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lunedì 2 maggio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/785. Dove le nuvole si adeguano al cielo urbano



Scelgo la materia con cui costruire questo giorno: pietre, alberi, nuvole, il mio sguardo sul cielo. Dalla strada, che sta nel mondo più in basso, all’albero, creatura del regno intermedio, alle nuvole, che ci costringono a chinare il capo all’indietro per poterle guardare, o a sdraiarci su un prato e lasciare che il loro movimento, lento o veloce non importa, ci rubi lo sguardo e allo stesso tempo lo intessa di nuova luce e nuove percezioni.

Anche se si tratta di pietre, alberi e nuvole che appartengono alla città mai più silenziosa riesco, all’interno di questo paesaggio urbano, a ritagliare un paesaggio senza tempo che mi protegge lo sguardo e mi rallegra. Le nuvole urbane sanno di avere un cielo più piccolo a disposizione e si adeguano nelle forme per riuscire a mostrarsi comunque nella loro effimera bellezza.

 

 

In attesa di un nuovo stupore

 

Una margherita, il muso

di un cane, una pecora,

queste sono le nuvole

che attraversano il mio

cielo. Poi risplende il

fiore di un’immensa

gonna di taffetà, e così

una nuova favola attraversa

il vento e arriva sin quaggiù,

dove noi siamo sempre

in attesa di un nuovo stupore.

 

 

Così ho trascorso l’intera giornata ad ascoltare questa nuova favola, a catturare il canto del vento tra le foglie e a stupirmi della bellezza del mondo, nonostante la guerra, nonostante il dolore.

Oggi è lunedì 2 maggio del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra. Questa Cronaca 785 ancora svolazza insieme alle nuvole e alle favole.

martedì 2 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/331: ancora la pietra bianca e il silenzio intorno a me

 


 

È il terzo giorno che vado in riva al ruscello e ascolto il silenzio delle voci umane e cerco di decifrare la natura intorno.

Siamo noi umani a dare voce e senso alle altre creature, a intessere le altre vite umane, quelle animali e vegetali, e quelle minerali, in una trama di senso che indichi sia la direzione da cui arriviamo che quella verso cui siamo diretti.

Per questo genere di movimenti non è necessario muoversi davvero, si può accogliere la stanchezza del confinamento e farne un luogo sicuro dove fermarsi a riposare e riflettere. Quanto tempo avevamo sino a un anno fa per riposarci e riflettere? Molto poco e spesso andava sprecato. Ora siamo nella condizione opposta in cui il tempo per noi è diventato quasi un eccesso che non sappiamo bene come gestire. Fuori dai contenitori opachi che sono lavoro, vita familiare e social, quanto davvero il tempo liberato ci attrae e ci aiuta a dare senso alla nostra vita?

Qui accanto al ruscello i sognatori continuano a dormire e gli insonni vagano nella foresta cercando quel luogo dove potersi fermare e cercare il sonno, un sonno ristoratore, pazienza se i sogni questa notte non arriveranno.

 

La notte degli insonni

 

Nella foresta continuano a vagare

gli uomini che non hanno riposo e

vagano con loro le donne insonni

e tutti sono diventati ciechi perché

non si può tornare a guardare questo

mondo se lo sguardo non si è aperto

anche su quelli che non controlliamo

e che sono l’unica realtà che ci

consola. La pietra bianca li chiama per

nome e tutti arrivano e si sdraiano,

accettano l’ignoto che è vita stessa,

vita senza nome che sarà la nostra.

 

Trovo nella poesia questa risposta, una poesia che è uscita come un pulcino dal suo guscio troppo stretto ormai. E io lascio che voli via da me sino alla città silenziosa e che da laggiù quel silenzio ritorni carico di senso e di promesse.

Questa è la Cronaca 331 di martedì 2 febbraio del secondo anno senza Carnevale, una giornata di silenzio e riflessioni, molto lavoro e La notte degli insonni che mi è nata tra le mani questo pomeriggio.

giovedì 21 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/319: il nostro orecchio continua a cercare meraviglie

 


 

Un giorno non sempre dura un giorno, a volte dura un attimo, a volte una settimana. Quando faccio le cose che mi piacciono entro in uno stato diverso della realtà e non mi accorgo di quello che mi accade intorno e non ho nemmeno voglia di parlare. Così ripercorre il sentiero sino in fondo al giardino e mi fermo ad ascoltare.

