranno storia nel giro di poco, la maggior parte sono destinati a essere inghiottiti dall’ordine del Tempo e questo è un bene. Non si può vivere con la zavorra del passato sulla schiena come uno zaino sempre più pieno, giorno dopo giorno.

La nostra storia la stiamo vivendo, ai posteri, come sempre, il compito di scriverla, ai noi il compito di lasciare tracce intellegibili in questo livello di realtà.

Oggi è giovedì 14 gennaio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 312; la poesia sonnecchia coi gatti davanti al fuoco e lascia che la sociologia faccia i suoi giri di valzer tra i libri e la memoria.

martedì 22 dicembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/289: dove sentiamo tutte le voci, anche quelle che non ci aspettavamo



Mentre il fuoco continuava a crepitare i loro sguardi giravano intorno come su una giostra e non si fermavano, non si fermavano mai.

-     Non c’è molto da raccontare – disse Chino – la pandemia è scoppiata a fine febbraio e io sono rimasto disoccupato. Si dice che il virus girasse già da novembre del 2019… ma quante chiacchiere non verificate. All’inizio le persone hanno reagito bene, mentre arrivavano bollettini sempre più drammatici, ogni sera alle diciotto, le persone uscivano sui balconi, si affacciavano, cantavano e suonavano. Sembrava che con poche settimane di sacrificio e disciplina avremmo sconfitto il virus. Il primo confinamento ci aveva fatto scoprire e riscoprire la bellezza dei paesaggi e delle nostre città vuote di persone e di auto. Quanto è bella l’Italia e come siamo creativi noi italiani, lo pensavamo tutti all’inizio. E quel silenzio impagabile, mai udito. Nelle belle giornate di sole, affacciarsi e respirare l’aria diventata pulita era magnifico. Una mia amica era arrivata persino a dirmi che aprile è stato il mese più bello della sua vita. Nuovi amori sono sbocciati, coppie che si stavano allontanando hanno avuto tempo per riavvicinarsi…. Ma poi… poi non si poteva più uscire se non gironzolare intorno a casa, da soli e con il volto mascherato e poi... poi…

Chino si mise a piangere sottovoce.

-     Scusate, scusate, ma mi sento così sciocco, così stupido!

Geppo gli si avvicinò e gli mise un braccio sulle spalle e continuò il racconto.

-     Le grandi aziende e la pubblica amministrazione hanno favorito l’adozione dello smartworking, una vera rivoluzione copernicana. Gli impiegati hanno cominciato a lavorare a casa grazie alle tecnologie digitali. Internet è diventato uno strumento di lavoro e di condivisione. Anche di apprendimento si diceva, non avevamo capito che, se anche la tecnologia favoriva un’ampia fascia di lavoratori, a pagare le conseguenze della pandemia sarebbero stati i piccoli e poi anche gli adolescenti…

Fu la volta di Miren a continuare la storia.

-     Io sono maestra alle scuole elementari nella città silenziosa, nel quartiere di Baggio per la precisione. È ancora un quartiere popolare, di impiegati, negozianti, immigrati di prima generazione. I bambini sono come noi adulti, creature che amano vivere in gruppo e se stanno da soli lo fanno solo perché sono costretti. Noi umani impariamo guardando cosa fanno i nostri simili, non solo sui libri di scuola, leggendo e studiando. Impariamo ascoltando storie e ripetendole, impariamo giocando, facendo finta di essere qualcun altro. Ma davanti a uno schermo come si fa?

Lino si inserì tra un singhiozzo e l’altro di Miren.

-     Così mentre i vecchi morivano a centinaia ogni giorno, i lavoratori dei settori essenziali, sanitario, alimentare, distribuzione, poste continuavano a lavorare, per i lavoratori a distanza si creava una nuova dimensione da lavoro in bottega, solo che loro non producevano niente di niente, solo milioni di ore di conversazioni online, di connessioni interrotte, di insofferenza via via crescente nei confronti delle mura di casa. Certo, c’era il vantaggio di non sprecare più ore di vita sui mezzi di trasporto, ma la mancanza di quei piccoli rituali della vita pubblica – il caffè al bar, un nuovo paio di scarpe, il rossetto rosso fiammante, le chiacchiere alla macchinetta da caffè, il pranzo al ristorantino sotto l’ufficio… le amicizie, i flirt, le relazioni clandestine… tutto finito… tutto rimandato nel migliore dei casi…

Bimba sentì il sangue defluirle dal viso e continuò a raccontare perché all’improvviso le era tornato tutto in mente.

