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sabato 13 novembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/615. Una Lettera mi è sempre parsa come l'immortalità, perché è la mente da sola, senza compagno corporeo


Passiamo molte ore al giorno a leggere e scrivere mail, sms e whatsapp – che hanno un destinatario noto – e poi a pubblicare foto, post su FB, commenti dove capita, twittare e ritwittare – messaggi rivolti a destinatari perlopiù sconosciuti. Perché noi umani abbiamo questo bisogno smodato di comunicare? Di metterci in mostra? Di condividere? Non credo ci sia una sola risposta, i motivi sono molteplici, certo c’è una dimensione ludica, una intellettuale, di sicuro anche una sentimentale. In quanto animali sociali vogliamo far parte di un gruppo, essere riconosciuti, apprezzati e anche amati. Mentre riflettevo oziosamente su questi temi e stavo cercando ispirazione per la Cronaca odierna, ho sfogliato un volume con una selezione delle lettere di Emily Dickinson e la lettera 330 del giugno 1869 inizia con la frase che ho scelto come titolo. Mi fa impazzire la visione dickinsoniana di considerare il corpo come un compagno e la mente da sola essere l’immortalità. Non so come accada, ma accade, che la poesia ci offra risposte a domande che ancora non abbiamo formulato. La scrittura di una lettera, quando ancora le si scriveva, era un esercizio di concentrazione ed eleganza, almeno per gli scrittori, che aveva l’intenzione di lanciare nell’eternità parole e pensieri. Lanciarsi oltre la soglia del tempo, oltre la nostra finitezza corporea, la nostra umana mortalità. Scrivere, in generale, risponde proprio a questo desiderio di vincere i confini della nostra mente, del tempo lineare – l’unico di cui facciamo esperienza – di superare anche la soglia che coincide con la resistenza del nostro compagno corporeo, così come lo chiama la Dickinson. I libri, ogni libro, sono in qualche modo anche lettere e messaggi che consegniamo al mare del tempo, sempre sperando che qualcuno raccolga il nostro messaggio. Ma ci pensate a quanto sia straordinario che la nostra mente possa entrare in contatto con pensieri e parole pensati secoli, se non millenni, prima della nostra venuta al mondo? La scrittura ci permette di viaggiare non solo nello spazio, ma anche nel tempo, di trascendere la nostra finitezza.

 

 

Le parole che danzano nel fuoco

 

Scrivo, non so quando mi

leggerai, non so cosa starai

pensando, scrivo e mi riempie

di gioia il farlo. La gioia e la

scrittura abitano negli stessi

territori della mia anima e

vorrei che tu sentissi questa

gioia, che tu vedessi le scintille

dell’anima che si espande e

cerca nello spazio intorno.

Scrivo e lancio nel vuoto queste

mie parole, cadranno a terra

con le foglie dell’autunno, con

la pioggia scivoleranno sui

vetri, con le nuvole partiranno

verso altre terre, altri sguardi.

Solo chi ha conosciuto l’ascesa

vertiginosa del pensiero, potrà

provare la vertigine della caduta,

sentire i piedi sulla terra, nella

terra le radici e amare anche

i giorni brevi che il tempo ha

strappato dalle sue dense trame

per farcene dono. Le parole

danzano nel fuoco, ma tornano

sempre nelle nostre mani, si

incarnano e diventano leggere,

semi nel vento, sogni non

ancora sognati, un battito d’ali

e poi, il silenzio.

 

 

Sotto una pioggia scrosciante finisco di scrivere questa Cronaca 615 di sabato 13 novembre del secondo anno senza Carnevale. Le lettere della Dickinson mi aspettano insieme a tutti i silenzi cui la sua poesia dà forma e respiro. 

giovedì 19 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/256: le regole del tempo e la lettera delle nostre vite

 


Devo scrivere una lettera lunga perché non ho tempo di scriverla breve, devo scriverla per te che sei lontano e non conosci l’ombra della sera in queste strade.

Non ci sono quasi più foglie sugli alberi e i passanti non sono bravi a scansarle perché sono silenziose e la loro caduta è l’epilogo dell’autunno e l’incipit dell’inverno che viene.

Non conosci queste stagioni fredde che bevono la luce alla fontana del tempo e non sempre ci consentono di raggiungere le nostre case prima del tramonto.

Sono vaste e dense le notti d’autunno e una coperta di oscurità ha avvolto le case e i sogni, le nostre parole e la dolcezza delle immagini che ci circondano.

Se chiudo gli occhi ecco che sono con te su una barca, l’acqua intorno è fresca e verde e quando immergo la mano destra, la mano della scrittura, non sono solo pesci e alghe a sfiorarmi le mani.

Perché vedi, nel fiume del tempo sono le immagini di ogni istante che abbiamo vissuto a nuotare sotto la superficie increspata di bolle.

Posso scegliere immagini di tempi che non ho vissuto però, benedire l’acero che rosso domina la svolta della strada, posso respirare quel sentore di aria fredda e nebbia che domina la città.

