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domenica 1 maggio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/784. Rosso come il primo giorno di maggio

 



Il primo giorno di maggio l’ho sempre salutato con allegria, per ragioni personali, perché è il giorno dell’anniversario di matrimonio dei miei genitori e di mio fratello e mia cognata; perché era il mese che annunciava l’avvicinarsi della fine della scuola e il mese della fioritura piena delle rose. Ma anche il giorno che festeggia i lavoratori, il giorno delle bandiere rosse, delle manifestazioni di piazza, dei canti collettivi. Per essere una Repubblica fondata sul lavoro, quella italiana non ne ha avuta e non ne molta di cura per il lavoro e per i lavoratori. La strage dei caduti è infinita e pressoché quotidiana, la destrutturazione dei contratti collettivi, le retribuzioni scandalosamente basse, ormai non solo ai giovani, il senso stesso del lavorare sono messi in continua discussione dalla nostra società. Le influencer sui social, sono soprattutto ragazze, trascorrono la loro vita a vestirsi, truccarsi e mettersi in mostra, manichini viventi, invidiate e odiate dalle persone comuni. Le grandi marche hanno ormai da anni etichettato il mondo e ci costringono a pensarci all’interno del recinto, non solo immaginario, costruiti da loghi e slogan. I rider, non tutelati nel loro affannoso lavoro di consegnare cibo a casa a chi non vuole o non ha tempo di cucinare, i giovani che rifiutano le paghe da fame proposte anche da chef e ristoranti famosi, le decine di migliaia di persone che hanno lasciato i vecchi lavori per cambiare vita, perché la pandemia ci ha mostrato quanto la nostra vita possa essere fragile, vulnerabile e breve. Le piattaforme di streaming lamentano una caduta degli abbonati, per forza mi viene da dire, adesso che si può ricominciare a uscire con più agio, che senso ha restare chiusi ancora in casa, cosa che abbiamo fatto per la maggior parte del tempo da ormai ventisei mesi, noi benestanti occidentali che abbiamo potuto lavorare a casa? Il senso del lavoro e del lavorare vanno pensati e ripensati generazione dopo generazione. Il lavoro non può essere solo l’affannosa ricerca dei soldi che ci permettono di sfamarci, vestirci e avere un tetto sopra la testa. La colpa più grande della mia generazione e di quelle che l’hanno immediatamente preceduta e seguita, è avere tolto valore al lavoro con i contratti precari, le retribuzioni ridicole, le prospettive avvilenti. Ma vedo e sento che i giovani hanno modalità diverse di approcciarsi al lavoro, io riesco ancora a sconvolgermi quando sento che qualcuno si licenzia per fare un periodo sabbatico, per cambiare completamente vita, per fare qualcosa di più interessante. Ma io sono un dinosauro novecentesco e, forse, dovrò aggiornare le mie informazioni e imparare a leggere con un altro sguardo quel che accade nel mondo del lavoro.

Comunque sia ecco che questo giorno ancora lo festeggiamo, e allora viva il lavoro e viva i lavoratori!

Oggi è domenica Primo maggio del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra, questa Cronaca 784 un po’ si pavoneggia con la sua giacchetta sociologica.

giovedì 12 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/249: le porte non si aprono più e neanche si chiudono, così la soglia non respira e non crea nuova poesia

 


Le porte aprono e chiudono, ci consentono l’ingresso nei luoghi chiusi, ci proteggono dagli estranei. Apriamo le porte per entrare nel vasto mondo e affrontare ogni nuova giornata.

Apriamo e chiudiamo la porta della nostra casa e della nostra stanza, scegliamo lo spazio ristretto, per lasciarci andare a quella intimità con noi stessi che solo le mura intorno e il tetto sopra e un pavimento sotto, ci consentono.

Quando usciamo, la porta alle nostre spalle verrà dimenticata sino al ritorno. Le porte negli uffici di rado hanno resistito alla mania degli open space. Niente porte da aprire e chiudere se non un’unica porta di accesso ai saloni. Intorno il brusio del lavoro dei colleghi, nessuna intimità, controllo sociale attivato, fatica a concentrarsi.