 

Il silenzio della neve mi sorprende

 

Quando non ho voglia di parlare

ascolto l’acqua in una delle sue

molte voci. In fondo al giardino

mi parla la fontana, mi parla

il ghiaccio sotto i passi incerti e

quando arrivo sino alla panchina

di pietra è la brina che lascia

scivolare altre parole. Alzo lo sguardo

verso il cielo e subito la pioggia riprende

a chiacchierare con la stessa baldanza

dei giorni più veri, dove la primavera

ha già dichiarato che tornerà. Il silenzio

della neve mi sorprende e mi esorta a

raggiungere il mare. Laggiù, lungo

la spiaggia risalgo seguendo le rive

dolci del nostro fiume. Tutte le voci

sono qui, alla rinfusa nel delta amaro

di pietre e sabbia e a quelle voci

altre voci si aggiungono e per questo

so che non saremo mai soli.

 

 


Quanto è mutevole la voce dell’acqua, quanto ancora potrei scriverne, ma è tempo di ritornare alla Casa delle Parole e ascoltare le voci umane che danno forma al mondo, a questo mio mondo fatto di neve e lunghi silenzi.

So che è difficile sentire la propria vita che si dipana in questi giorni che sembrano sempre l’unico stesso, infinito giorno. Siamo costretti nelle case, chi può lavorarci, siamo costretti a stare lontani da chi amiamo, siamo costretti a non conoscere persone nuove. Quindi dobbiamo avere cura di tutto ciò che già abbiamo e che già siamo, potremmo scoprire cose inaudite.

 

Il nostro orecchio continua a cercare meraviglie

 

Non ho rinunciato a cercare

nuovi sassi in spiaggia, lascio

le novità per giorni migliori

e mi diverto a lucidare quelli

che già tengo sulla scrivania.

Anche nelle pietre si sente

il rumore del mare, è solo

una leggenda che siano

le vuote conchiglie a tenere

il suono per darci forza quando

vacilliamo. Le pietre hanno

la forza del tempo che le sostiene

e il nostro orecchio continua a

cercare meraviglie.

 

Così si sta chiudendo anche giovedì 21 gennaio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 319, rumorosa e in attesa insieme alle due poesie inedite che ho scritto tra il pomeriggio e la sera.

martedì 5 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/303: il fiume sospira nella gola, condensa in ghiaccio la nostalgia di mare

 


 

Anche le pietre hanno iniziato a camminare, sono incolonnate ai bordi del marciapiede e si muovono come le piccole formiche in un’ordinata fila indiana. È una strana visione che accompagna il risveglio questa mattina molto presto. Adesso non so se è stato solo un sogno o davvero le pietre camminavano. So soltanto che man mano che lasciavano libere le vie, il mare si avventurava e allargava sino alle mie finestre.

Un mare prima quasi immobile e grigio, poi, via via che si alzava il livello, increspato da piccole onde e azzurro come il mare che ho respirato e veduto ieri.

La città è zona rossa ma non più silenziosa, per questo sono tornata nella Casa delle Parole dove gli abitanti fissi mi hanno salutato con grande allegria, ma subito sono tornati alle loro faccende. Così sono scesa in giardino a passeggiare sino alla fontana, ad ascoltare la voce dell’acqua che tanto mi rasserena. Nonostante il freddo ho portato con me la nuova edizione del libro di Laura Boella Cuori pensanti e ho letto il capitolo dedicato a Etty Hillesum e al suo desiderio di diventare una scrittrice. Le parole della Hillesum risuonano in me sempre come la prima volta che lessi il suo Diario nel novembre del 1985.

Stare all’aria aperta, camminare, respirare. Nonostante il freddo è bello, così in giardino, dove sono da sola, levo la mascherina e gli odori del mondo mi fanno quasi vacillare perché non sono più abituata.

Mi incammino poi verso il mare a passo veloce, ma non arrivo sino alla spiaggia, preferisco guardare da lontano oggi, e continuare a sforzare memoria e immaginazione. Il mare è una striscia di argento e di azzurro e l’orizzonte una linea fluida tra la terra e il cielo.

Torno sui miei passi per arrivare ai piedi delle Montagne della Luna. La sorgente dove mi fermo d’estate gorgoglia e l’acqua scorre compiendo l’opera cui è chiamata ogni giorno. A volte mi sembra di sentire il canto degli uccellini, ma so che dormono, come dorme tutta la terra, in attesa che qualcosa accada, che i vaccini funzionino, che le persone non si ammalino gravemente. Con l’attuale velocità di vaccinazione ci vorranno due anni per vaccinare il 75% degli italiani di età superiore ai 15 anni. Forse devo continuare a sperare con tutta l’energia che ho, che il virus sparisca, come fece la Spagnola 102 anni fa. Non è impossibile, è improbabile, non impossibile. Per questo bisogna fare e pensare con la stessa lucidità di Etty Hillesum. Vivere ogni singolo istante del presente e pensare a come potrebbe essere il futuro.