-     Sì, adesso mi ricordo, mi ricordo degli scrittori e degli intellettuali che si sono precipitati a pubblicare i loro diari e riflessioni dal primo lockdown, convinti che fosse tutto finito. Mi ricordo che tra un decreto e l’altro sono finiti in ginocchio i ristoranti, i bar, i cinema, gli alberghi, le agenzie di viaggio, le guide turistiche, i sistemi di trasporto, aerei e treni in testa, le discoteche, i lavoratori del settore dell’intrattenimento, i ballerini, gli attori, i registi, le guide museali, i cantanti e i musicisti. Chiuse anche le librerie e le biblioteche, senza speranza. Poi i mesi di follia estiva, il “liberi tutti” per le vacanze, gli spostamenti di massa, il delirio sui banchi a rotelle nelle scuole di ogni ordine e grado del regno, i duelli televisivi dei virologi, il virus che si era depotenziato, che stava scomparendo, i sostegni all’economia. Certo è facile criticare il governo, è sin troppo facile. Ma sfido chiunque a dover gestire una crisi di una tale portata e a non commettere errori. Vedete, già solo il fatto che siamo qui a parlarne noi cinque che non abbiamo nessun titolo per farlo, ma siamo informati, perché leggiamo i giornali, in pochi per la verità, leggiamo i titoli sui siti, Facebook, Instagram e Twitter e tutti abbiamo un’opinione su tutto, soprattutto i complottisti e i negazionisti. Così, in autunno convinti di esserne fuori, abbiamo allentato la vigilanza e adesso siamo nel pieno della seconda ondata che probabilmente è solo il preludio della terza e intanto il virus è mutato. Le città sono piene di gente a passeggio, che riempie i negozi per cenoni e pranzi, per i regali e le regole impazzite della corretta condivisione natalizia, 1 + 1 congiunto, i nonni da soli, non siete tenuti a dire da chi andate, non mangiate troppo, non siate tristi, non uscite di casa, raggiungete la vostra famiglia ma soli nei giorni gialli, in quelli rossi tutti in casa. Nessuno che dica che il virus è daltonico, che la politica deve riprendere in mano le redini dell’economia e non esserne la serva compiacente, che gli evasori fiscali vanno scovati uno a uno e pesantemente multati perché sottraggono risorse ai due pilastri fondamentali di ogni società: il sistema sanitario, dove mancano medici, infermieri, ospedali, reparti e macchinari; il sistema scolastico e universitario, dove ci sono poche risorse a disposizione e dove mancano pure qui le maestre e i maestri, i docenti, i fondi per la ricerca. Ci sono profonde ragioni storiche e socio-politiche, destra e sinistra possono spartirsi i demeriti che stanno causando questa situazione. Lo smantellamento della sanità pubblica, quasi riuscito in molte regioni è frutto delle politiche di destra. La precarizzazione del lavoro e la mortificazione dello studio, be’, qui non faccio differenze tra destra e sinistra, anzi la sinistra ha fatto peggio.

Stop! No! Fermi tutti! Questa è una favola di Natale, mica un articolo ben scritto da una persona bene informata che ci fa il riassunto dei fatti e lo infarcisce di parecchie opinioni.

Allora mia cara narratrice, come continua la tua fiaba?

Continua che dopo i racconti condivisi che erano necessari, e necessari lo sottolineo, perché la memoria labile dei social passa di continuo come un’onda sulla nostra attenzione, ecco la storia continua che Bimba adesso ricorda e per porre rimedio deve trovare lo spirito del Natale di quest’anno senza Carnevale che ha reso disoccupati Lino e Chino.

Così oggi è il 22 dicembre dell’anno senza Carnevale e questa Cronaca 289 risuona della mia passione per la sociologia e l’antropologia che già ho manifestato in Cronache passate. Devo capire, però, chi diamine è quello che mi ha interrotto lo slancio giornalistico di questo scritto. Appunto, ma tu chi sei? E cosa ci fai nella mia Cronaca?

mercoledì 16 dicembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/283: le forze invisibili che governano il mondo

 



Abbiamo scritto il fuoco per scaldarci nei giorni più freddi e abbiamo scritto la luce per non arrenderci alla notte più oscura.

