venerdì 28 febbraio 2014

La mia ispirazione si è nutrita anche di persone che non ho mai conosciuto

Una fotografia, un racconto. Per le otto storie che compongono Le volpi vengono di notte, lo spunto da cui parte lo scrittore olandese Cees Nooteboom è sempre un' immagine fotografica, maneggiata come fosse una madeleine. Non importa che le persone ritratte siano vicine all'autore o sconosciute: osservare l'istantanea e cercare di coglierne il significato vuol dire evocare la loro vita, decodificarne i segreti. Quello di chi guarda e racconta è però un atto secondario, una riflessione ad alta voce, e queste narrazioni somigliano molto a lettere d'addio. I personaggi sono per lo più fuoriusciti dal nord verso il sud Europa, e Nooteboom ne delinea i contorni a partire da simboli e gesti quotidiani, immergendosi nel recinto del loro passato e nel disastro delle loro vite, accompagnandoli pian piano verso la morte e talvolta oltre, perché, dice, 
«la narrativa è un mezzo potente, può riportare in vita anche i morti». 

Il punto di partenza è sempre la visualizzazione di una vecchia foto. Come mai? 
«La fotografia, specialmente quando il soggetto è un essere umano, esprime situazioni essenziali. Se si conoscono, le persone ritratte possono servire come una specie di promemoria. Se sono degli estranei, possono diventare l'innesco della finzione narrativa. La mia ispirazione si è nutrita anche di persone che non ho mai conosciuto».


frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Cees Nooteboom
Repubblica 27 marzo 2010 

giovedì 27 febbraio 2014

Scrivere è una cadenza perpetua sul bordo di un precipizio

Parigi 1928 s'apre con il suo arrivo al porto di Le Havre, un approdo a lungo agognato, in cui le immagini di sogno della città, portate dentro di sé e veicolate dalle suggestioni letterarie, corrispondono pienamente alla realtà che si traduce dinanzi ai suoi occhi. Nelle settimane seguenti è June, celata nel romanzo sotto il nome di Mona e vera nemesi del suo lavoro di scrittore, che gli fa da guida nelle dimore e nei caffè degli artisti, frequentati tempo addietro quando era fuggita con l' amica e amante Jean Kronski. Moglie e marito attraversano la città a piedi, passano da una terrasse all'altra, da una conversazione all'altra, nel tentativo di intercettare gli immortali, scrittori pittori fotografi che il protagonista sciorina come un catalogo di navi, ma incontrano solo comprimari o americani espatriati il cui compito principale è di spronarlo a trovare la strada della scrittura: 
«Il mio problema è scrivere, non su cosa scrivere», confida a Carl, cioè Alfred Perlès, che lo aiutò nel secondo, più duro ma prolifico passaggio parigino, quello di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, iniziato nel febbraio del '30. La forma, dunque, e non il contenuto,a lui mancava, e Miller, ansioso di accreditarsi ai posteri in quel 1961 in cui per la prima volta i suoi romanzi vennero pubblicati in America, sosteneva di averla trovata ascoltando suonare uno zingaro a Budapest: 
«L'importante è suonare, che tu lo sappia fare o meno (...). 
La lingua, il linguaggio, è soltanto un'asse per lavare i panni. 
Scrivere è tutt'altra cosa. 
È come una cadenza perpetua sul bordo di un precipizio».

frammento della recensione di Sebastiano Triulzi al libro 
Parigi 1928 di Henri Miller
Repubblica 20 giugno 2010

mercoledì 26 febbraio 2014

L'impulso creativo abita tutti quanti noi

Qual è il valore che attribuisce alla metamorfosi? 
«Il mio è un discorso sul potere e sulla flessibilità che ha fantasia di portarci fuori dalle circostanze ordinarie della nostra vita, di trasportarci in luoghi in cui possiamo acquisire una prospettiva completamente diversa su chi siamo o sul senso delle nostre azioni. Il cambiamento, brutto o piacevole che sia, avviene attraverso il corpo, e come i botanici innestano le piante, cerco di produrre nuove forme di vita offrendole ai lettori». 

L'innesto è una metafora valida anche sul piano personale? 
«Sono figlia di operai e in più sono stata adottata. Uno dei motivi per cui mi hanno sempre affascinato le storie degli irregolari e dei loro istinti distruttivi è perché mi sentivo una fuori casta. Ho molto amato il personaggio di Heathcliff in Cime Tempestose: un ragazzo orfano che vuole essere accolto dalla società ma ne è rifiutato. Lo scrittore è del resto un escluso, un diverso persino, che tenta di ricondurre all'interno della società ciò che alla società è assolutamente necessario». 