Ma ancora non basta perché poi mi fermo sulle immagini di un uomo sapiente fermo sotto un cielo stellato poco prima dell’alba, l’aria intorno si condensa e lui scrive una poesia con dita veloci dove la brina è una lavagna trasparente e le parole sono per la donna che ama e che le vedrà in sogno.

In un altro spezzone di tempo c’è un uomo gentile che guarda la brace della sigaretta illuminare uno scorcio del giardino e gli occhi vivaci della gatta che è scesa a fare un giretto notturno, distratta e concentrata come solo i gatti sanno andare.

Alla luce artificiale di una piccola cucina c’è una donna ancora piegata su una stoffa che resiste alle sue dita, è molto tardi la notte o molto presto la mattina? Lei non lo sa più e continua a lavorare.

In un altro frammento del giorno la brava scolara incolla le foglie secche sul quaderno e compone un pensierino, come se il suo essere una creatura ancora giovane rendesse limitato quell’aspro sentire il mondo che non la lascerà mai, mai più.

Un bambino è chiuso nella sua stanza che non è veramente sua, perché ci sono la televisione, il divano e il tavolo da pranzo. Ma dopo che tutti sono andati a dormire ecco che il regno è solo suo e i sogni si staccano dal soffitto e lo raggiungono per giocare con l’orso di peluche e le macchinine.

Un uomo legge alla luce di una lampada sul comodino, legge e sottolinea le regole precise e indelebili che governano il mondo della sua passione. Prima di dormire firmerà il frontespizio di quel codice e sua figlia lo aprirà di tanto in tanto solo per vedere quelle lettere tracciate da quella mente e da quelle mani così amate.

Questa è la vita che è stata, te lo scrivo perché tu mi porga le tue immagini e io ne faccia parole, in silenzio, usando trucchi e stratagemmi come questa lettera che spedirò nel tempo e che ti leggerà e tornerà da me a dire, com'era questa serata silenziosa mentre tutti cercavamo di tirare quel filo rosso nella tessitura, quello che rende unico ogni giorno vissuto e che vivremo.

Oggi è giovedì 19 novembre dell’anno senza Carnevale e ho aggiunto il mio voto di parole all’altare dell’eternità. Ora aspetto le vostre lettere.


martedì 8 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/184: la volta in cui sono diventata vento e poi nuvola, stella e cielo

 

Si incendia l’aria all’alba ed è un fuoco che segue quello di ieri sera al tramonto. Come può essere così bello e indifferente il cielo che ammicca al nostro povero e sofferente mondo?

Posso stare qui, in spiaggia a guardare albe e tramonti, e sospirare al ritmo delle onde. Devo abituarmi alla vita quotidiana, alle ore di lavoro, ai timori legati alla ripresa della scuola, alla vita in mascherina cui è buona cosa abituarsi per contribuire a tenere sotto controllo la diffusione del virus.

Una cerva sbuca dal sentiero, è strano vederla qui in spiaggia. La riconosco, l’ho già vista altre volte in giardino, la stella sulla fronte la rende inconfondibile. Si avvicina, strofina il muso sulla mia mano e poi fugge via.

È anche per questi incontri imprevisti che mi piace vivere in questa terra bizzarra che assomiglia al mondo della città silenziosa ma non coincide proprio con quel che sappiamo della realtà.

Sorella cerva che corri, fratello sonno che mi assedi, come posso rispondere alla chiamata del tempo?

Mi risponde un angelo, sottile e verde come le foglie tra cui si nasconde, “Accetta il vento – mi dice – accettalo sino a diventare vento tu stessa. Abbandonati a questa trasformazione, sperimenta e poi torna nella tua forma usuale più forte e più ricca”.

Torno nella città silenziosa e imbocco una via a caso, la percorro soffiando e scompigliando le adolescenze già folli che bivaccano sui marciapiedi. Mi fermo su un viso, poi su un altro ma sempre per poco tempo e poi ritorno fino alla mia strada e senza neanche averlo pensato, ho forma di nuvola e ascendo nel cielo chiaro del primo mese d’autunno. Anche la melodia che sento è chiara e salva tutte le parole che arrivano dalla terra. Nient’altro che una memoria verbale, come se le parole da sole bastassero a dire la vita.

Una forza ancora più intensa mi risucchia più in alto e sono la quarta stella della cintura di Orione, risplendo per millenni e poi vado più oltre ancora e divento un cielo immenso.

Il cielo che guarda il poeta girare intorno alla torre e le aquile lanciarsi sulla stessa preda.

Solo qualcosa in me ricorda che sono io, che sono dentro la stella e il cielo, il vento e la nuvola.

Io è la mia ancora nel mondo, Io che è un altro e scrive le poesie al posto mio mi riporta al mio tavolo, ai libri aperti che attendono di essere finiti.

Il tempo compirà il suo giro, le ferite antiche saranno rimarginate, l’osso si sarà saldato dopo la caduta e le cicatrici diranno che qualcosa è accaduto, che qualcuno ha avuto cura del suo simile, così abbiamo imparato la pietà e la compassione, così ci siamo staccati dalla pietra e dalla caverna, e siamo diventati coloro che raccontano. A noi il compito di dare voce al mondo e a tutte le creature animate e inanimate.