In tanti anni di lavoro credo di avere provato tutte le combinazioni possibili di ufficio, perché gli open space sono stati una moda, lo sono ancora, resistono anche se meno disumanizzanti che negli anni Novanta e Duemila, adesso ci sono dei minimi separé che proteggono dallo sguardo, ma per i rumori non si può fare nulla, né si possono contrastare i malumori dei coinquilini, le loro sfuriate.

In questi mesi di confinamento ho molto apprezzato il silenzio e la solitudine, benché io passi diverse ore al giorno appesa al mio riquadro in una delle tante piattaforme disponibili.

Un giorno qualcuno scriverà della sparizione degli uffici e della retorica spaziale connessa.

In un luogo dove ho lavorato per tantissimi anni, agli impiegati venivano date sedie senza braccioli, quelle con i braccioli erano riservate solo ai funzionari. Non era il ruolo, ma il grado a sancire un diritto. I funzionari avevano sottomano, portapenne e portacarta di vera pelle e un set di penne da firma come se ne vedono ormai solo nei film degli anni Cinquanta e Sessanta.

Un giorno mi si ruppe lo schienale della mia sedia e chiesi al segretario capo di averne una nuova. Nel magazzino ce ne erano di due diversi colori, rosso arancio per gli informatici e verdi per gli analisti di procedure. Ma non c’erano sedie rosse senza braccioli, c’erano solo sedie verdi senza braccioli. Ma non la ottenni perché io ero un tecnico informatico, non un’analista.

Così andai a protestare dal vice capo della struttura che chiamavamo benevolmente “il vescovo” perché si aggirava per i corridoi con aria pensosa, il busto chino in avanti e, spesso, le mani dietro la schiena. Non era difficile immaginarselo come un porporato che stesse andando a visitare il suo gregge.

Tornai dal segretario capo, che si arrabbiò moltissimo, insieme al vescovo e tutti e tre tornammo in magazzino. Infervorato l’uomo spiegò perché non potesse darmi una delle sedie verdi senza braccioli, riservate agli analisti, né una sedia rossa con i braccioli, riservata sì ai tecnici informatici, ma solo se funzionari.

Il vescovo ben conosceva le mie veementi reazioni e così ordinò al segretario capo di darmi una sedia rossa con i braccioli perché, e qui si mise a ridere da solo, di certo non avrei preteso di diventare funzionario grazie alla sedia. Fu l’unica battuta che gli sentii pronunciare in tanti anni trascorsi sullo stesso piano, ma non l’unica occasione che la vita ci propose di vivere insieme esilaranti situazioni da ufficio che vi racconterò nel corso del tempo.

Il segretario capo, mi intimò di non dire a nessuno che avevo avuto in dotazione la sedia con i braccioli. Protestai che se ne sarebbero comunque accorti tutti, ma lui fu implacabile. Nessuno doveva saperlo, punto e basta. Peccato che tra il magazzino e il mio ufficio ci fosse tutto il quarto piano da percorrere. Voi non avete idea di quanto fossero lunghi quei corridoi! E siccome gli informatici tenevano volentieri aperte le porte di quei magnifici uffici con due grandi finestre, quattro scrivanie, quattro armadi e quattro sedie a bracciolo variabile, ne approfittai per salutare tutti i colleghi. In questo caso il maschile plurale non è un maschile plurale diventato universale, ma lo specchio fedele della realtà, perché i tecnici informatici erano tutti maschi e all’epoca, su circa centocinquanta baldi programmatori, analisti tecnici, sistemisti, operatori e proceduristi, donne eravamo solo in sette. Tra gli analisti di procedure la presenza femminile era un po’ più alta, ma solo perché tante ragazza che facevano le “perforatrici” avevano cambiato ruolo. In ogni ufficio trascinai la mia nuova dotazione potei riposarmi sulla mia sedia rossa nuova fiammante e con i braccioli.

