Il tempo non
è che un mare increspato di piccole onde, è l’eternità a essere oceano e porto
accogliente per tutti i naviganti.
Durante la
tempesta scrutiamo tra i marosi in cerca di segnali, ma possiamo solo aspettare
che la furia si plachi e se scorgiamo intorno a noi una quiete assoluta è solo perché
siamo al centro del ciclone.
Da qualche
giorno ho proprio questa impressione, di essere in mare aperto e nell’occhio di
un ciclone di cui non riesco a percepire le reali dimensioni, l’estensione, l’altezza
e la direzione.
Questa improbabile
quiete, così come accadde durante il primo lockdown, è governata dai numeri che
vengono snocciolati senza soluzione di continuità. I numeri della pandemia,
delle vittime, dei nuovi ammalati, dei guariti, dei confinati in casa. Questi numeri,
una prima rappresentazione del mondo, sono pesanti se letti nella loro nuda
verità, si diluiscono quando vengono riportati alle percentuali. Dietro ogni
numero ci sono una persona, una vita, una famiglia in preda al dolore e allo
sgomento.
Gli altri
numeri sono quelli dell’economia, delle aziende che chiudono, delle richieste
di sussidio, dei disoccupati, dei nuovi poveri. Anche questi numeri sono la
rappresentazione delle nostre povere vite in balia di un nemico minuscolo e
letale, invisibile e sconcertante.
Dietro ogni
numero sono celate narrazioni molto simili tra loro, ma ognuna uguale a se
stessa, la febbre, il respiro corto e la paura. Il dolore, lo spaesamento, la
speranza.
Non tutte le
storie hanno un lieto fine, mentre ci eravamo ormai abituati a scongiurare il
male rappresentandolo nei libri, al cinema, nei videogiochi, il male è arrivato
in silenzio e ci ha, letteralmente, mozzato il respiro.
Il respiro è
vita, calma, piacere, gioia involontaria dell’essere vivi. Respiriamo male
nella città silenziosa, respiriamo male da anni. Ma siamo in qualche modo
assuefatti all’aria pesante e riconosciamo la differenza solo dopo che da
questa città ci siamo allontanati.
Dove trovare
l’aria, dove ripristinare il respiro e la speranza in questo mese che è il
culmine dell’autunno?
Io cerco
nella poesia la mia aria spirituale e in lunghe camminate nel mio quartiere cerco
un respiro profondo a dispetto della qualità dell’aria.
Come tutti
aspetto la buona novella, il giorno in cui scopriremo che il numero dei nuovi
contagi è crollato, che le terapie intensive si sono svuotate e che il mondo
ridiventerà un luogo di nuovo aperto ed esplorabile.
Ora continuiamo
a vivere nel nostro guscio, nelle nostre stanze, aspettiamo, condividiamo il
tempo con chi amiamo, quando possiamo in presenza, se no in video e al
telefono.
È un mondo
ristretto quello in cui stiamo vivendo, dove siamo stati costretti a ripensare
il nostro stile di vita, le aspettative, i progetti. Non ho mai pensato che ne
saremmo usciti migliori, non lo credevo a marzo, non lo credo ora.
Ma credo che
la nostra umanità dolente avrà qualche strumento in più per essere più umana,
per riconoscere la fragilità e la vulnerabilità e avere cura gli uni degli
altri, soprattutto di chi è più fragile e vulnerabile.
Anche oggi,
lunedì 16 novembre dell’anno senza Carnevale, è un giorno interlocutorio e la
Cronaca 252 è altrettanto interlocutoria, tesse ragnatele e foglie secche,
soffia nel vento parole antiche. Così vi saluto con una poesia di Rilke
tradotta da un altro poeta, Lorenzo Gobbi:
Come il
custode ha la capanna
tra le vigne
e veglia,
sono
capanna, io, Signore, tra le tue mani;
e notte sono
io, Signore, della tua notte.
Vigna,
pascolo, antico frutteto,
campo, che
nessuna primavera mai ha tralasciato,
albero di fico
che anche in una terra
tutta pietre
porta molti frutti:
c’è un
profumo che si spande uscendo dalla tua
rotonda
chioma.
E tu non
chiedi, se io stia vegliando;
senza
spavento, dissolti nei sentori,
quiete a me
risalgono le tue profondità.
Wie der Wächter in den Weingeländen
seine Hütte hat und wacht,
bin ich Hütte, Herr, in deinen Händen
und bin Nacht, o Herr, von deiner Nacht.
Weinberg, Weide, alter Apfelgarten,
Acker, der kein Frühjahr überschlägt,
Feigenbaum, der auch im marmorharten
Grunde hundert Früchte trägt:
Duft geht aus aus deinen runden Zweigen.
Und du fragst nicht, ob ich wachsam sei;
furchtlos, aufgelöst in Säften, steigen
deine Tiefen still an mir vorbei.
– Rainer
Maria Rilke, um den 1.5.1905, Worpswede
Da Il libro d’ore, a cura di Lorenzo Gobbi,
Servitium 2008