venerdì 3 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/117: solo le cose mi insegnano ancora l’arte di stare, la quiete


Ritorno su temi che ho già sfiorato alcuni giorni fa perché continuo a cercare la verità della poesia in campi che non le appartengono se non in maniera tangenziale.

Forse, come dice il mio amico poeta Danilo Bramati, possiamo cercare la poesia nella nostra relazione con gli oggetti prima ancora che con le persone.

Il giorno avanza per apparizioni e sottrazioni, siamo dentro il mondo o il mondo è dentro di noi? Siamo fatti di queste apparizioni o delle sottrazioni?

Ogni apparizione porta con sé una sottrazione: appare la luce e il buio ci viene sottratto, il contrario accade quando scende la sera.

Il mondo, vasto palcoscenico dell’essere, ci appare ogni giorno nei suoi scarti minimali che rivelano lo scorrere del tempo.

Sui rami dell’albero bellissimo a febbraio, quando ho iniziato a stare a casa a causa della pandemia, c’erano solo brandelli di foglie della stagione passata.

Ho osservato i rami giorno dopo giorno, ho visto spuntare le gemme, le ho viste sbocciare e le piccole foglie mostrarsi alla luce.

Ora è un tripudio di foglie verdi e robuste che sono un inno all’estate e cantano con il vento, offrono riparo per i nidi, creano l’ombra che invita i passanti alla sosta.

Lo sguardo si posa in maniera irrelata là dove la luce ci attrae, la testa si gira e segue un rumore nuovo che non avevamo ancora sentito in quel contesto, guardiamo le nuvole e vediamo volti, leggiamo un libro e i libri che abbiamo letto in passato si accomodano intorno a noi come un coro e ci suggeriscono: lo so, non lo so. Questo l’ho già letto, dovrei rileggere quel libro di poesia. Non smettono mai di parlarci i libri, anche quando sono chiusi, lo sanno bene i bibliofili che posano le mani sulle copertine e sentono le storie passargli attraverso le dita.

Qui, ai piedi delle Montagne della Nebbia, tutti, ma proprio tutti, vivono con i libri sempre a portata di mano. Mi chiedo, ancora oggi, come possano vivere le persone che non leggono. Non è snobismo il mio, solo provo pena per coloro che non conoscono la gioia della lettura.
Il piacere che ci dona un libro è diverso a seconda del genere che stiamo leggendo.

La narrativa è un fiume che scorre, vasto, a volte impetuoso, a volte tranquillo. Ci sono numerose isole in questo fiume che hanno il nome dei nostri scrittori preferiti e dei personaggi che abbiamo amato. Il fiume arriva alla sua foce con il carico di pagine e storie. C’è un mare che aspetta in fondo, il mare dell’immaginazione, che insieme a tutti gli altri mari, da qualche parte, forma un oceano che bagna le rive della terra dove si erge la Biblioteca di Borges. Laggiù le onde si trasformano in pagine che si cercano e si assemblano e i libri sanno dove andare a sistemarsi. Ogni lettore può accedere a questa biblioteca, ogni lettore troverà una biblioteca diversa. Questo è il mistero della lettura, ciascuno di noi troverà nei libri quel che stava cercando e lo appaga, ma soprattutto ciò che non stava cercando.

Non solo il mondo visibile, tutto l’universo nel suo infinitamente grande e tutto l’invisibile e l’infinitamente piccolo, sono un libro che giorno dopo giorno impariamo a leggere.

Quando leggiamo testi scientifici a prevalere è la mente affamata di sapere che vuole conoscere, classificare, spiegare, dare un senso a quanto accade. Più invecchio, più scopro il piacere di leggere saggistica. Da giovane leggevo molta psicologia e sociologia, ora fisica quantistica e neuroscienze, biologia e linguistica, astronomia e matematica che tanto amavo quando ero una giovane studentessa. Non diventerò un’esperta di niente, ma quanto mi piace studiare!

Poi, c’è la passione più grande, quella che mi lascia senza fiato, che attraversa i libri e le epoche, che mi lascia stupefatta e mi fa rabbrividire: la poesia.

Quando la leggo il movimento delle parole è dallesterno verso l’interno, sono costretta a seguirle e a perdermi. La poesia è uno smarrimento guidato dalle sillabe e dal ritmo, leggiamo insieme questa poesia di Danilo:


  
Quel che sussurrano le mele

A volte basta una musica,
altre volte un fil di fumo.
Le parole zampettano nell’aria,
dicono un mondo ormai perduto
e così mi smarrisco,
vacillo, non trovo il filo,
solo le cose mi insegnano ancora
l’arte di stare, la quiete.

Siedo in cucina, guardo
il cesto colmo di mele,
sfere verdi come un prato
che se le mordi
hanno un sapore di presenza,
anime semplici
deposte lì, sul tavolo
come umili reliquie.
E in quel poco mi rivelo, gli occhi
vanno oltre il confine della buccia,
assaporano la polpa…

Mele verdi sul mio tavolo,
forme essenziali
per dipingere il mondo,
figure elementari
che sussurrano: sei qui.



Sì, sono qui, e assaporo quella mela, la mela della conoscenza, la mela del peccato originale che ha allontanato l’uomo da Dio e lo ha reso mortale.
La sete della conoscenza ci ha resi vulnerabili e permeabili al mondo, colmi di grazia e immortali nella nostra semplice mortalità.

Quando scrivo poesia il movimento è dall’interno verso l’esterno, un interno che non mi appartiene, che arriva da un altrove di cui sono cantore e testimone. La poesia è veramente tale per me, è veramente conclusa quando la rileggo ed è come se non l’avessi scritta io.

Ancora Danilo scrive:


L’albero di ieri

Quando si cambia dentro
cambia anche la poesia,
cambiano gli alberi, le nuvole,
le facce.
Cambia anche il quaderno:
pochi segni, poche tracce.
Quante parole non ho scritto, e quante,
quante parole non scriverò
smarrite in altri mondi,
irraggiungibili…
Alzo gli occhi al paesaggio.
Chi sei, platano avvolgente?
Ti conosco, sei l’albero di ieri.
Tu, albero di ieri, non tradirmi,
dammi foglie, sono nudo.
Dammi radici. Dammi tempo.


Dammi radici, dammi tempo, dammi senso.

Queste conversazioni fatte in spiaggia, qui, nella terra dell’immaginazione che sta ai piedi delle Montagne della Nebbia, sfidano l’ordine del tempo e delle cose.

Crollano imperi, crollano certezze, resta quell’unico brivido dell’essere che estingue per un istante il nostro bisogno di cose vere. Perché delle mele basta il ricordo di averle viste o di averle solo immaginate.


Un cielo immaginato

Rileggo, a volte, una mia poesia
e mi ricordo,
ricordo un cielo immaginato.
Non esisteva cielo né albero,
stavano solo nei miei occhi.
Così procede questa vita,
in questo falso ricordare
cose nate dal niente.



Le conversazioni, i sogni, il rumore delle onde accompagnano questa strana estate del primo anno senza Carnevale, un anno fatto di sottrazioni e attese.


Le poesie e il titolo di questa Cronaca 117 sono di Danilo Bramati. La prima poesia è inedita, le poesie L’albero di ieri e Un cielo immaginato, sono tratte dalla raccolta Il mondo che aspettavi, Atì editore 2019.

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