Così scrivo quello che scrivo e brucio nell’incendio del giorno nuovo. Bevo l’aria e trasformo le foglie in lettere che ti scriverò.

Un istante ancora, un sogno che si disperde nel risveglio, un profumo che mi ricorda la tua pelle. Sei ancora tu o sei un altro cielo, un’altra stella, un’altra nuvola? Non rispondi e mi mostri la tua valigia. Sei tornato carico di storie e sillabe che presto mi racconterai.

Nelle foglie-lettere le parole si moltiplicano, le scriverò anche se ora siamo insieme, scriverò quelle parole essenziali che fanno di noi un verbo coniugato nel tempo futuro.

 

Questa Cronaca 184 è stata scritta l’ottavo giorno del nono mese dell’anno senza Carnevale. Il riferimento all’osso rotto si riferisce a un aneddoto che riguarda l’antropologa Margaret Mead che è di facile reperimento in Rete. Anche oggi le poesie si sono nascoste nella prosa, ma io le riconosco, sillaba dopo sillaba.

venerdì 7 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/152: ti scrivo una lettera lunga perché non ho il tempo di scriverla breve

 Il mare ha un dono impagabile che gli altri luoghi non possiedono: le giornate diventano un’unica giornata. Così abbiamo fatto colazione in veranda con tutta la nostra piccola comunità, giocato con i lupi, poi siamo tornati in spiaggia all’ombra dei grandi gazebo di tela chiara, abbiamo fatto il bagno, riso, scherzato, giocato a bocce e a carte. Il poeta cieco ha parlato poco e ascoltato molto, come fa sempre. Così, dopo l’ultimo bagno nel tardo pomeriggio, ci ha chiesto di riportarlo alla Casa delle Parole.

Il misterioso architetto e il sapiente guerriero avrebbero voluto che lui potesse vedere la Casa delle Stelle la cui decorazione è, ormai, quasi finita. Così, non potendo fare altro gliel'hanno descritta con dovizia di particolari e, dalle domande che poneva, sembrava che Luis davvero la stesse guardando. 

Poi lo hanno portato in cucina per continuare a chiacchierare mentre preparavano la cena e noi altri allestivamo il tavolo in giardino. Abbiamo acceso decine e decine di lampade di carta per aumentare il più possibile il chiarore, dato che il poeta cieco lo percepisce e sembra gradirlo.


Il mondo si cela tra ombra e oscurità


Un’ombra scontornata si

agita nel tempo, la colgo

e la riporto nel suo foglio:

inutile fuggire da questa

carta se il mondo intorno

è un teatro spento e chiuso

il palcoscenico dove ti

esibivi nell'aria, una mosca

più che un poeta e guardati

adesso, sei sempre tu,

purtroppo, e devi andare a

tentoni dove prima incedevi

come il re di quel paese senza

nome. 

Sì, sono sempre io, ma non

sono più triste di chi ero 

in innocenza e desiderio.

Il mondo si cela tra ombra

e oscurità, ho imparato ad

amare questa stagione e

che la poesia non ha bisogno

di uno sguardo nuovo ma

della memoria. Del resto, che

importa se io sono sempre io

e non un altro?



Come sempre, dopo che Luis, senza mai preannunciarlo prima, aveva recitato una delle sue poesie, mi sono avvicinata con il mio taccuino per chiedergli di dettarmela, ma lui stava già parlando fitto fitto con Roxanne.

- Non lasciare che la voce del mondo sovrasti la tua voce. Ascolta il mondo e le sue molteplici voci, ma poi prendile, una a una e tira i fili, inizia la tua tessitura. 

- Lo faccio già da tempo, un tempo che mi pare più lungo della vita che ho già vissuto, ma quel che scrivo non esce dai miei taccuini e dal mio computer se non per minuscoli frammenti che semino nelle conversazioni, per capire le reazioni di chi sta parlando con me.

- Allora è il momento che tu scelga una persona, e una soltanto, per farle leggere le tue storie.

- Vorrei poterle leggere a te, se vorrai mi fermerò al monastero di Colorno e leggerò per te la prima storia, una storia d’inverno e steppe, di madri e figlie che studiano materie scientifiche ma in cuore hanno la poesia come Cvetaeva e Achmatova.

- Certo che puoi restare con me al monastero per tutto il tempo che vorrai. Ti ascolterò con gioia perché ho sempre pensato che la Russia sia prima di tutto un luogo dell’anima. E da quando ho letto Cechov, betulle, samovar, disgeli fragorosi, piccole tazze di porcellana, la neve infinita intorno a me, ecco che quella terra è diventata una delle mie terre interiori. 



Imparare un nuovo alfabeto


Chiamo a raccolta tutte le Russie

con la mia voce spagnola e intero,

l’alfabeto ignoto mi risponde. Apro

la bocca per pronunciare le singole

lettere e poi le sillabe. Torno bambino

a compitare e seguire con un dito 

quella riga che ha bellezza ma non

senso, non ancora. Poi un giorno,

come se il mosaico avesse accettato

l’arbitrio degli spazi, il senso ha 

sposato la nuova architettura della

pagina e la mia voce infantile ha

cambiato tono. Questo accade quando

si impara una nuova lingua. E quando

un libro ci introduce all'opera e allo

spirito di un altro di quelle strane

creature che stanno sedute per ore

con fogli intonsi accanto alle mani,

ecco che lo spazio interiore si dilata,

l’amore si moltiplica e il respiro si

apre su quell'universo, su quel cielo

stellato che non avevo mai visto.