In che modo definirebbe la creatività? 
«È qualcosa che dura ininterrottamente per tutta la vita. Dal bambino che fa uno scarabocchio a Picasso che crea un'opera d'arte... tutti gli esseri umani potrebbero essere degli artisti. Ad un certo punto la creatività ci viene portata via con la scusa che è soltanto per pochi. Non sono d' accordo. L'impulso creativo, che si presenta a diverse diluizioni e dosaggi, abita tutti quanti noi». 

frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Jeanette Winterson
Repubblica 19 marzo 2011

martedì 25 febbraio 2014

La mia mente funziona per metafore

C' è un suo bellissimo racconto, inserito nella raccolta La cosa nella foresta, in cui una donna si tramuta lentamente in pietra, esempio inusuale se guardiamo alla sua narrativa in cui il fantastico sopravanza il reale: 

«In Una donna di pietra l' aspetto reale mi sembra ancora più importante che in tutti i racconti o romanzi che abbia mai scritto. Perché era una storia sul dolore, su una donna che si trasforma in bellissime pietre. Solo attraverso la fantasia, in maniera indiretta, potevo affrontare questo argomento così personale». 
L'attenzione al multiforme femminile non è comunque preminente nelle sue opere anche se, precisa, «la parola metamorfosi nella sua radice è imparentata con la parola metafora. E la mia mente funziona per metafore». 
Preponderante è invece l' uso enciclopedico delle discipline letterarie e scientifiche, inclusa l' attenzione per la vita delle formiche o lo studio delle chiocciole: afferma che la forma di tutti i suoi romanzi, anche della più realistica quadrilogia fondata sull'alter ego Federica Potter, nasce da una metafora dominante: le lumache ne La torre di Babele, i burattini ne Il libro dei bambini
(...) 
I romanzi, scrive in uno dei saggi presenti in On Histories and Stories, nascono dalle mancanze, dalle carenze della storia: «Perché lo scrittore osserva cose diverse dallo storico. 
(...)
Quando era più giovane non possedeva il senso della forma, dice, «dovevo riscrivere i libri venti o trenta volte, poi ho capito che devo trovarlo prima di iniziare perché è l' unico modo per controllare la scrittura. Comincio a lavorare alla struttura di un romanzo molto prima di pensare a personaggi, dettagli, eventi o relazioni fra le cose. In questo modo posso rendermi conto in una maniera quasi matematica se c' è qualcosa che non funziona». 
(...)
Credo di amare la pittura perché è silenziosa e perché dà l' idea che non ci sia il tempo» spiega. «I pittori guardano al mondo in una maniera completamente diversa, per me i quadri sono immagini provenienti da un altrove che non ci appartiene.
(...)
Al tentativo di rintracciare una verità ontologica è unita anche l'idea di fondo della sua narrativa: raccontare come funziona la mente umana, nell'ipotesi suggestiva di tracciarne una grammatica: 
«È vero. Siamo proprio all'inizio del metodo con il quale possiamo guardare con la neuroscienza alla grammatica della mente. Quando ero una bambina pensavo che c' era qualcosa dentro la testa, qui dietro, che ti guardava. Oggi, più correttamente, l' immagine con la quale si comincia a guardare alla grammatica della mente è un albero, con diverse radici e ramificazioni, e una struttura matematica molto precisa».

frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Antonia S. Byatt
Repubblica 18 settembre 2011

lunedì 24 febbraio 2014

Scrivere significa avere passione per la solitudine

 Se è vero, come ho letto da qualche parte, che in qualunque momento almeno il due per cento della popolazione è impegnata a scrivere un romanzo, allora molte domande sui corsi di "scrittura creativa" e sulla loro rapida proliferazione negli ultimi tempi riguardano in realtà i motivi per i quali abbiamo bisogno degli altri. La scrittura è un' attività solitaria, o necessita dell' aiuto di altre persone?
(...)
Alcuni si dedicano alla scrittura perché vogliono essere autonomi, e non desiderano competere con gli altri né dipenderne. Per costoro la scrittura è un' esplorazione di sé del tutto personale, un modo per star soli, per ripensare alla propria vita, e forse per nascondersi, mentre parlano a qualcuno che risiede nella loro testa. Di sicuro, senza una passione per la solitudine, nessuno può sopportare la tediosa ossessività della scrittura. E tuttavia non è qui, nella solitudine, che finisce la storia.

frammenti dell'articolo di Hanif Kureishi dedicato alla scrittura creativa

Repubblica 3 novembre 2009

domenica 23 febbraio 2014

Ho tenuto un diario, tutti i giorni, per quarant'anni

«Ho tenuto un diario, tutti i giorni, per quarant'anni. Da quando ero un ragazzino fino a oggi. E non penso affatto che sia un’abitudine antiquata, obsoleta. Al contrario, credo che oggi sempre più gente affidi i propri pensieri quotidiani a un quaderno, anche se non è necessariamente di carta e non è necessariamente un giornalino segreto, privato, ma pubblico come lo sono Facebook, Twitter, i social network insomma».
Ma adesso anche i pensieri privati di Hanif Kureishi sono diventati un “diario pubblico”: li ha acquistati per centomila sterline, centoventimila euro, la British Library, l’eminente biblioteca nazionale britannica, uno dei custodi di libri, documenti e manoscritti più prestigiosi del mondo. Da qualche parte nel ventre di questa futuristica balena di pietre rosse, come caduta dal cielo fra le vecchie casette vittoriane del centro di Londra, tra Bloomsbury, il quartiere di Virginia Woolf, e la stazione ferroviaria di King’s Cross, in qualche sala o seminterrato, fra la sua collezione sterminata di centocinquanta milioni di volumi, riviste e artefatti risalenti fino al Trecento avanti Cristo, ora ci sono solerti bibliotecari che stanno leggendo, ordinando e sistemando l’archivio personale dell’autore de Il Budda delle periferie, di My Beautiful Laundrette e del recente L'ultima parola (ispirato da V.S. Naipaul, il suo padre letterario). È come una consacrazione per lo scrittore, sceneggiatore e commediografo anglo- pachistano che vent’anni or sono entrò come una furia nella casta wasp della narrativa inglese, aprendo la strada a una narrativa più etnica, globale, ricca, che dopo di lui non è più stata la stessa. «Lì dentro ci sono i manoscritti di tutte le mie opere, bozze di altre che non ho mai completato, lettere, appunti, fotografie, agende di appuntamenti e naturalmente c’è il mio diario, un journal che ho tenuto fino a pochi mesi fa», racconta lo scrittore davanti alla British Library. «Mi fa piacere che restino a Londra, perché questa, a dispetto delle origini asiatiche della mia famiglia, è la mia casa, il luogo che più amo».