Nonostante abbia con me il quaderno delle poesie, questa sera preferisco chiudere questa Cronaca 303 con una poesia che amo molto e che sembra scritta proprio oggi, martedì 5 gennaio del secondo anno senza Carnevale.

 

Giornata d’inverno

Cosa vuole questa luce strana?
Il giorno è sotto stelle bianche.
E i sogni germogliano sotto la luna.

La montagna ha parole racchiuse dentro di sé
ma il petto è rigido e la barba gelata.
Il fiume risponde con brevi riflessi, si apre per un attimo breve,
e i pini offrono un po’ di resina.
Il regalo scuote la neve
e il cavallo freme con il muso coperto di brina.
La legna spreme fuori una crosta di grasso gelato,
e il ghiaccio divora il taglio della scure.

Ma ora la vetta manda in mille pezzi il disco del sole, torce
il suo sguardo furtivo verso un mondo lontano.
Gli alti abeti candele sulle creste dei monti si spengono,
e gli alberi si acquietano nel bosco per la notte.
Il fiume sospira nella gola, condensa in ghiaccio la nostalgia di mare,
e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore.

 

 

 

La poesia è di Olav H. Hauge, La terra azzurra, traduzione di Fulvio Ferrari, Crocetti editore 2008, e dà anche il titolo alla Cronaca.

giovedì 10 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/186: ...un sasso, una foglia, una porta nascosta

 

Prima della creazione venne il sogno, fu un sogno di immagini vorticose, di colori incandescenti, di parole in lingue non ancora nate.

Poi la mano si aprì e si tese, caddero i semi di melograno, le foglie dell’oleandro si aprirono alla prima stagione e questo gesto creò la prima memoria e il primo oblio.

L’oblio non esiste senza memoria, la segue passo passo perché ne è l’ombra, a volte leggera, a volte così difficile da portare.

Se teniamo la memoria nel cuore dove starà l’oblio? In una tasca di oscurità? O sarà luce accecante che rende comunque impossibile la visione?

 

Lo sguardo si apre sul vasto mondo, a che età avremo accumulato abbastanza ricordi per iniziare a ricordare anziché a vedere?

Perché immagini che non sapevamo più di avere visto tornano nei nostri occhi pur se con quella patina opaca che denuncia il passare del tempo?

L’unico luogo dove lo sguardo non troverà mai una replica di ciò che già conosce è un cielo nuvoloso. Non grazie al cielo ma grazie alla mutevolezza stessa delle nuvole.

Mai, mai potremo guardare due volte la stessa nuvola, mai potremo richiamarla intatta nella nostra memoria.

Nel teatro interiore lo spazio è ancora più ridotto, così ci accontentiamo di approssimazioni e sovrapposizioni, sino a quando le forme non saranno compiute e basteranno a se stesse.

La forma delle nuvole è l’unico segno che il tempo riconosce e di cui si fida. Se una nuvola è cambiata, il tempo saprà di essere passato su questa terra e in questo cielo.

La luce accompagna le metamorfosi nuvolesche, tinge la superficie e guida il carro d’oro del tramonto verso l’altro emisfero.

La diffusione dei colori è una conseguenza dell’amore sfrenato tra il tempo e la luce, l’arcobaleno e i pittori rapiscono i figli celesti di questo amore e ci trasmettono i colori e le forme. Che non è detto che siano o siano state reali.

I dipinti sono i figli terrestri della luce, lo sguardo dei pittori è la levatrice di paesaggi con figure assenti, di nature morte, di volti che mai si sono riflessi nell’occhio di un passante.

Davanti a noi le immagini si moltiplicano, come i dipinti, le poesie, i romanzi e noi viviamo in mondi che non sono il nostro e in quel mondo che ci colpisce lasciamo che i nostri occhi seminino e disperdano le visioni che già hanno accumulato.

Di certo non arriveremo mai con il nostro sguardo sino alla fine del tempo, con il nostro sguardo possiamo creare pietre miliari e lasciarle a chi ci seguirà.

“...un sasso, una foglia, una porta nascosta; di un sasso, una foglia, una porta. E di tutti i volti dimenticati.

Nudi e soli siamo venuti in esilio. Nel suo oscuro grembo non conoscemmo il volto di nostra madre, dalla prigione della sua carne siamo giunti all'indescrivibile, indicibile prigione di questa terra.