Sono lo zar di tutte le Russie che 

splendono nell'ombra.



- Ti chiedo però di fare una cosa, che credo ti porterà giovamento. Scrivi a Héloïse quando saremo a Colorno. Raccontale tutto quel che hai intorno e chiedile di fare lo stesso per te. Nessuno scrive più lettere e la mancanza di epistolari, ne sono certo, è già una grande perdita per le genti del futuro. In una lettera si metteva il meglio di sé e le parole venivano cesellate, ricordi cosa scrisse il filosofo Pascal? “Je n'ai fait celle-ci plus longue que parce que je n'ai pas eu le loisir de la faire plus courte”. Ti ho scritto una lettera lunga perché non ho avuto l’agio per scriverla più corta.


Roxanne ha chinato la testa e ha estratto un taccuino dalle tasche, io mi sono allontanata, più per curiosità che per discrezione. Scriverà a Héloïse? Scriverà a me, indiscreta e impicciona narratrice di queste Cronache? Forse, tra qualche giorno, lo scopriremo.



Questa Cronaca 152 vede la luce nel settimo giorno di agosto dell’anno senza Carnevale.

Le poesie sono sempre mie, benché qui vengano attribuite a Borges.

La citazione sulla lettera breve è di Pascal ed è tratta da Les Provinciales, lettre 16, benché in Rete la si trovi soprattutto attribuita a Voltaire, ma io controllo sempre le fonti e le cito, trovo che sia un’aberrazione del mondo virtuale trascrivere, copiare e incollare, citazioni senza avere la certezza di chi ha scritto e senza citare autore, libro, traduttore e editore.


sabato 25 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/139: all’ombra dell’ibisco rosso non dormono le fanciulle in fiore


Tre come le sorelle che vivono nella casa sulla spiaggia, tre come le lune che risplendono nel nostro cielo, tre come i delfini che saltano nel nostro mare, tre come i tentativi di aprire il mio cuore all’alba e al vento.

Inizia così un racconto che sto scrivendo, leggo questo incipit alla poetessa, alla regina e alla sacerdotessa. Non mi pare di averle molto colpite, Margot sbadiglia, le altre abbassano lo sguardo.

Chiedo loro perché siano così indifferenti e tiepide.

- Ma che dici! Mi riprende subito la poetessa, è che la storia la conosciamo molto bene anche noi.

- Di che storia state parlando? È una mia invenzione…

- La storia delle figlie del colonello non è una tua invenzione. È una storia che esiste nell’ampio arcipelago delle storie che sono già state scritte, prosegue la sacerdotessa.

Bisogna che io mi fermi un istante a pensare, qui siamo quattro donne e tutte e quattro scriviamo. Caterina la narratrice, che sono io, la regina Margot, la sacerdotessa Héloïse e Anna la poetessa, che interferisce di continuo con la mia scrittura e io con la sua tanto, che a volte, credo che siamo la stessa persona.


Qualche volta mi fermo sotto una parola
Precario riparo per la mia voce che trema
Che lotta contro la sabbia
Ma dove è la mia dimora.