È un ritorno a casa anche per un’altra ragione: in questo tempio della lettura lei ebbe il suo primo impiego, non è vero?

«Avevo vent’anni, studiavo all’università e per guadagnare qualche soldo lavoravo alla British Library, che non era ancora questa in cui ora riposano i miei scritti ma una serie di edifici più piccoli, sparsi per la città, comunque in possesso di un’aura che per me aveva un’attrazione speciale. Era come per un bambino goloso di cioccolata ritrovarsi in una pasticceria».

incipit dell'intervista di Enrico Franceschini a Hanif Kureishi
Repubblica domenica 16 febbraio 2014

sabato 22 febbraio 2014

Lo scrittore, il personaggio, il dialogo

"Non esiste vita senza pazienza". Questo concetto viene espresso almeno due volte ne Lo scrittore fantasma. Può svilupparlo un po?

L'unico modo in cui posso svilupparlo è ricordando che queste parole non le pronuncio io, ma un personaggio del libro, l'eminente autore di racconti E. I. Lonoff. È una massima che Lonoff ha ricavato da una vita passata ad arrovellarsi sulle frasi, e contribuisce un po', spero, a caratterizzarlo come scrittore, marito, eremita e mentore. Un personaggio di fantasia prende vita attraverso quello che dice e quello che non dice, è uno dei mezzi che usa il romanziere. Il dialogo è un'espressione dei loro pensieri, delle loro convinzioni, delle loro difese, della loro arguzia, degli scambi di battute ecc., in generale una raffigurazione del loro modo di reagire. Io cerco di raffigurare in Lonoff un'aria verbale di distacco e simultaneamente di impegno, e anche la sua indole pedagogica, in questo caso mentre parla a un giovane protetto. Quello che un personaggio dice è determinato dalla persona con cui parla, dall'effetto che auspica e naturalmente da chi è il personaggio e da cosa vuole nel momento in cui parla. Altrimenti è solo un parapiglia di opinioni. È propaganda. Qualunque segnale trasmettano quelle parole che lei ha citato derivano dalla specificità dell'incontro che le suscita.

incipit dell'intervista di Cynthia Haven a Philip Roth
Repubblica sabato 22 febbraio 2014


venerdì 21 febbraio 2014

La quieta pausa tra due respiri profondi

E poi: si vive tanto, e la vita trabocca di esperienze. Eppure... si porta in se stessi, ovunque con sé, una grande e feconda solitudine. E talvolta, il momento fondamentale di una giornata è la quieta pausa tra due respiri profondi, quel tornare fino s se stessi in una preghiera di 5 minuti.
22 aprile 1942


Etty Hillesum nella traduzione di Lorenzo Gobbi
Il bene quotidiano
Breviario dagli scritti (1941-1942)
Edizioni San Paolo 2014

giovedì 20 febbraio 2014

Scrivere in una luce invernale che non è più invernale

"Pomeriggio domenicale di gennaio. In una casa vuota, un uomo siede dietro al suo tavolo da lavoro. È l'autore di quindici romanzi. Ora, da quasi un anno e mezzo non fa più niente. La sola idea di trovarsi ogni mattina di fronte a quello spazio bianco gli provoca, infatti, una sensazione di panico e di sgomento. A volte, capita che situazioni per così dire della vita quotidiana illudano lo scrittore che da un anno e mezzo non fa più niente a pensare che in loro stesse possa dischiudersi un qualche spiraglio che lo condurrebbe da qualche parte. È il caso ad esempio del pomeriggio domenicale di gennaio. Lui tempo addietro, in un altro foglio, ha già scritto: 'Gennaio, Roma le giornate si allungano, profumo di inverno in via Margutta.' Adesso, essendo reduce da una lunga camminata sfiancante che da corso Trieste lo ha spinto addirittura sino alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, potrebbe aggiungere qualche parola a quelle del precedente appunto. Potrebbe, semplicemente, provare a descrivere la luce di gennaio che, fra le tre e le quattro, rimanendo invernale, non è più una luce invernale e squarcia uno spazio nuovo. Potrebbe descrivere le facciate dei palazzi di viale Parioli, con i vetri che riflettono il sole nei piani alti. Potrebbe definire il colore del cielo su via Aldovrandi e la Valletta dei Cani. Se non lo fa, è perché nel momento in cui sta per decidersi, la situazione anonima che credeva nascondesse in sé uno spiraglio, mostra di colpo, impietosamente, la sua irrilevanza. Una luce invernale, non più invernale, squarcia uno spazio nuovo... Che vuol dire? Nulla..." finì di scrivere e in silenzio ripeté.

