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giovedì 12 gennaio 2017

Leggo con lentezza, con scrupolo. Con difficoltà. Ogni pagina sembra leggermente coperta dalla foschia

La rinuncia


Scelgo Roma. Una città che mi affascina fin da piccola, che mi conquista subito. La prima volta in cui ci sono stata, nel 2003, ho provato un senso di rapimento, un’affinità. Mi sembrava di conoscerla già. Sapevo, dopo solo un paio di giorni, di essere destinata a vivere lì. A Roma non ho ancora amici. Ma non ci vado per far visita a qualcuno. Vado per cambiare strada, e per raggiungere la lingua italiana. A Roma l’italiano può accompagnarmi ogni giorno, ogni minuto.
Sarà sempre presente, rilevante. Cesserà di essere un interruttore da accendere talvolta, poi spegnere. Per prepararmi, decido, sei mesi prima della partenza, di non leggere più in inglese. D’ora in poi, mi impegno a leggere soltanto in italiano. Mi sembra giusto, distaccarmi dalla mia lingua principale. La ritengo una rinuncia ufficiale. Sto per diventare un pellegrino linguistico a Roma. Credo sia necessario che mi lasci alle spalle qualcosa di familiare, di essenziale.
A un tratto tutti i miei libri non mi servono più. Sembrano oggetti qualsiasi. Sparisce l’ancora della mia vita creativa, recedono le stelle che mi guidavano. Vedo, davanti a me, una stanza nuova, vuota. Ogni volta che posso, nello studio, sulla metropolitana, a letto prima di dormire, mi immergo
nell'italiano. Entro in un altro territorio, inesplorato, lattiginoso. Una specie di esilio volontario. Sebbene mi trovi ancora in America, mi sento già altrove. Mentre leggo mi sento un’ospite, felice ma disorientata. Come lettrice non mi sento più a casa. Leggo Gli indifferenti e La noia di Moravia. La luna e i falò di Pavese. Le poesie di Quasimodo, di Saba. Riesco a capire e al contempo non capire. Rinuncio alla perizia per sfidarmi. Baratto la certezza con l’incertezza. Leggo con lentezza, con scrupolo. Con difficoltà. Ogni pagina sembra leggermente coperta dalla foschia. Gli impedimenti mi stimolano. Ogni nuova costruzione sembra una meraviglia. Ogni parola sconosciuta, un gioiello.
Faccio un elenco di termini da controllare, da imparare. Imbambolato, sbilenco, incrinatura, capezzale. Sgangherato, scorbutico, barcollare, bisticciare. Dopo aver terminato un libro, mi emoziono. Mi pare un’impresa. Trovo il processo più impegnativo, eppure più soddisfacente, quasi miracoloso. Non posso dare per scontata la mia capacità di farlo. Leggo come facevo da ragazzina. Così da adulta, da scrittrice, riscopro il piacere di leggere. In questo periodo mi sento una persona divisa. La mia scrittura non è che una reazione, una risposta alla lettura. Insomma, una specie di dialogo. Le due cose sono strettamente legate,
interdipendenti. Adesso, però, scrivo in una lingua, mentre leggo esclusivamente in un’altra. Sto per ultimare un romanzo, per cui sono per forza immersa nel testo. Non è possibile abbandonare l’inglese. Tuttavia, la mia lingua più forte sembra già dietro di me. Mi viene in mente Giano bifronte. Due volti che guardano allo stesso tempo il passato e il futuro. L’antico dio della soglia, degli inizi e delle fini. Rappresenta i momenti di transizione. Veglia sui cancelli, sulle porte. Un dio solo romano, che protegge la città. Un’immagine singolare che sto per incontrare ovunque.

Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda 2015

giovedì 17 marzo 2016

Una vita da lettore forte e la felicità fatta di carta e parole che un libro è


Leggere libri crea dipendenza, comprare libri crea dipendenza. Niente di meglio da annusare di un bel libro di carta, niente di meglio che guardare i libri nella libreria e nelle incerte torri accanto al letto. È vero i libri compongono un paesaggio che non sta solo nei nostri occhi ma che ogni giorno ci aiuta a ricordare e definire chi siamo, da dove veniamo e dove vorremmo andare. A Milano ci sono molte belle librerie, ne hanno aperte di nuove che non ho ancora visto, ma la Feltrinelli di via Manzoni, la libreria Utopia e il Libraccio di Via Corsico in particolare, potrebbero darmi la carta di platino come miglior cliente! E dall’anno scorso ho iniziato a comprare libri su Amazon – Italia, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti perché a volte non resisto all'urgenza di avere tra le mani una novità e non voglio aspettare l’occasione di andare in libreria e perché i libri nelle altre lingue che leggo – inglese, francese e spagnolo – arrivano nel giro di pochi giorni o settimane e mi sembra inutile passare da una libreria fisica visto che a Milano, chiusa la Feltrinelli di piazza Cavour e fatto salvo per la Hoepli, proprio non saprei dove andare a procurarmeli i libri stranieri. Grande soddisfazione mi dà comprare libri su Maremagnum che è una libreria virtuale che aggrega centinaia di librerie non solo italiane. Ho comprato decine di libri anche da loro perché il gusto di un libro di seconda mano non somiglia a null'altro al mondo. A volte, quando sono molto fortunata, ci sono foglietti e annotazioni, dediche e riflessioni dei proprietari precedenti e questo rende per me quel libro ancora più prezioso. Il momento che amo più di tutti è quando mi arrivano i pacchetti e ogni volta è come se fosse la mattina di Natale quando avevo sei anni. Ho letto 13 ebook negli ultimi sei mesi, ho amato le storie che ho letto - tra gli altri 2 romanzi di Ian McEwan (perché io a un certo punto della mia vita abbia smesso di leggere McEwan è una domanda che ancora non ha risposte perché è uno scrittore che adoro e Sabato e Espiazione sono due capolavori assoluti) e uno di Clara Sanchez - ma da quando li ho letti penso che dovrei averli anche di carta. Mi sono mancati la sensazione tattile della carta, il peso nella mano, la copertina, poterli sottolineare e segnare e scrivere sui margini come faccio sempre quando leggo un libro che mi piace e scelgo citazioni per il mio blog. Mi è mancato il non poterli annusare e sfogliare e poi decidere se è un libro che vorrei rileggere, se non rileggerò mai ma voglio comunque tenere o se è un libro che potrei decidere di vendere al Libraccio o regalare alla biblioteca vicino a casa. Mi sono mancate le copertine, quelle bianche di Einaudi, quelle colorate di Adelphi, quelle eleganti dei libri di poesia di Crocetti e Atì. Gli ebook non hanno copertine e così quando i pochi lettori che incrocio in metrò ogni mattina leggono Kindle o Kobo, il non sapere cosa stanno leggendo un po’ mi scoccia. Giusto ieri c’erano due uomini coi capelli grigi che leggevano libri di carta: il primo, molto più alto di me, leggeva Anna Karenina di Tolstoj e non leggeva nella mente, ma compitava con le labbra e sussurrava parola dopo parola. L’altro, più basso di me, stava leggendo i racconti di Gianrico Carofiglio Non esiste saggezza e si è un po’ seccato perché ho continuato a girargli intorno finché non sono riuscita a vedere la copertina del libro. Sono contenta quando incontro gente che legge in metropolitana anziché sfogliare compulsivamente facebook o fare qualche giochino. Qualche settimana fa ho addirittura incrociato una signora che leggeva Proust in francese e un ragazzo che leggeva il Don Chisciotte. Anche io, come quasi tutti i lettori forti, quando scopro uno scrittore che mi piace divento un temibile lettore seriale. Devo leggere tutto quello che è stato pubblicato e se ci sono in circolazione biografie, autobiografie, epistolari, carteggi, saggi critici devo leggere pure questi e sono in preda alla frenesia più assoluta fino a che non ho finito. Mi era accaduto con Simone de Beauvoir e Grazia Livi, con Colette, con Sylvia Plath, con Rimbaud e Baudelaire, Proust e Marie Cardinal, con Alberto Moravia e Eugenio Montale, con Katherine MansfieldVirginia Woolf e Marina Cvetaeva, tra gli altri, quando ero ragazza e via via negli anni  con Irène Némirovsky, Gianrico Carofiglio, Alicia Gimenez Bartlett, Agota Kristof e Paul Auster (e qui chiudo la lista perchè forse mi converrebbe allegare la Garzantina della Letteratura).
Leggere è una delle cose che più amo al mondo, i libri sono tra i miei oggetti preferiti. E credo che il segreto di ogni lettore forte stia nella felicità fatta di carta e parole che un libro è. È una felicità fatta dalla consapevolezza di appartenere a una vasta comunità di lettori e scrittori che conversano e crescono, maturano, amano, imparano, pensano e si divertono attraverso il tempo e lo spazio. Se il tempo è la quarta dimensione i libri sono la quinta, ogni libro è un mondo da scoprire e condividere. Ogni libro scritto è un dono al mondo, ogni libro letto è la felicità della condivisione. I primi due libri da “grandi” di cui sono diventata proprietaria sono stati il libro de poemas


di Federico Garcia Lorca e un vocabolario Zingarelli. 