Le figlie del colonnello erano tre, nate nel giro di tre anni e rimaste orfane alla nascita di Emilie. Colette e Simone pretendevano di avere un seppur vago ricordo della madre, mentre Emilie si consumava nel senso di colpa alimentato dai singhiozzi del padre che in lei rivedeva l’amatissima moglie Catherine. Dato che il colonnello Chabon era spesso via per le esercitazioni, le bambine crescevano nella casa di campagna in compagnia di un’istitutrice ciascuna e delle visite del parroco e di sua sorella Marie-Angèle che portavano loro il conforto della religione.
In casa imparavano il francese, il latino, l’inglese, il russo e il tedesco perché la madre aveva fatto giurare al marito che le figlie avrebbero dovuto imparare almeno tre lingue ciascuna. Suonavano il pianoforte, ricamavano, cucivano da sé gli abiti e imparavano anche a cucinare perché in quella grande casa di campagna si erano persi i confini tra la servitù e la vita borghese. Il colonnello faceva le sue apparizioni con regolarità e a ogni visita veniva scattata una fotografia che lo ritraeva con le figlie, così che un’intera parete del suo studio si andava riempiendo delle loro immagini. Un’intera fila, quasi vicino al soffitto, ritraeva anche la madre che era bellissima come Emilie e sembrava felice vicino al colonnello che era tanto più grande di lei. Le bambine amavano guardare le fotografie e commentare gli abiti della madre e i gioielli che il padre aveva detto che un giorno sarebbero stati divisi tra loro tre. Quel che l’uomo non scoprì mai è che le bambine scoprirono molto presto il nascondiglio della chiave della camera della loro madre e che iniziarono a visitarla di nascosto, senza che nessuno lo scoprisse mai. Sì perché la camera e il boudoir della madre confinavano con il guardaroba nella  camera delle bambine e solo un paravento celava la porta di comunicazione. Fu facile trovare la prima chiave sotto la lampada nello studio del padre e poi, una volta nel boudoir, aprire da quel lato la porta e potersi muovere con agio da un ambiente all’altro e curiosare tra gli oggetti della madre defunta. Trovarono e provarono gli abiti delle fotografie, i gioielli, gli ampi cappelli che erano ormai passati di moda, le pellicce, i guanti di capretto e i ventagli di piume. Lunghissimi file di perle dalle sfumatura che andavano dal bianco più puro al rosa, all’avorio e al grigio erano la passione di Emilie, Colette e Simone ardevano più per le acque marine, gli smeraldi e i diamanti così, pensavano, non sarebbe stato difficile dividere i gioielli una volta diventate grandi. Il trumeau di Catherine, la madre, custodiva non solo i cofanetti con i gioielli ma anche i diari che ancora le bambine non riuscivano a leggere perché erano scritti in russo.
Si dava, infatti, che Catherine fosse russa da parte di madre che, a sua volta, era figlia di una nobildonna tedesca che era dama alla corte dello zar. Quando la padronanza della lingua consentì loro di leggere i diari materni, una vita sfavillante alla corte dello zar, la vita della nonna e della madre bambina, si dispiegava sotto i loro occhi. Ce n’era abbastanza perché le storie si moltiplicassero grazie alla loro fantasia e ufficiali di cavalleria facessero vorticare in un valzer senza fine le loro antenate.
La vita scorreva così, ricca e senza particolari intoppi sino a quando il colonello, ormai in là con gli anni, cadde da cavallo e si fratturò le ossa del collo. L’agonia fu breve, i funerali solenni e rapidi, la lettura del testamento non interruppe la semplicità della loro vita. Colette era già maggiorenne ed era stata nominata tutrice delle sorelle sino al compimento della maggiore età. Momento nel quale, si dissero, avrebbero lasciato la dimora paterna per andare a vivere a Parigi. Ma quando Simone compì i fatidici ventuno anni, nessuna delle tre accennò all’antico patto e rimasero tranquille a vivere con le tre istitutrici che invecchiavano con grazia e la gioia di quella vita confortevole e protetta dalle brutture del mondo. Sino a quando, una sera, un messaggero a cavallo aveva bussato alla loro porta. Non fu il messaggero a turbare la quiete, né tanto meno il messaggio, era la firma in fondo al messaggio che diceva:

“Caro marito, torno a scrivervi presso la casa di campagna perché l’ultima missiva recapitata presso il vostro reggimento è stata respinta. Ho pensato che forse avete raggiunto l’età della pensione e che vi siete ritirato nella casa che tanto amate insieme alle nostre bambine. Vi chiedo ancora una volta di ascoltare le mie ragioni e di darmi la possibilità di riabbracciare le mie figlie. La Vostra devota, anche se voi non mi credete, moglie e amica fedele Catherine”.


Alla fine di questo racconto che stavo imbastendo intervenne ancora Anna la poetessa.


Partire partire
Non sono una che resta
La casa il giardino così amati
Non sono mai dietro ma sempre davanti
Nella splendida nebbia
Sconosciuta.


E questa poesia? Chiede Margot la regina.

È la poesia di Catherine, una di quelle persone che non sanno restare e amano l’alba ammantata di nebbia e non quella sconvolta dal sole. L’ora azzurra del giorno nascente ha un gusto diverso ogni stagione. L’azzurro è della primavera e dell’inverno, il grigio dell’autunno e il rosa dell’estate.

Così sono rimasta imbrigliata nella mia stessa rete e devo continuare a inseguire questa storia e a scriverla per voi che mi leggete e per me stessa, perseguitata da tutte le parole, dette, non dette o solo immaginate.



Le due poesie di questa Cronaca 139 sono di Anne Perrier e le ho tradotte io.
Il titolo deriva dal titolo di un vecchio racconto “Le figlie dell’ibisco rosso” iniziato tanti anni fa e rimasto in sospeso.


Je m'arrête parfois sous un mot
Précaire abri à ma voix qui tremble
Et qui lutte contre le sable
Mais où est ma demeure



Partir partir
Je ne suis pas de ceux qui restent
La maison le jardin tant aimés
Ne sont jamais derrière mais devant
Dans la splendide brume
Inconnue

lunedì 13 marzo 2017

Scrivo a un tavolo di legno

4
Ti scrivo questa quarta lettera
in una stanza di legno, a un tavolo di legno,
legno dappertutto, incredibilmente tanto legno,
e dappertutto scritte, con l’inchiostro,
la matita chimica, la punta del coltello,
nomi, date, usignoli, treni,
chiavi. (Puoi aprire un
treno con la chiave e calpestare l’usignolo
intirizzito sui binari e apporre la tua firma con
tanto di data). Ho paura.
Oltre la cornice di legno della finestra
palpita la manica scura dell’abete
notturno; una notte
mi aspettavi, era estate, sul letto avevi messo i miei libri.
Quando entrai, vidi me stessa,
forse non dovevo rimpiazzare
il mio corpo di libri, di carta, di legno,
il mio corpo effimero, così la penso ora,
ora che non ti amo.