Giorgio Montefoschi
La fragile bellezza del giorno
Bompiani 2014
 
 

mercoledì 19 febbraio 2014

Stanza silenziosa

Prima, quando stavo seduta alla mia scrivania, mi sentivo sempre molto in ansia, come se stessi perdendo qualcosa della vita. Così, non sapevo concentrarmi bene sui miei studi. E quando ero nella "vita vera", tra la gente, avevo sempre molto desiderio di tornare alla scrivania, e non ero per nulla felice tra la gente. Questa separazione innaturale tra lo studio e la "vita vera", ora è scomparsa. Adesso, alla scrivania ci "vivo" davvero. Lo studio è diventato un'autentica "esperienza di vita" e ha smesso di essere qualcosa che riguarda soltanto la testa. Alla scrivania sono immersa totalmente nella vita, e nella "vita" porto la pace interiore e l'equilibrio che ho acquisito dentro di me. Prima, ero obbligata a ritirarmi ogni volta dal mondo perché le sue troppe impressioni mi confondevano e mi rendevano infelice. Dovevo fuggire in una stanza silenziosa. Adesso, porto con me questa che possiamo chiamare "stanza silenziosa", e posso rifugiarmi là in qualsiasi momento, anche se mi trovo se un tram affollato o su un treno che si ferma con tutto il suo peso. (...)
9 gennaio 1942

Etty Hillesum nella traduzione di Lorenzo Gobbi
Il bene quotidiano
Breviario dagli scritti (1941-1942)
Edizioni San Paolo 2014

martedì 18 febbraio 2014

Scrivere è faticoso

"Scrivere è faticoso" dice il protagonista. Quanto c'è di autobiografico nel suo libro?
E' forse il romanzo che mi somiglia di più. Scrivere è una fatica quotidiana. Io sono un metodico; dalle 9 alle 13 della mattina sono al tavolo ma il problema è che non so mai cosa scriverò. A guidarmi sono le parole e il procedere al buio è tremendamente stancante. Credo che lo scrittore debba saper ascoltare la parte di sé che fa resistenza.

La sua cura dei dialoghi è quasi maniacale. E acquista un'importanza ancora maggiore in un momento in cui virtualità fa rima con incomunicabilità.
Parise mi diceva "Curi bene i dialoghi e aveva ragione. A loro è affidata anche la confessione e ciò che andrebbe taciuto".

frammenti dell'intervista di Leonardo Jattarelli a Giorgio Montefoschi sul Messaggero  del 14 febbraio 2014, in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo
La fragile bellezza del giorno
Bompiani 2014
Il Messaggero

lunedì 17 febbraio 2014

Uno sciame di nebbia imita le api

Lo sciame della nebbia


Confusi tra i passeri invernali
stanno i chicchi di riso scintillanti.
Non terra dove dimorare, né acqua
ma un desiderio di volo come amore
li spinge al destino fatale.
Uno sciame di nebbia imita
le api nel volo trasversale e
i passeri si affollano intorno
alla pozzanghera dove
l’acqua è sostegno dolce e
laterale.
È inverno questo, non
un sogno, anche se il ghiaccio
resta e ricama gli abiti e
la notte più buia spegne

le stelle e avvolge il silenzio.

Elena Petrassi
Figure del silenzio
Atì editore 2010

domenica 16 febbraio 2014

La rosa e la mandorla

La rosa e la mandorla


Questo inverno testardo tira
le coperte sino a stamattina
e non vi è allegria per l’anima
e solo peso per il corpo stanco.
Allora tiro le tende e nella
penombra fredda gioco
al gioco dei riflessi. Cosa è
diventata la rosa di inganni
che sboccia tra i libri?
Cosa mi appare nella coppa
d’oro che mai hai colmato?
Ombre di ombre si affollano
ai davanzali. Scivolo sul sesto
gradino di questo sogno di
mandorla e poche parole. 

Elena Petrassi
Figure del silenzio
Atì editore 2010

sabato 15 febbraio 2014

Neve, voce dei mesi

Neve, voce dei mesi


Tirerò questi fili, i loro colori
perchè le sillabe intonino questo
canto dell’inverno d’Occidente
ho fogli e non petali, non scriverò
il sole sui rami nudi dove
neanche la neve ha dato voce
ai mesi dell’inganno serale
dove colleziono astrazioni come
biglie di vetro solo per cercare
il vero nella rifrazione che si

staglia ai margini del bosco.