Le poesie le leggevo senza capire le metafore, avevo sette anni, e il vocabolario lo leggevo in ordine alfabetico. Mi piace pensare che questi due libri abbiano fatto scoccare la scintilla che mi ha spinto non solo a diventare un lettore forte ma anche a scrivere e non solo poesie – ho pubblicato tre libri sinora -  ma anche romanzi, di cui uno solo edito per il momento, e scrivere i profili delle scrittrici che amo per l’Enciclopedia delledonne e recensioni per varie riviste, blog e siti. 







Ha ragione Umberto Eco quando scrive che leggere è un’immortalità all'indietro e George R. R. Martin quando dice che leggere è vivere mille vite. Non so se riuscirò a leggere tutti i libri che ho comprato e che mi hanno regalato prima di morire. Ma non ci penso, sono troppo impegnata a leggere.

E. P.

venerdì 29 gennaio 2016

C’è fra di noi qualcosa che è meglio dell’amore: è una complicità

Spero che questo libro non venga mai letto.

*
* *

C’è fra di noi qualcosa che è meglio dell’amore: è una complicità.

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Assente, il tuo volto si dilata tanto da colmare l’universo. Passi allo stato fluido, quello dei fantasmi. Presente, si con-densa; e raggiungi la concentrazione dei metalli più pesanti, l’iridio, il mercurio. Mi fa morire, quel peso, cadendomi sul cuore.

Marguerite Yourcenar
Fuochi
traduzione di Maria Luisa Spaziani
Bompiani 2001

Questo è l'incipit di questo piccolo libro impreziosito da una prefazione dell'autrice e dalla traduzione della poetessa Maria Luisa Spaziani.
Ho deciso che un po' alla volta, seguendo il filo dei ricordi, copierò gli incipit dei libri che ho letto.
Sono tanti, tantissimi, più di quanti non immaginassi. 
Ma quei libri sono parte di me, sono parte della mia architettura interiore.
A chi può interessare i libri che ho letto? A tutti e a nessuno.
Ma a volte basta una piccola suggestione, una citazione che suscita in noi una curiosità,  un desiderio, una nostalgia ed ecco che il mondo si apre su nuovi significati. Anche per questo leggo molto e anche per questo restituisco parte dello stupore e del significato che i libri mi donano su questo blog.

Elena Petrassi



mercoledì 13 gennaio 2016

Ispirarsi e cibarsi di altri scrittori prima di iniziare a scrivere

A otto anni da Olive Kitteridge, con il quale vinse il premio Pulitzer, e a meno di tre da I Fratelli Burgess, esce oggi negli Stati Uniti il nuovo romanzo di Elizabeth Strout, intitolato My name is Lucy Barton (in Italia uscirà a maggio tradotto da Einaudi). Il libro è stato preceduto da un’unanimità di critiche osannanti, che consacrano l’autrice del Maine come una delle voci più sincere e appassionanti dell’universo letterario contemporaneo. La finezza e la sensibilità con cui immortala ancora una volta ritratti indimenticabili di donne invita a interrogarsi se esista una letteratura prettamente femminile: in questo caso le protagoniste sono una madre e una figlia, riavvicinate
da una grave malattia. Nell'universo di Elizabeth Strout la condivisione, la confidenza e anche l’amore sembrano nascere unicamente attraverso il dolore, e anche i rapporti più intimi possono sopravvivere solo in virtù del perdono delle nostre debolezze. Da questa concezione scaturisce un sentimento nel quale la speranza si mescola alla malinconia, che rifiuta tuttavia il sentimentalismo: Claire Messud ha definito il romanzo sul New York Times, «potente, malinconico e squisito» e il Kirkus Review ha parlato di un libro «magistrale» e «pieno di poesia»
(...)

Esiste una scrittura squisitamente femminile?
«Molti non saranno d’accordo, ma io non penso affatto che sia così: un autore, maschio o femmina, quando è grande, è in grado di raccontare anche l’altro sesso. Io penso che le pagine di Alice Munro o Margaret Atwood siano semplicemente alta letteratura, e non parlerei di letteratura femminile ».