Nina Cassian
C'è modo e modo di sparire
Poesie 1945-2007

traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica
Adelphi 2013

giovedì 20 ottobre 2016

Tutti i romanzi sono un unico libro che noi stessi abbiamo scritto

Di colpo mi son trovata dentro un libro su come leggere i romanzi, e non riesco a smettere di costruire frasi. È questo il libro che vedo quando sollevo il coperchio e guardo dentro. Sarà come leggere tutta la narrativa come se fosse un unico libro che noi stessi abbiamo scritto.
 5 febbraio 1927

Virginia Woolf
lettera a Vita Sackville-West 

venerdì 30 settembre 2016

io sono abituato a cibarmi di nuvole e lontananza

5 Dicembre 1933
Dearest Irma,
le tue lettere sono un tesoro che non riesco neppure a rileggere tanto sono preziose.
Le tengo chiuse in un cassetto…
La mia filosofia?
Non ne ho.
Ne hanno estratto più di una dai miei versi, ma a torto.
Per me la poesia è questione di memoria e dolore.
Mettere insieme il maggior numero possibile di ricordi e di spasimi, e usare la forma più interiore e più diretta.
Non ho fantasia; mi occorrono anni per accumulare poche poesie.
L’esecuzione materiale, poi, è rapida ; spesso è questione di minuti.

Mia cara Irma, io sono abituato a cibarmi di nuvole e lontananza, ma tu meritavi qualcosa di meglio!

Io sarò sempre tuo, a tua disposizione, pronto a fare quello che vorrai, e persino a pensare quello che vorrai farmi pensare…
Non desidero di meglio che pensare con la tua testa e vedere coi tuoi occhi.
Eugenio Montale a Irma Brandeis

sabato 17 settembre 2016

la tua mano, stretta nella mia, è fatta di sogni

La separazione

Quasi con invidia leggo le opere dei miei contemporanei
su divorzi, addii, il dolore delle separazioni;
sofferenza, nuovi inizi, piccole morti;
lettere lette e bruciate, bruciare e leggere, fuoco e cultura,
ira e disperazione – magnifica materia per una poesia riuscita;
un duro giudizio, a volte una risata sarcastica di superiorità morale,
e insieme definitivo trionfo della continuità individuale.

E noi? Non ci saranno elegie, né sonetti sulla separazione,
non ci dividerà lo schermo dei versi,
non si porrà fra noi una metafora riuscita,
l’unica separazione che ora ci minaccia è il sonno,
il profondo antro del sonno la cui soglia varchiamo separati,
- e devo sempre ricordare che la tua mano,
stretta nella mia, è fatta di sogni.

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

lunedì 11 luglio 2016

le punte delle tue dita ardono nella notte

Scrivo te -
Sei tornata nel mondo

con forza medianica di lettere

proteso a tentare il tuo essere

Luce risplende

e le punte delle tue dita ardono nella notte

Costellazione della nascita
fatta di buio come queste righe -


Nelly Sachs
Glühende Rätsel
Enigmi roventi


Ich schreibe dich -
Zur Welt bist du wieder gekommen

mit geisternder Buchstabenkraft

die hat getastet nach deinem Wesen

Licht scheint

und deine Fingerspitzen glühen in der Nacht

Sternbild bei der Geburt

aus Dunkelheit wie diese Zeilen -

venerdì 1 aprile 2016

dopo secoli non avremo che dirci, vi sarà solo un bruciante silenzio

È tanto che non ti scrivo. Non ho tue notizie. Ma sempre
spero che un giorno tu possa tornare
nella città che hai cantato.
Come stupide navi si dissolvono gli anni.
Io recito al Wolker. Sono serena. Il passato
lo tengo lontano, sui margini, come un intruso.
C’è solo un filo di ignobile malinconia,
che trapela talvolta di sotto una porta,
ma io riesco a tagliarlo, fingendomi ottusa
e decrepita come una mummia di Strindberg.
La primavera ha inondato di bionde forsythie
la piccola casa in cui vivo, in cui studio le parti.
Com'è duro parlarsi a distanza,
quando l’armadio del cuore
vorrebbe aprirsi in un fiotto di chiacchiere.
Eppure vedrai, se verrai: dopo secoli
non avremo che dirci, vi sarà solo un attonito,
goffo, appallottolato, bruciante silenzio.