Elena Petrassi
Figure del silenzio
Atì editore 2010

venerdì 14 febbraio 2014

Alla notte d'inverno dove la parola fu detta

Il cielo ancora chiaro


Riposate insieme dunque, mie
mani vuote di poesia, che non
conosco un sentiero dove
aprirsi la strada tra le fronde,
non esiste quella salita dove
il cielo ancora chiaro si adagia
soffice tra le vette mai raggiunte
della tua voce che sempre abita
il concavo della mia attesa. Ecco
vedi è questa la direzione incisa
dal tempo e non dal movimento:
sempre noi ritorniamo a questo
tavolo, alla notte d’inverno dove
la parola fu detta, il patto siglato

Elena Petrassi
Figure del silenzio
Atì editore 2010

giovedì 13 febbraio 2014

Quel che hanno i poeti: orgoglio, solitudine e arte

Cedere il posto agli anziani e agli ammalati

Viaggiavo in piedi
eppure nessuno mi offrì il posto
anche se ero di almeno mille anni più anziana,
anche se portavo, ben visibili, i segni
di almeno tre gravi malanni:
Orgoglio, Solitudine e Arte

Nina Cassian
C'è modo e modo di sparire
Poesie 1945-2007
traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica
Adelphi 2013

mercoledì 12 febbraio 2014

ed ecco una parola come una città abitata

Poesia

Da questa matita si diparte una strada di grafite
e sulla strada passeggia una lettera, come un cane,
ed ecco una parola come una città abitata
dove forse arriverò domani.

Nina Cassian
C'è modo e modo di sparire
Poesie 1945-2007
traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica
Adelphi 2013

martedì 11 febbraio 2014

Quando le pagine scritte aprono il cassetto

E viene il giorno in cui la collezione di lettere di rifiuto è un collage di rivincita. Biglietto da visita inedito per l'incontro con un destino. Quello che ti stringe la penna, ti guarda dritto tra le righe e ti presenta a te stesso come Scrittore.
E' come un improvviso cambio di stagione. Le pagine scritte aprono il cassetto, indossano una copertina e si stendono alla luce del sole sul litorale ambito dei Pubblicati. Ma a far soffiare il vento del successo -assicurano i meteorologi del "riconoscimento duraturo"- non bastano talento e qualità. Occorre una misteriosa reazione chimica. Un Big Bang letterario che è al tempo stesso inizio e progettazione. Occorre un "autore di autori".
Per Jean Echenoz, scrittore francese che confessa di non amare la parola scrittore ma di usarla in mancanza di efficaci sinonimi, tutto ebbe inizio con una telefonata inattesa in un giorno di neve, a Parigi, il 9 gennaio 1979. Il giorno successivo al disincantato invio del suo manoscritto -ormai rifiutato da tutte le case editrici contattate- alle Editions de Minuit, "quintessenza della virtù letteraria" diretta e orchestrata dal leggendario Jèrome Lindon. L'editore che camminava veloce e irraggiungibile per le vie di Parigi e che, se riceveva un manoscritto, telefonava già l'indomani o la sera stessa.
"Il mio editore", sottolinea con affetto Echenoz nel breve, incalzante omaggio pubblicato in Francia nel 2001, dopo la morte di Lindon. L'"uomo dai due sorrisi" -di cordialità o di disapprovazione- che deliziosamente disdegnava simpatia e sentimentalismi, ma convertiva entusiasmo e attenzione -interminabili e esilaranti arringhe sull'uso della virgola, "quasi fosse in gioco il futuro del mondo e della letteratura"- nella creazione di un nuovo scrittore.


incipit della recensione di Silvia Giuberti al libro di
Jean Echenoz
Il mio editore
Il Sole24ore 19/6/2008

lunedì 10 febbraio 2014

Chi non ha preso qualcosa da Chatwin?

L'antica passione per Chatwin riscaldata dalla pubblicazione dell'epistolario.


Il primo tentativo di rendere sistematiche le sue idee Chatwin lo aveva compiuto quando era ancora giovanissimo e il titolo di quel progetto abbandonato, L'alternativa nomade, è stato scelto per l'edizione italiana dell'epistolario curato da Nicholas Shakespeare ed Elizabeth Chatwin, biografo ufficiale e moglie del grande scrittore inglese. È un po' un controsenso intitolare così un libro di Chatwin, per un motivo che si desume dalle stesse lettere risalenti ai primi anni Settanta. È proprio perché Chatwin non scrisse L'alternativa nomade che iniziò la sua avventura di artista supremo della parola, capace di invenzioni narrative che hanno suscitato una rete fittissima di risonanze nella prosa narrativa del nostro tempo.
Chi non ha preso qualcosa da Chatwin? Dopo un quarto di secolo dalla morte, ne riconosciamo puntualmente le tracce in decine di scrittori, alcuni degni del modello come W. G. Sebald o William Vollmann, e la maggior parte costretta a imitare senza mai trovare il segreto, la chiave d'accesso a quella magia. Sulle origini dell'impresa di Chatwin, l'epistolario ci apre degli scorci preziosi. L'itinerario che lo conduce nel 1977 a pubblicare il primo capolavoro, In Patagonia, è tutt'altro che rettilineo. Fin troppo ricchi di viaggi, di incontri, di letture rivelatrici gli anni dell'apprendistato sembrano protrarsi oltre il lecito. Varcata la linea d'ombra dei 35 anni, uno stato di perenne inquietudine può trasformarsi da elemento propulsivo in fattore di paralisi.
frammenti della recensione che Emanuele Trevi ha pubblicato sul
Sole24ore del 13/12/13

domenica 9 febbraio 2014

Uno dei grandi misteri della vita di uno scrittore

Uno dei grandi misteri della vita di uno scrittore è la trasformazione che avviene nel passaggio da romanziere inedito a edito. Se cercate un caso da manuale, guardate la carriera di Salman Rushdie. Eccolo in un'intervista del 2005: «Molti in quella generazione si erano già fatti strada come scrittori. Mi sorpassavano sfrecciando. Ian McEwan, Julian Barnes, Kazuo Ishiguro, Bruce Chatwin. Era un momento straordinario per la letteratura inglese, e io ero quello che restava sulla linea di partenza».