Chi di noi ha conosciuto il fratello? Chi ha guardato nel cuore del padre? Chi non è rimasto per sempre prigioniero? Chi non è per sempre solo e straniero?

O immane desolazione, persi nei torridi labirinti, tra le stelle lucenti su questo tizzone esausto e spento, persi! Muti cerchiamo la grande lingua dimenticata, la strada perduta per il cielo, un sasso, una foglia, una porta nascosta. Dove? Quando?

Perduto spirito, pianto dal vento, torna ancora”.

Muti cerchiamo la grande lingua dimenticata, scrutiamo il cielo in cerca delle nuvole che conosciamo anche se, già sappiamo, che anche il nostro sguardo dovrà dimenticarle.


Questa Cronaca 186 è nata il decimo giorno di settembre dell’anno senza Carnevale. Parlo e riparlo con tutti gli abitanti della Casa delle Parole perché sto scrivendo un altro testo e parlare serve a sciogliere i nodi.

 

La citazione è tratta dal romanzo di Thomas Wolfe O Lost, meglio conosciuto come Angelo, guarda il passato.


venerdì 28 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/173: tutto scriveva nella casa quando scrivevo, la scrittura era ovunque

 


- Perché ti fermi a raccogliere pietre? David me lo chiedo e io mi blocco, colpevole e rea confessa.

- Perché mi piace la loro solidità, forse anche l’immutabilità. Mi piace pensare che nelle pietre resti traccia del tempo che è stato.

- Ma se tu le porti a casa non resterà altra traccia che la tua…

Mentre parliamo rimetto il sasso al suo posto e riprendiamo la discesa. Abbiamo trascorso la notte nello stesso rifugio della salita e la mattina presto qui è tutto avvolto nella bruma e pare di camminare in un sogno.

Ho delle piccole collezioni di sassi che avevo fatto per i miei nipotini: la famiglia dei sassi con l’occhio, la famiglia dei sassi castagna, la famiglia dei sassi con la striscia. Ho inventato storie, lucidato i sassi, conservato il piacere della ricerca in spiaggia, arrivano tutti dallo stesso luogo, insieme sono belli, mi piace guardarli, quando sarò molto vecchia li porterò alla spiaggia dove li ho raccolti e così qualcun altro potrà farne collezione. Ho anche altri sassi belli, dai colori e dalle forme particolari ma non ne scriverò qui, adesso.

Un sasso è parte di qualcosa che c’era e non è più, un frammento, un’immagine, un ricordo che non svanisce.

Mi piacciono i frammenti, le collezioni incomplete, le cose incompiute, le cose rovinate, la patina del tempo che dona alle cose quella dolcezza che l’essere nuovi non conosce.

Mentre cerco di argomentare le mie motivazioni poetiche e sentimentali che possano, almeno in parte, giustificare le mie collezioni che sono un’altra forma delle liste, siamo arrivati a valle e quando mi giro a guardare il nostro Monte Ventoso, mi stupisco di quanto la vetta sia lontana.

Il clima è cambiato anche quaggiù, il cielo è basso e grigio e folate decise di vento sono foriere di un temporale che si scatenerà prima di sera. Vado a passeggio sino al mare e passo a salutare le tre sorelle che sono in veranda a scrivere. Mi offrono un tè, mi raccontano delle loro ultime letture, in particolare dei racconti di Marguerite Duras a partire da L’uomo atlantico. Ho letto e riletto parecchi libri della Duras, ma non questi. Mi faccio prestare il libro e loro mi dicono che posso tenerlo, ne hanno altre due copie e, molto spesso, quando un libro interessa a tutte ne comprano tre per evitare di disputarselo e dopo averlo letto decidono se tenerle tutte e o se metterle nello scaffale dei libri belli da regalare. Mi dicono che questi Testi segreti tradotti dalla bravissima scrittrice Rosella Postorino, sono da tenere, quindi ne compreranno una copia nuova nei prossimi giorni.

Me ne torno verso casa soddisfatta del dono, della conversazione e della passeggiata. Visto il tempo, in giardino non c’è nessuno, così io pure mi rifugio nella mia stanza-studio e leggo la Duras, una scrittrice monumentale che amo moltissimo. Ma prima di iniziare queste storie che non conosco, vado a recuperare alcune sue citazioni.

 

“La solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora.

Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri. È una solitudine, la solitudine dell’autore, quella dello scritto. Tanto per cominciare, ti chiedi che cos’era quel silenzio intorno a te e praticamente a ogni passo che fai in una casa, a ogni ora del giorno, sotto tutte le luci, quella di fuori o quella delle lampade accese anche durante il giorno. La solitudine reale del corpo diventa quella, inviolabile, dello scritto.