Angelo Maria Ripellino
Lo splendido violino verde
Einaudi 1976

lunedì 28 dicembre 2015

Le parole sono trama e ordito della memoria

Elenco. Memoria

Cosa non devo dimenticare
     

  1. La notte, da piccola, nel letto della casa di Castagneto e Vittorio nel letto accanto. Il mio posto nel mondo, quello che pensavo che fosse. Il freddo delle lenzuola umide, il caldo della brace: insieme.
  2. Che il tempo non esiste. Siamo tutti al mondo allo stesso momento, nel   passato nel presente e nel futuro.
  3. Che è inutile spiegare questa cosa. Qualcuno la sa, qualcun altro non può ed è inutile.
  4. Le regole della salute: dormire almeno sei ore, avere rispetto del corpo, curarlo. Dedicare dieci minuti al giorno ad ascoltarlo e capire cosa chiede. Fare esercizio, camminare. Non usare farmaci se non è assolutamente necessario. Se non è. Assolutamente. Necessario.
  5. Chiamare la nonna. Scriverle qualche riga ogni giorno e inviarle una lettera ogni settimana.
  6. Il potere della musica. Lhasa de Sela, la sua voce.
  7. Il potere della lettura. Un libro, ovunque con me, sempre.
  8. Il potere delle favole. Non abbandonare il progetto di tradurre le fiabe raccolte nel mondo. Non rinunciare. Insistere anche quando sembra così faticoso. Doloroso.
  9. Todo cuadra. Questa formula, tutto è al suo posto. Ma non si può tanto tradurre. Tutto è proprio come deve essere. Non c’è da ostinarsi a spostare i pezzi. Bisogna solo osservarli muovere, vedere dove vanno. Questo siamo: spettatori attivi nel teatro dell’universo. È uno spettacolo, realmente, la vita. Todo cuadra.
  10. L’amore è fragile. È una cosa talmente magica che bisogna starci molto attenti. A come si dicono le cose. Svanisce, altrimenti: va via. Deve rimanere nel bello. Vive di sorrisi. Handle with care, con cura. Controllare le proprie ossessioni, non fare scenate di gelosia inutili. Non metterlo alla prova, soprattutto. Mai.
  11. Parole tranello. Capriccio. Colpa. Regola. Pericolo. Non giocare con queste parole. Quando sembra che gli altri conoscano le regole del gioco e tu no. Quando vogliono farti pensare che sei inadeguata, e alla fine davvero lo pensi. Quando vogliono farti dire che sei stata una bambina viziata, che hai giocato col fuoco. Che la colpa è tua. La colpa. È tua. Che non sei stata prudente, non hai visto il pericolo. Egoista, cieca. Bisognava sopportare. Non giocare con queste parole. Non toccarle. Sono trappole mortali.
  12. Quando sono scesa da Barnes&Noble, in libreria, a cercare una guida di New York. 11 settembre 2001. Gli sguardi delle persone attorno a me che si affacciavano per strada a vedere il fumo e dicevano un incendio, forse. La storia non la capisci mai mentre accade. È raro. Anche Vera, la mamma di David, mi diceva di quando furono portati nei campi: non lo capisci subito, è raro. La storia grande è uno spostamento piccolo nella tua vita. È la storia piccola della tua vita a essere grande.





questa lista della memoria è di Irina Lucidi, una donna fuori dal comune, il libro che racconta la sua storia è di

Conchita De Gregorio
Mi sa che fuori è primavera
Feltrinelli 2015

giovedì 17 dicembre 2015

Chi piange la notte ha le stelle che piangono con lui

Ecco che esce di casa la vecchia cieca, per la quale ieri ho scritto una lettera al figlio in Egitto, e lei mi porta un antico Talmud e io leggo: non sottovalutare nessuno e non ritenere niente impossibile. Ogni persona ha la sua ora, ogni cosa il suo luogo. Chi piange la notte ha le stelle che piangono con lui.

Che connessioni. La donna anziana, con il suo libro antico, arriva direttamente dentro il mio cuore. Che strane connessioni. Io credo in una circolazione interna. E quando gli esseri umani distruggono questo mondo: la circolazione interna prosegue. D’altra parte non sono gli esseri umani. Siamo tutti noi. Io stessa ho fatto questo e quell'altro. Ho mollato e ho fallito. Questo finisce nella circolazione interna. Un punto malato qui o là. Chi lo sa?

Nelly Sachs
Lettere dalla notte

a cura di Anna Ruchat
La Giuntina Editore 2015

lunedì 23 novembre 2015

era tutta un manoscritto, parole, anima, alberi di betulla, poesie, lettere

Appoggiava la fronte su una mano cacciando le dita tra i capelli e si concentrava all’istante. Diventava cieca e sorda a tutto ciò che non fosse il manoscritto, in cui letteralmente si conficcava con la punta della penna e l’acume del pensiero”. Ogni tanto si accendeva una sigaretta e beveva un sorso di caffè. Parlottava per sentire come suonavano le parole, restava seduta al tavolo, come inchiodata, qualunque cosa accadesse intorno a lei, e ricopiava i manoscritti da mandare in tipografia in stampatello. “Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta – un manoscritto”, scrive nella seconda raccolta di lettere pubblicata da Adelphi, Deserti luoghi.