Mi sono resa conto, ripensando a tutti gli anni trascorsi a una scrivania, che i capi più pericolosi sono stati quelli della retorica della porta aperta. Quelli che ti dicevano, bonari e sorridenti, che per qualunque problema la loro porta sarebbe stata sempre aperta.

Come faranno ora che le porte degli uffici sono sempre meno aperte e chiuse? Facezie a parte, la sociologia, l’antropologia e la poetica degli uffici meriterebbero indagini approfondite. Magari ricorderò in una Cronaca futura qualche altro aneddoto degno di nota, almeno per me.

La retorica delle porte è affascinante, ma trovo ancora più interessante la dimensione spaziale della soglia, quel luogo che è dentro e fuori allo stesso tempo.

Vermeer è stato il pittore della soglia, ho dedicato a questo tema un lungo intervento tenuto una quindicina di anni fa alla Taverna San Tomaso, nel ciclo “Sentimento dello spazio” organizzato dal poeta Danilo Bramati che già conoscete perché ho incluso molte sue poesie nelle Cronache.

Lo sguardo di Vermeer si ferma sempre abbastanza lontano dal soggetto ritratto, che non sembra quasi mai accorgersi dello sguardo del pittore.

Anche in poesia il tema della soglia e dello sguardo è ricorrente, ma non andrò oltre, perché volevo scrivere solo delle porte di casa che si aprono sempre meno spesso, delle soglie dove non possiamo fermarci, degli uffici che sono retaggi del passato.

O forse, come ha dichiarato Umberto Galimberti, ma non so più dove, “Cosa ci ha insegnato la pandemia? Niente. Torneremo al precedente stile di vita con la foga di chi ha vissuto un periodo di astinenza”.

Non sono certa che abbia ragione, non credo che abbia ragione, spero che non abbia ragione; però è vero che siamo una società in crisi di astinenza.

A volte ci vogliono interruzioni brusche per imparare la differenza tra le cose buone e le cose cattive. Qui mi fermo e vado a fare una chiacchierata con la mia porta di casa che vedo ormai di rado. Dovrò inventarmi qualcosa per vivificare la nostra relazione.

Oggi è un giovedì dodici del mese di novembre dell’anno senza Carnevale. È notte, le porte sono tutte chiuse, le strade silenziose. Dormono gli alberi e i bambini, chi proteggerà i loro sogni se gli adulti e il vento sono così incerti e preda di sgomento?


P. S. qualche tempo dopo la mia pretesa della sedia con i braccioli, il vescovo considerò che anche gli impiegati dovevano beneficiare della maggiore comodità delle sedie dei funzionari. Così tutti avemmo, ufficialmente, la nostra sedia rossa con i braccioli a prescindere dall’inquadramento.

 

venerdì 6 settembre 2019

L'ora più allegra

Passavo per via Margutta, un mattino di primavera, l’anno scorso. Andavo a un piccolo stabilimento di doppiaggio, che ha la sua sede in uno di quegli antichi cortili tra le pendici del Pincio e la via Margutta: improvvisi spazi tranquilli dentro l’agitata complicazione di muri scale ringhiere case e casette. Mezza sole e mezza ombra, via Margutta era nell'ora più allegra della giornata, le undici. Varcato il mezzodì, già la ruota gira. È vero che, quasi per fermarla, i romani ritardano il pasto e prolungano il mezzodì fino alle due e più in là. Ma l’ora più allegra resta sempre le undici. Passavo tra le botteghe degli artigiani, fabbricanti di cornici, falegnami, una piccola officina di riparazioni meccaniche che probabilmente era succeduta a un antico fabbro, una mescita di vino, una stireria. Gli operai lavoravano anche sulla strada, tutta ingombra dei loro attrezzi e di automobili e motociclette al posteggio. E lavoravano, pareva, lietamente, picchiavano con esagerato fracasso su legni e lamiere; si chiamavano l’un l’altro, qualcuno cantava. Camminando, rallentavo come per raccogliere un po’ di più di quella gioia, prima di arrivare allo stabilimento. Là mi attendeva il mio lavoro.

Mario Soldati
Le lettere da Capri
Garzanti 1954