Abbiamo scritto il vento per respirare in più ampi spazi e abbiamo scritto la pioggia per dare ristoro agli alberi estivi e ai girasoli impazziti di luce.

Le altre creature, gli alberi e le piante, le montagne e le nevi, il mare e le tempeste, tutto esiste a prescindere da noi ed esisteva, anche se in forme diverse, ben prima che la nostra specie alzasse per la prima volta lo sguardo verso il cielo stellato e sentisse il cuore riempirsi di sgomento e di gioia allo stesso tempo.

Abbiamo imparato a disegnare, dipingere, cacciare, riconoscere i vegetali buoni da quelli letali. Abbiamo costruito utensili, capanne, scarpe, contenitori e pentole quando abbiamo capito che il fuoco è anche cosa buona.

Vi è mai capitato di pensare alla paura dei nostri più antichi antenati, quelli vissuti solo qualche migliaio di anni fa? Vivevano poco più di trent'anni, erano nomadi, e vivevano per procacciarsi il cibo e un riparo. Da Telmo Pievani soprattutto, ho imparato che noi Sapiens non eravamo l’unica specie umana, che eravamo una quindicina di specie sorelle, ma che noi siamo rimasti gli ultimi. Tutti gli altri si sono estinti, forse perché meno adattabili, forse perché i nostri pro-genitori li hanno sterminati.

Ma ora ci siamo noi qui sulla terra ed è vero che ne abbiamo depredato le risorse, è vero che i nostri antenati occidentali hanno messo a ferro e fuoco quasi tutto il mondo e sterminato, direttamente con le guerre e indirettamente con le malattie, decine di milioni di essere umani indigeni degli altri continenti.

Ma siamo qui, adesso, circa otto miliardi di creature umane, mosse dagli stessi istinti e dalle stesse ragioni degli antenati: cibo, sesso, sicurezza, speranza nel futuro.

Non esistono soluzioni semplici e facili per una società complessa e al contempo fragile come la nostra. Basta vedere le reazioni degli utenti al #Googledown di due giorni fa.

Tutta la storia dell’umanità testimonia che non ci siamo mai arresi, generazione dopo generazione, che le forze ctonie della natura sono state uno stimolo fondamentale e inarrestabile al progredire della conoscenza, della scienza e della tecnologia.

La nostra vita è molto più intessuta dalla forza dell’invisibile di quanto non non siamo disposti ad ammettere.

La maggior parte delle “macchine” funziona grazie a energie e forze invisibili, l’arte occidentale dai suoi primordi è, con le religioni, il legame principale con il mistero, con la trascendenza, con i diversi piani di realtà cui possiamo accedere.

Così forse è meglio smettere di sbraitare contro il Natale consumista e riflettere sui motivi che ci spingono a creare, costruire, desiderare e consumare sempre cose nuove e in maggiori quantità. Forse è il momento di riflettere sul nostro bisogno di novità come a qualcosa di profondamente connaturato a ciò che siamo. 

Forse bisogna iniziare a credere che il bene è una scelta quotidiana che dobbiamo rinnovare, un contratto tra noi e noi stessi e poi con il mondo intero.

Fare del bene significa anche essere capaci di aiutare il prossimo a dotarsi di strumenti intellettivi e di conoscenza che lo aiutino a tenere a bada il male, a non fare male e a essere capaci di fare la differenza prendendosi cura di una creatura, di un oggetto alla volta, partendo da chi ci è più vicino.

Queste riflessioni vagabonde accompagnano mercoledì 16 dicembre dell’anno senza Carnevale e questa Cronaca 283 profuma di cibarie mentre apro un pacco natalizio ordinato in un momento di folle ottimismo, sperando che le feste avrebbero riportato pranzi e cene nelle nostre vite. Ma adesso devo capire come dividere e donare 1 kg di parmigiano reggiano, mezzo chilo di salmone selvaggio norvegese, 250 grammi di acciughe del Cantabrico, un salame di Felino e mezzo chilo di funghi porcini sott’olio, magari questa sera faccio qualche assaggino.