Cvetaeva era tutta un manoscritto, parole, anima, alberi di betulla, poesie, lettere, e il resto dell’esistenza, la vita dei giorni, le sfuggiva di mano, la faceva sentire “una miserabile, piccola sartina che non farà mai niente di bello, che sa solamente far guasti e ferirsi e che, lasciando là tutto: forbici, pezze, rocchetti – si mette a cantare. Davanti a una finestra dove piove per sempre”. Così, mentre gli altri stanno in vacanza, si divertono, si riposano dopo un lavoro che forse non amano, o non amano abbastanza, o comunque non amano più della vita stessa, Marina soffre: “La mia vacanza è proprio il mio lavoro. Quando non scrivo sono semplicemente infelice, e nessun mare può darmi sollievo”.


Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

sabato 14 novembre 2015

quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte

Scrivendo ho fatto di nuovo tardi, mia cara, è l'una di notte. Mi ritorna sempre alla mente il dotto cinese. Ma purtroppo, purtroppo, non è l'amica a svegliarmi; soltanto la lettera che le voglio scrivere. Una volta mi hai scritto che vorresti starmi vicino mentre scrivo, pensa però che non potrei scriverti (non posso neanche molte altre cose), ma scrivere non mi sarebbe possibile. Scrivere significa aprirsi fino all'eccesso; l'estrema sincerità e dedizione in cui uno crede già di perdersi ai contatti umani e pertanto, fin che è in sé, cercherà sempre di evitare - poiché ognuno vuol vivere intanto che vive -, questa sincerità e dedizione non è neanche lontanamente sufficiente per scrivere. Ciò che da questa superficie si trasporta nello scrivere - se non si può altrimenti e le fonti più profonde tacciono - non è nulla e crolla nel momento in cui il sentimento più vero fa traballare questo suolo superiore. Perciò quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte. Perciò non si può mai avere a disposizione abbastanza tempo perché le vie sono lunghe ed è facile deviare, talvolta ci si angoscia perfino e senza essere costretti o invitati vien voglia di tornare indietro di corsa (voglia in seguito sempre severamente punita), quanto più se si ottenesse improvvisamente un bacio dalla bocca più cara! Ho già pensato più volte che il mio miglior tenore di vita sarebbe quello di stare con l'occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno d'una cantina vasta e chiusa. Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe sempre lontano dal mio locale dietro alla più lontana porta della cantina. La strada per andare a prendere il pasto, in veste da camera, passando sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica passeggiata. Poi ritornerei alla mia scrivania, mangerei lento e misurato e riprenderei subito a scrivere. Chissà quali cose scriverei! 
Da quali profondità le farei sorgere! Senza sforzo, perché l'estrema concentrazione non sa cosa sia lo sforzo. Salvo che forse non lo potrei fare a lungo e al più piccolo fallimento, non evitabile nemmeno in queste condizioni, finirei in una grandiosa pazzia. Che ne dici, cara? Non ritrarti dall'inquilino della cantina!

tra il 14 e il 15.1.1913

Franza Kafka
Lettere a Felice
1912-1917
raccolte e edite da Erich Heller e Jurgen Born
tradotte da Ervino Pocar
I Meridiani Mondadori 1972

venerdì 13 novembre 2015

legno, respiro, ballatoio e quelle felci fulgide, appartate...

Lettera


Ho ripreso una lettera in mano.
Ho letto, ancora. Sin che morì la luce.
(Kostantinos Kavafis)

Dunque ora ricorda corpo
non il corpo che amasti
e che ora dorme in un diverso inverno
ma gli oggetti della stanza di allora.
Ricorda come li attraversavi indifferente
e come li vorresti ora pesanti contro il petto
a premere il rimpianto a farne cosa
da erigere sul dubbio che due corpi
siano stati davvero in una tregua:
legno, respiro, ballatoio
e quelle felci fulgide, appartate...

Antonella Anedda
Il catalogo della gioia
Donzelli 2003

martedì 20 ottobre 2015

Con la matita in mano apro i gusci delle lettere

Nella quiete

Con la matita
in mano
         apro
i gusci delle lettere

Il silenzio 
acconsente
alla crescita
         alla sbarra
         della voce


Andriana Škunca
Antologia della poesia croata contemporanea
a cura di Marina Lipovac Gatti
Hefti 1999

mercoledì 27 maggio 2015

Scrivere poesia è lasciare che il senso ritmico leghi le cose in un tutto armonioso

[…] scoprire il rapporto tra cose incompatibili mentre hanno un’affinità misteriosa, assorbire ogni esperienza che attraversa la […] strada, senza timore e saturarla completamente in modo che la […] poesia sia un insieme, non un frammento; ripensare la vita umana in poesia onde darci di nuovo la tragedia e la commedia attraverso personaggi concentrati e sintetizzati come fanno i poeti. […] Tutto quello che devi fare adesso è stare alla finestra e lasciare che il tuo senso ritmico si apra e si chiuda, si apra e si chiuda, in modo audace e libero finché una cosa non si fonde in un’altra, finché i taxi non si mettono a ballare con i narcisi, finché da tutti questi frammenti separati non si viene formando un insieme. […] Poi lascia che il tuo senso ritmico si snodi tra gli uomini e le donne, tra gli omnibus, i passeri - qualsiasi cosa si presenti lungo la strada - finché non li abbia legati in un tutto armonioso.

Virginia Woolf
Lettera a un giovane poeta
a cura di M. Premoli
Archinto 2000