Sul Sole24ore di oggi una riflessione di Tim Parks sulla trasformazione che avviene in uno scrittore quando viene pubblicato e sulla fascinazione che gli scrittori esercitano sulle persone

sabato 8 febbraio 2014

La scrittura privata è il collaudo del romanzo

Ci sono scrittori che esistono nel nostro immaginario come immersi in un naufragio. Sappiamo che ci sono, riusciamo persino a intravederli ma la percezione che abbiamo di loro, fragile e incostante, più che dal nostro desiderio di continuare a interrogarli sembra dipendere dai movimenti caotici delle onde. A lungo accettiamo che sopravvivano come relitti; poi un giorno qualcosa cambia, il naufragio si fa più mite, dai marosi affiora una voce che sembrava perduta. Tra questi scrittori, perduti e poi all'improvviso ritrovati, 
c'è Julio Cortázar. Mentre si festeggiano i cinquant' anni dalla pubblicazione di Rayuela (in italiano Il gioco del mondo, probabilmente il suo capolavoro), 
nell'arco dell' ultimo anno si vive nel nostro Paese un ritorno d' attenzione nei confronti dello scrittore argentino naturalizzato francese.
(…)

Per le edizioni Sur, infine, esce Carta carbone. Lettere ad amici scrittori (curatela e traduzione di Giulia Zavagna), il primo titolo di quella che nel tempo, in forma di trilogia, sarà l'edizione dell'epistolario cortazariano. Accuratamente conservate dallo stesso scrittore tramite il ricorso sistematico alla carta copiativa, le lettere destinate, tra gli altri, a Borges, Fuentes, Galeano, Lezama Lima, Paz, Cabrera Infante, Vargas Llosa, Soriano, nel comporre una mappatura dei rapporti tra narratori fondamentali del secondo '900 sono soprattutto l'occasione per verificare che in Cortázar ogni esperienza di scrittura possiede un'intenzionalità autoriale. 
Come segnalato dalla curatrice nella prefazione, «il carteggio diviene una sorta di zona franca in cui realtà e finzione si mescolano»; il racconto personale di ciò che è accaduto o che è stato immaginato travalica l'argine della relazione privata valendo da spunto per future narrazioni. La scrittura privata, in sostanza, è sempre e inevitabilmente il collaudo di qualcosa che con molta probabilità diventerà racconto o romanzo. Per Cortázar l'affetto per il proprio interlocutore - un sentimento che si esprime anche come ironia, piglio critico, dissenso - è un naturale combustibile letterario. 
Mentre per noi leggere ancora le sue pagine, continuare ad abitare la sua voce, è il modo in cui, salvandolo e salvandoci da ogni eventuale naufragio 
dell'attenzione, si esprime l' affetto nei suoi confronti. 

recensione di Giorgio Vasta dedicata a Julio Cortázar
Repubblica 2 luglio 2013

venerdì 7 febbraio 2014

Il potere dell'immaginazione e il potere della memoria

L'immaginazione, diceva Malebranche, è la pazza di casa. 
Certo non è la smemorata di Collegno, visto che l' immaginazione è essenzialmente una modificazione della memoria, come diceva Vico («memoria dilatata e composta») e come ribadisce con ricchezza di argomentazioni e documentazioni Alberto Oliverio nel suo recentissimo Immaginazione e memoria (Mondadori Università). 
Nemmeno a Kant è riuscito di chiarire che cosa potrebbe essere una immaginazione totalmente produttiva, senza ritenzione e ripetizione. 
L'immaginazione pesca nel mondo, combina, e solo attraverso queste combinazioni crea. Alla creatività dell'immaginazione si presta benissimo il detto di Pascal posto in esergo (e in difesa) delle sue Pensées: «Non si dica che non ho detto niente di nuovo: nuova è la disposizione delle materie». 
Al tempo stesso, però, è proprio questa vicinanza con la memoria ciò che rende davvero enormi i poteri dell' immaginazione. 

incipit dell'articolo di Maurizio Ferraris 
Repubblica del 24 luglio 2013

giovedì 6 febbraio 2014

Scrivere è credere nella forza dell'immaginazione

… I miei romanzi e miei racconti sono a volte più fantastici, a volte meno. Ma la scrittura non cambia. In questo romanzo è stato come negli altri. Ho nuovamente sentito la stessa brezza: ricevo notizie dall'altra parte.

È sempre stato così?