Trovarsi in un buco, in fondo al buco, in una solitudine quasi totale e scoprire che soltanto la scrittura ci salverà. Essere senza alcun argomento di libro, senza alcuna idea di libro significa trovarsi, ritrovarsi, davanti a un libro. Un’immensità vuota, un libro eventuale. Davanti a niente. Davanti a una scrittura viva e spoglia, in un certo senso terribile, terribile da sormontare. Credo che la persona che scrive non abbia nessuna idea di libro, ha le mani vuote, la testa vuota e conosce dell’avventura del libro soltanto la scrittura asciutta e nuda, senza futuro, senza eco, remota, con le sue regole auree elementari: ortografia, senso.

Nella vita viene un momento, credo sia fatale, cui non si può sfuggire, in cui si mette tutto in dubbio: il matrimonio, gli amici, soprattutto gli amici della coppia. Non il figlio. Il figlio non è mai messo in dubbio. E il dubbio ci cresce intorno. Questo dubbio è solo, è il dubbio della solitudine, nato dalla solitudine. Si può già dire la parola. Credo che molti non potrebbero sopportare quello che dico, scapperebbero. Forse per questo ogni uomo non è uno scrittore. Ecco la differenza, ecco la verità, nient’altro. Il dubbio, è scrivere. Dunque è anche lo scrittore. E con lo scrittore tutti scrivono, lo si è sempre saputo.

Finché c’è il libro che esige di essere terminato, si scrive. Si è costretti a mettersi dalla sua parte. È impossibile buttare un libro per sempre prima che sia completamente scritto, vale a dire: solo e libero da te, che lo hai scritto. È intollerabile quanto un delitto. Non credo a quelli che dicono: “Ho strappato il manoscritto, l’ho gettato”. Non ci credo. O per gli altri non esisteva, ciò che era scritto, o non era un libro. Quando non è un libro, si sa, sempre. Quando non sarà mai un libro, no, non si sa. Mai.

Tutto scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque.

Scrivere comunque, nonostante la disperazione. No: con la disperazione. Quale disperazione, non so darle un nome. Scrivere senza imboccare subito la via che porta allo scritto è pur sempre lavorarlo. E tuttavia si deve accettare questo: lavorare lo “scarto” significa tornare indietro verso un altro libro, verso un altro possibile di quello stesso libro.

«Quando un libro è terminato, un libro che hai scritto, intendo, non puoi più dire, leggendolo, che è un libro che hai scritto, né quali cose vi siano state scritte, né con quale disperazione o quale felicità, quella di una trovata oppure di un fallimento di tutta te stessa. Perché, alla fine, nel libro non si può vedere niente di simile. La scrittura è in certo qual modo uniforme, placata. Non succede più niente in un libro terminato e distribuito. Esso raggiunge l’innocenza indecifrabile della sua venuta al mondo».

Esser soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta. Significa tentare di non morirne.

Non so che cos'è un libro. Nessuno lo sa, ma si sa quando ce n’è uno. E quando non c’è, si sa, come si sa che si è, non ancora morti”.

  

Sento le sue parole scorrermi lungo le vene, emergere sulla pelle delle braccia, raggiungere le mie mani e condurle verso la forma chiusa che occorre per scrivere.

Scendo a preparare un’altra tazza di tè, David è seduto accanto al camino che ha accesso, i lupi sonnecchiano, il vento fuori ulula ancora più forte, arrivano anche Alexandre e François, avvolti di salsedine e sabbia perché sono rimasti ore a camminare in riva al mare.

Ci salutiamo con calore, io torno nella mia stanza a scrivere. Domani arrivano Roxanne e Héloïse, avremo molto da raccontarci. Da qualche tempo non ho notizie del re e della regina e della poetessa. Ma David mi rassicura e mi dice che sono tutti affaccendati e che domani saranno a casa con noi.

Scrivere è vivere sempre nell’attesa di un sogno, di un ritorno o di una rivelazione. Apro il taccuino e scelgo le prime parole: “Perché ti fermi a raccogliere pietre?”.

 

Questa Cronaca 173 è stata scritta nel ventottesimo giorno dell’anno senza Carnevale. Al tavolo della mia immaginazione è arrivata anche Marguerite Duras, si fermerà qualche tempo e poi raggiungerà Borges e Yourcenar nella Biblioteca di Babele.

Il suo libro Scrivere, è stato tradotto da Leonella Prato Caruso, Feltrinelli 1994.

martedì 1 gennaio 2019

È inverno, anno nuovo. Nessuno ti conosce.