La prima volta mi è successo con Nel segno della pecora, trent'anni fa. Ero seduto alla scrivania, quando di colpo è comparsa davanti a me una strana creatura, il pastore. Veniva dall'altra parte. Non sapevo chi fosse, né che cosa volesse da me. Sapevo però di averne bisogno. Mi stava arrivando una notizia. Quindi l’ho descritto. Di più non ho dovuto fare.

Come prende queste visioni? Lei è religioso?

No, ma credo nella forza dell'immaginazione. E che non c’è solo una realtà. Il mondo vero e un altro mondo irreale esistono entrambi, e sono strettamente collegati. Talvolta, si mischiano. E quando voglio, quando mi concentro con molta forza, posso passare all'altro. Posso anche andare e venire. Questo è ciò che accade nella mia narrativa. Le mie storie si svolgono qualche volta da una parte, qualche volta dall'altra. Ormai non sento la differenza.

È una sorta di spiritismo letterario?

È qualcosa che ha a che fare con la scrittura. Con le cose che mi vengono incontro nell'immaginazione e che mi aiutano a scrivere la storia. Possono essere unicorni, pecore, elefanti, gatti, ma anche l’oscurità o la musica. Tutto ciò acquisisce un’anima soltanto quando ne scrivo. È una forma di animismo. Le cose mi vengono incontro senza che io le richiami. Devo solo concentrarmi molto.

Lei parla di queste cose come se esistessero da sempre.

A volte mi sento un narratore della preistoria. Gli uomini che mi ascoltano stanno seduti in una caverna. Sono intrappolati perché fuori piove. Ma anch'io ci sono e racconto loro qualche storia. Sono circondato dall'oscurità, però quegli elementi spirituali stanno attorno a me, devo solo acchiapparli. So naturalmente quanto sia terribile la vita nella caverna. Il mio compito consiste quindi nel fare scordare quella vita a chi mi ascolta. È per questo che ho sviluppato una tecnica. Anche se alcuni sono convinti che non sia determinante, è solo grazie alla tecnica che una storia diventa anche una buona storia.

Come ha sviluppato questa tecnica?


Non l’ho imparata. Ho semplicemente scritto e continuato a scrivere con serietà. La mia tecnica si è sviluppata da sola.

frammenti dell'intervista a Haruki Murakami di Ronald Düker
Espresso 6 febbraio 2014

mercoledì 5 febbraio 2014

Le parole cambiano senso e tramontano

L'ultima immagine che mi cattura, dopo un paio d'ore trascorse con Tullio De Mauro, è lui alla finestra mentre fuma e io dal basso della strada che lo saluto. La scena si svolge in una stradina del quartiere Salario di Roma. 
Fa un cenno con la mano. Poco più che un movimento, come per dire ci sono, l'ho vista. Ma c'è davvero questo professore di 81 anni i cui pensieri sembrano portati sulla punta delle sue inconfondibili orecchie alate? Non so quanto quest'uomo abbia chiesto alla vita e ricevuto. Certo il successo accademico, i libri scritti (alcuni importanti), la politica, il ministero della Pubblica Istruzione, la Treccani, il premio Strega sembrano suggerire che a fine carriera il saldo sia largamente attivo. Eppure, tra le righe di questa esistenza tranquilla, si indovina un'irrequietezza smorzata dalla routine, una vita che va oltre quell'insieme di accorgimenti retorici con cui la si racconta, apparentemente senza dolore, senza spasmi, senza incertezze. Mi sforzo di trovare un punto di entrata, un passaggio a nord-ovest che renda questo impareggiabile cacciatore di parole anche un cacciatore di emozioni. Mi guarda, remoto ma al tempo stesso disponibile.

Com'è la vita di un linguista?
Non diversa da quella di tutti gli altri. La nostra deformazione, se così la si può chiamare, sono le parole. Scatta come un sesto senso quando queste mutano, trasformano il senso; alcune hanno successo, altre tramontano. Un po' come è la vita. Sono un termometro di ciò che accade nella società.

(...)

incipit della conversazione di Antonio Gnoli con Tullio De Mauro
Repubblica domenica 2 giugno 2013

martedì 4 febbraio 2014

Foglie che spuntano su un albero: come qualcosa di quasi detto

Qual è la differenza tra scrittura di testi jazz e fiction?
La musica esprime idee e trasmette significati in modo molto diverso dalla letteratura. Alla fine di un concerto il pubblico avrà impressioni e opinioni molto diverse sulle melodie ascoltate. La letteratura esprime idee, trasmette messaggi e significati in modo oggettivo. Se scrivo: "C'è una bottiglia di vino sul tavolo", questo passaggio esprime una realtà oggettiva. Se il mio amico Michael volesse esprimere la stessa immagine in musica, be' le lascio immaginare. La musica mi ricorda un passaggio di Philip Larkin: "Leaves coming on a tree: something almost being said..." (Foglie che spuntano su un albero: come qualcosa di quasi detto...", ndr). La stessa cosa avviene al cinema: il visivo è molto più oggettivo dell'astrazione musicale.