L'anno nuovo È inverno, anno nuovo. Nessuno ti conosce. Via dalle stelle, dalla pioggia della luce, giaci sotto il clima delle pietre. Non c’è alcun filo che ti riconduca qui. Gli amici s’assopiscono nel buio del piacere e non possono ricordare. Nessuno ti conosce. Sei il vicino del nulla. Non vedi la pioggia e l’uomo che s’allontana a piedi, il vento sudicio che soffia le proprie ceneri per la città. Non vedi il sole che trascina la luna come un’eco. Non vedi il cuore ferito andare in fiamme, i crani degli innocenti farsi fumo. Non vedi le cicatrici dell’abbondanza, gli occhi senza luce. È finita. È inverno, anno nuovo. I mansueti trascinano la propria pelle in paradiso. I disperati soffrono il freddo con quelli che non hanno nulla da nascondere. È finita e nessuno ti conosce. Luce di stella alla deriva su acqua nera. Vi sono le pietre nel mare che nessuno ha visto. C’è una riva e la gente aspetta. E niente ritorna. Perché è finita. Perché c’è silenzio invece di un nome. Perché è inverno, anno nuovo. Mark Strand L'inizio di una sedia a cura di Damiano Abeni Donzelli editore 1999 The New Year It is winter and the new year. Nobody knows you. Away from the stars, from the rain of light, you lie under the weather of stones. There is no thread to lead you back. Your friends doze in the dark of pleasure and cannot remember. Nobody knows you. You are the neighbor of nothing. You do not see the rain falling and the man walking away, the soiled wind blowing its ashes across the city. You do not see the sun dragging the moon like an echo. You do not see the bruised heart go up in flames, the skulls of the innocent turn into smoke. You do not see the scars of plenty, the eyes without light. It is over. It is winter and the new year. The meek are hauling their skins into heaven. The hopeless are suffereing the cold with those who have nothing to hide. It is over and nobody knows you. There is starlight drifting on the black water. There are stones in the sea no one has seen. There is a shore and people are waiting. And nothing comes back. Because it is over. Because there is silence instead of a name. Because it is winter and the new year.

sabato 13 gennaio 2018

Conterai le nuvole, le foglie rosse

Giornata

Una giornata persa in anticipo,
un tempo vuoto che hai davanti.
Ne conterai le sillabe
una per una, una per una,
corona di attimi sgranati
nel respiro.

Conterai le nuvole, le foglie
rosse, i sassolini del sentiero.
Ogni ciottolo, ogni nuvola, ogni foglia
sarà un istante cancellato.

Un’eco ti arriverà
ma così fragile, lontana…

Mondi nascono, si spengono.
Non torneranno più.
Una giornata persa in anticipo,
un buco nero.

Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

domenica 7 gennaio 2018

le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore

Giornata d’inverno

Cosa vuole questa luce strana?
Il giorno è sotto stelle bianche.
E i sogni germogliano sotto la luna.

La montagna ha parole racchiuse dentro di sé
ma il petto è rigido e la barba gelata.
Il fiume risponde con brevi riflessi, si apre per un attimo breve,
e i pini offrono un po’ di resina.
Il regalo scuote la neve
e il cavallo freme con il muso coperto di brina.
La legna spreme fuori una crosta di grasso gelato,
e il ghiaccio divora il taglio della scure.

Ma ora la vetta manda in mille pezzi il disco del sole, torce
il suo sguardo furtivo verso un mondo lontano.
Gli alti abeti candele sulle creste dei monti si spengono,
e gli alberi si acquietano nel bosco per la notte.
Il fiume sospira nella gola, condensa in ghiaccio la nostalgia di mare,
e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore.

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

lunedì 1 gennaio 2018

È inverno, anno nuovo. Nessuno ti conosce

L'anno nuovo

È inverno, anno nuovo.
Nessuno ti conosce.
Via dalle stelle, dalla pioggia della luce,
giaci sotto il clima delle pietre.
Non c’è alcun filo che ti riconduca qui.
Gli amici s’assopiscono nel buio
del piacere e non possono ricordare.
Nessuno ti conosce.
Sei il vicino del nulla.
Non vedi la pioggia e l’uomo che s’allontana a piedi,
il vento sudicio che soffia le proprie ceneri per la città.
Non vedi il sole che trascina la luna come un’eco.
Non vedi il cuore ferito andare in fiamme,
i crani degli innocenti farsi fumo.
Non vedi le cicatrici dell’abbondanza, gli occhi senza luce.
È finita. È inverno, anno nuovo.
I mansueti trascinano la propria pelle in paradiso.
I disperati soffrono il freddo con quelli che non hanno 
nulla da nascondere.
È finita e nessuno ti conosce.
Luce di stella alla deriva su acqua nera.
Vi sono le pietre nel mare che nessuno ha visto.
C’è una riva e la gente aspetta.
E niente ritorna.
Perché è finita.
Perché c’è silenzio invece di un nome.
Perché è inverno, anno nuovo.