E il suo prossimo lavoro allora cosa sarà? Un libro o un altro libretto?
Sto preparando un nuovo romanzo, il protagonista è un giudice. Ma la gestazione come sempre sarà lunga: passo molto tempo a pensare, sono molto lento. Ma non c'è molto: c'è letteratura in abbondanza su poliziotti e spie di tutte le nazionalità, su studi di avvocati abilissimi e indomiti, ma quasi nessuno parla dei giudici. E invece i giudici e scrittori hanno un compito simile, in fondo: prendono decisioni che determinano destini umani.

frammenti della conversazione di Ian McEwan con Emilia Ippolito 
l'Espresso 13 giugno 2013

lunedì 3 febbraio 2014

Nel nuovo inverno che batte alla mia porta

La stessa rosa

Come acqua oscura bevo la torbida aria,
il vomere ha arato il tempo e la rosa
fu già terra.
Osìp Mandel’stam

Se la rosa fu già terra
e dall’aria torbida, dal sole
rinato alla terra ritornerà,
da quale inchiostro, da quale
carta nacquero quelle parole
così amate?
Come il legno genera fumo e
cenere dopo la fiamma,
così questa attesa divampa
nel nuovo inverno che batte
alla mia porta: imita il tuo
passo e scioglie il gelo che
assedia la mia fiamma e
la stessa rosa.

Elena Petrassi
Figure del silenzio
Atì editore 2010

domenica 2 febbraio 2014

Le parole riposano con te, l'unico che tocca il cielo

Lo sguardo

Devo levare gli occhi dalle orbite
stranite, posare le narici
sullo scranno accanto e le mani
tenerle nella borsa. Così solo
potrò permettere alla lingua
di aprire il suo dorso serpentino
verso il soffitto e i fumi delle
candele, nella volta più acuta dove
il silenzio non è mai chiaro. Qui
le parole si intrecciano in filamenti
d’incenso e riposano con te, l’unico
che tocca il cielo.


Elena Petrassi
Sillabario della luce
Moretti&Vitali 2007

sabato 1 febbraio 2014

Scrivere romanzi sull'avventura di scrivere romanzi

La verità come fantasia. Parlare di auto racconto è come parlare dell’amore. Ognuno ha il suo modo di intenderlo. Si usa il termine, comunque, per definire alcuni romanzi che stanno a metà tra autobiografia e narrazione, fra la cronaca verace di avvenimenti vissuti e la loro reinvenzione romanzesca. L’autore, vero o falso che sia, più o meno distorto, diventa protagonista della narrazione. In Italia, sulla scia dei reality, il genere ha preso la deriva terroristica e ricattatoria della storia vera. Orribile fraintendimento che ogni
scrittore dovrebbe combattere.

Javier Cercas è uno scrittore che ha ininterrottamente riflettuto sul suo mestiere. Tanto che le sue opere possono considerarsi romanzi sull'avventura di scrivere romanzi (rubando la definizione al titolo del bel libro intervista di Bruno Arpaia). Il personaggio Javier Cercas, infatti, entra nella narrazione e ne diventa punto focale: la sua ricerca della storia, nelle forme del reportage o del saggio storico, permette al lettore di condividere con lo scrittore il piacere di raccontare, di cercare risposte, di trovare coincidenze. Una fluida sensazione di
verità. Pier Paolo Pasolini, interpretando Giotto nel Decameron, si chiedeva: perché fare un’opera, quando è tanto più bello immaginarla?
Cercas gioca costantemente su questi due piani, mentre sulla pagina immagina l'opera, la costruisce. Chi meglio di lui quindi per parlare del coinvolgimento dell'io autoriale nella narrazione? Cercas accetta il tema e ne parla appassionatamente.    

Molti studenti dei corsi di scrittura creativa vorrebbero inserirsi nella
narrazione. È evidente che è un gioco meravigliosamente
romanzesco, ma oltre al piacere di condividere col lettore il processo
creativo, da dove nasce l’idea di inserire lei stesso come personaggio
nella narrazione?
Bisogna partire dicendo in via preliminare che tutta la fiction è autofìction, tutta la fiction è autobiografica. Lo scrittore usa la sua vita, i suoi sogni, le sue letture, le sue passioni per fare diventare il particolare universale. Ma esistono diverse strategie attraverso le quali si può usare la propria figura e queste diverse strategie dipendono dal libro che si sta scrivendo. In Soldati di Salamina, per esempio, il protagonista si chiama come me. Allora possiamo dire che sono io? No, non sono io: è una maschera che mi permette di dire
quello che voglio dire. Ma attenzione, la maschera per i Greci era la persona stessa. E la maschera è ciò ci nasconde e ciò che ci rivela. Faccio un esempio: se indosso una maschera da pirata, questa nasconde il mio vero volto, ma allo stesso modo rivela degli aspetti di me. Nel romanzo, il protagonista Javier Cercas dice che sta scrivendo una cronaca reale, ma non è vero anche se tutti i
personaggi sono veri e il protagonista sembra vero, perché la letteratura è scrivere una finzione più vera della realtà, che permette al lettore di scoprire una verità a cui non si arriva attraverso l'esperienza o il giornalismo o lo studio storico: una verità morale.
(…)
Frammenti della conversazione tra Alberto Garlini e Javier Cercas, terza delle Lezioni di scrittura del Fatto Quotidiano del 16 dicembre 2013

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