Mark Strand
L'inizio di una sedia
a cura di Damiano Abeni
Donzelli editore 1999

The New Year 

It is winter and the new year. 
Nobody knows you. 
Away from the stars, from the rain of light, 
you lie under the weather of stones. 
There is no thread to lead you back. 
Your friends doze in the dark 
of pleasure and cannot remember. 
Nobody knows you. You are the neighbor of nothing. 
You do not see the rain falling and the man walking away, 
the soiled wind blowing its ashes across the city. 
You do not see the sun dragging the moon like an echo. 
You do not see the bruised heart go up in flames, 
the skulls of the innocent turn into smoke. 
You do not see the scars of plenty, the eyes without light. 
It is over. It is winter and the new year. 
The meek are hauling their skins into heaven. 
The hopeless are suffereing the cold with those who have nothing to hide. 
It is over and nobody knows you. 
There is starlight drifting on the black water. 
There are stones in the sea no one has seen. 
There is a shore and people are waiting. 
And nothing comes back. 
Because it is over. 
Because there is silence instead of a name. 
Because it is winter and the new year. 

martedì 14 marzo 2017

la mia mano che sorreggeva un tempo i tuoi occhi

6
Ora sto qui e mi guardo allo specchio.
Posso ringiovanire e invecchiare a piacimento.
Se voglio, posso assomigliare a un animale
o a una pianta, o persino
al progetto di una macchina volante.
Sopra le mie sembianze come lava
vulcanica colasti tu una volta, ma io no, io non divenni pietra,
la prova è quanto accade nello specchio,
le sue stagioni in connubio,
le mutazioni, e soprattutto la mia mano
che sorreggeva un tempo i tuoi occhi
perché non cadessero dalle orbite, come due gocce immense,
quella stessa mano scrive ora che,
ecco, non ti amo.


Nina Cassian
C'è modo e modo di sparire
Poesie 1945-2007

traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica
Adelphi 2013

venerdì 10 marzo 2017

E restiamo nell’ora e nel tempo, nel silenzio e nella luce, restiamo nelle sillabe

Preludio


Nessuno ascolta il tempo
né vola in orbita, cieco
leggendo sogni
nell’albero cavo del mentre

Nessuno gioca nel silenzio
in quest’ombra mattutina
muovendo la pedina
sulla pietra che spinge

Nessuno è più il tempo di sé
un ritaglio nello specchio
a evitare la menzogna,
carte che non riesci a confondere

Ti accorgi ora che noi siamo
la parola migliore,
non pane né assenzio, la passione
di chi è già in ginocchio.

Vorrei aspettarti se il terreno
non mi lasciasse ad ogni passo
e sparisse nel mio petto
ad ogni respiro

Padre, nel buio tu pensi
a quel germoglio ch’è già
vita e stelo
rifugio d’energia.

La strada che percorri
è sempre sdegno e rincorsa
perché non sono con te

La mia è un cuscino di legno
senz’odore né cesello,
strada che non conosco.

La tua strada attraverso
con piede d’incenso,
l’occhio bianco nel sole

E non vedo non colgo non sono
e pur sento che mi scopri,
levando la cenere
dal rimpianto

Brezza brillante
emersa dall’acqua della vita
scuote la fibra
dalle foglie

Abbiamo sofferto ma sappiamo
amare questo nostro vivere
oltre il dolore
occhi sbarrati
ai confini del verificato,
e l’anima più non scotta come
labbra convulse di neonato

E restiamo, nell’ora e nel tempo
nel silenzio e nella luce,
restiamo nelle sillabe
rapiti come stranieri.


Dario Arkel
Ritrovarsi a Esztergom
Atì editore 2015

giovedì 2 marzo 2017

Lo sguardo sul mare causa la contemplazione dell'infinito

Noia, malinconia, vibrazioni liriche

La noia è un blocco dell'atto, un vuoto tra due progetti, ma passa, perché lo spazio si riempie da solo. La coscienza umana non può restare vuota, si popola di versi di poeti, visi di donne, ricordi, e sensi di colpa. Si pensa sempre a qualcosa, e per me la malinconia prevale sulla noia, che diventa così una specie di rêverie mista a tristezza intorno alle cose che mi circondano. Da questo stato nasce la prosa dell'elegia, che è un modo di sfuggire al sadomasochismo dei rapporti umani troppo stretti.
La noia permette di contemplare quello che appare in lontananza, a metà strada tra il dolce e il funebre, e di sottrarsi in questo modo alla polemica e alla collera. Questa noia malinconica ci pone al di là dell'angoscia paralizzante, favorisce lo slancio dell'immaginazione e anche della lucidità, e dispensa dall'alzare il tono e lanciare delle grida: «Gettare il proprio cuore tra le cose e allontanarsene per meglio contemplarle e oggettivarle», diceva Camus.
La noia è più arida, la malinconia è più musicale, ha una vibrazione lirica. Sul mare l'aridità prevale. Per me, niente può essere concepito senza legame con il paesaggio, e quando le cose riappaiono sul mare, nel mezzo dei ricordi, hanno questo tono di spoliazione e di dolcezza, non tanto dal punto di vista della malinconia romantica quanto da quello dell'universalità. Lo sguardo sul mare causa la contemplazione dell'infinito. Le rocce mi riportano alle cose antiche. Il minerale è più vicino all'essenza, mentre il deserto è più superficiale. La letteratura della mia regione è fatta di questo linguaggio aspro, teso verso l'essenziale. Oggi vedo scrittori che si buttano con rabbia nel bel mezzo della mischia, della lotta, della carneficina, del saccheggio. Non amo questo tipo di letteratura, preferisco la contemplazione.

Une manière de contempler le lointain, in «Magazine Littéraire», n. 400, luglio-agosto 2001, p. 32. Il testo, con quelli di altri scrittori, fa parte di un dossier dal titolo Variations sur l'ennui; la testimonianza è stata raccolta da Valérie Marin Le Meslée. La traduzione è dei curatori

Francesco Biamonti
Scritti e parlati
a cura di Gian Luca Picconi e Federica Cappelletti
prefazione di Sergio Givone
Einaudi 2008

lunedì 27 febbraio 2017

tempo d’acqua che torna

Terre rosse

Il tuono spazia un rumore
di cavalli lanciati sui monti;
sui muri degli orti
tempo d’acqua che torna,
randagio.
Il sonno intorba i pagliai,
il silenzio cresce nel petto.

Dopo lo scroscio la terra è rossa,
nei dorsi di rupe
il sasso si stria.
E il fango è un tramonto

che tutto l’anno ci dura negli occhi.


Vittorio Sereni
Frontiera
Mondadori 1941

martedì 14 febbraio 2017

una nostalgia che sia come un luogo aperto

Mantenere il legame con i luoghi e le persone perdute per sempre, sperimentare una nostalgia che sia come “un luogo aperto”. Il piccolo ebreo Jakob resta per tutta la vita un sopravvissuto ma riesce, nello scambio lento e tenace tra la propria lingua e quella di Athos, nella messa in comune dei ricordi e dei luoghi amati, a concedersi una “seconda storia”: diventando poeta, lascia che la nostalgia sia una fonte creativa, non una prigione.
La nostalgia, che Anne Michaels chiama longing, è mancanza che si fa desiderio, tensione verso l’Altro, sia persona, animale, o pietra: il mondo è un sistema complesso di inter-relazioni, di correnti affettive, di materialità che tramite corrispondenze e attriti sono in continua metamorfosi. Metamorfosi del linguaggio e della materia, comprensione attraverso i corpi per la rigenerazione dei sentimenti.
Per questo, i suoi personaggi ‘capiscono’ con il corpo, e alcuni di loro sanno come restituire sensibilità ai corpi dolenti, come nutrirli di cibo, tatto, bellezza, di memorie perdute. Questi agenti di guarigione sono sia donne che uomini, e la capacità di nutrimento e accudimento, l’ancoraggio vitale a una funzione materna, appartengono ad Athos come a Lucjan, un artista polacco che in La cripta d’inverno riesce a curare la protagonista Jean dal dolore per la perdita di una figlia morta durante la gravidanza. Michaels definisce ‘tenerezza’ quella forma di amore che accoglie il dolore altrui dentro di sé ma poi riesce a separare l’uno dall'altro, il vivo dal morto, ciò che è perso da ciò che può crescere: è un percorso sensuale e spirituale, per rientrare in rapporto con il mondo attraverso gli affetti.


Roberta Mazzanti
I sommersi e i salvati di Anne Michaels
in
Terra e Parole.
Donne / Scrittura / Paesaggi
a cura di Roberta Falcone e Serena Guarracino
Società Italiane delle Letterate 2016