Direbbe lo stesso di Jane Austen?
«Riconosco che lei è forse un’eccezione: nel suo caso si sente in maniera prepotente lo sguardo femminile. Ma anche in quel caso vedo prima la grandissima autrice, poi il sesso».

Ci sono scrittrici che l’hanno ispirata?
«Certamente, ma anche scrittori: oltre alla Munro, faccio il nome di William Trevor, del quale mi sono cibata fin quando non mi sono sentita in grado di scrivere ».

Esistono autori che ammira, che trattano temi molto lontani dai suoi?
«Si molti, e voglio citare una donna: Elena Ferrante. Ne ho grande ammirazione, ma non potrebbe esistere autrice più diversa. E circola anche la voce che potrebbe essere in realtà un maschio ».

frammenti dell'intervista di Antonio Monda a Elizabeth Strout su Repubblica di oggi

mercoledì 6 gennaio 2016

Se volete diventare uno scrittore prima leggete questi libri

Nel 1934 il giovane aspirante scrittore Arnold Samuelson andò a trovare Ernest Hemingway a Key West. Tra le molte cose che accaddero Hemingway diede a Samuelson la lista dei libri che ogni aspirante scrittore avrebbe dovuto leggere.

Questa è la lista:


  1. The Blue Hotel di Stephen Crane
  2. The Open Boat di Stephen Crane
  3. Madame Bovary di Gustave Flaubert
  4. I Dublinesi di James Joyce
  5. Il Rosso e il Nero di Stendhal
  6. Of Human Bondage di W. Somerset Maugham
  7. Anna Karenina di Lev Tolstoj
  8. Guerra e Pace di Lev Tolstoj
  9. I Buddenbrook di Thomas Mann
  10. Hail and Farewell di George Moore
  11. I Fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij
  12. The Oxford Book of English Verse
  13. The Enormous Room di E.E. Cummings
  14. Cime Tempestose di Emily Brontë
  15. Far Away and Long Ago di W.H. Hudson
  16. The American di Henry James
La storia di questo incontro e le riflessioni che ne scaturirono vennero scoperte dalla figlia di Samuelson dopo la sua morte.




sabato 8 agosto 2015

la poesia è quello che, in modo misterioso e accorto, resta

“Corridoio degli arrivi, crisi, estate dura”. Cocci e Frammenti, la tua ultima silloge, apre così. Nella tua poesia c’è un’abitudine alla frantumazione e, nello stesso tempo, un’attenzione ai resti. Resti di stelle, resti di parole, resti animali e umani. Dalle terre emerse sono rimasti cocci e frammenti? Che cosa vuol rappresentare la tua poesia oggi?
Spero proprio che non siano rimasti soltanto cocci e frammenti, anche se ogni tanto posso avere la tentazione di temerlo. Il fatto è che i “Cocci e frammenti” sono solo una piccola parte del lavoro recente, successivo a “Corpo stellare” e non ancora concluso. Appartengono a quella famiglia di testi che in me registrano qualche aspetto più materico, e talvolta più greve, della realtà. Di solito, questa modalità riesce poi a dialogare con l’altra, di natura diversa e meno implicata con la materia; chissà se anche stavolta sarà possibile.
Come hai iniziato a conoscere la poesia?
Ho iniziato da ragazzo, un po’ grazie alla scuola,  ma soprattutto grazie alle poesie di Dylan Thomas, che è stato credo il primo autore che ho letto per conto mio. Accanto a lui imparavo a conoscere un pochino Leopardi, Baudelaire, Pascoli e Montale. Poi è venuto il resto, adagio adagio. Ma il punto di partenza credo sia stato quello, insieme a qualche disavventura personale che mi ha spinto, in qualche modo misterioso, verso la poesia.
incipit dell'intervista di Maria Zanolli a Fabio Pusterla apparsa il 12 aprile 2013 su Nuovi Argomenti

giovedì 7 maggio 2015

Un album di ritratti che è il ritratto di Gianna Manzini

Quando scopro o riscopro una scrittrice o uno scrittore che mi catturano divento ossessiva e non ho pace sino a quando non avrò letto la sua opera completa. Posso fermarmi, tornare indietro, appassionarmi e pentirmi, ma non cedo fino all'ultima parola. Poi è la volta delle biografie e autobiografie, dei diari, degli epistolari, dei profili critici. E tutto questo paesaggio di libri va poi a popolare un ripiano della libreria perché i libri di uno scrittore amato sono un mondo che deve essere contiguo e completo. Ora compiere questa operazione, che ha una sua logica e un suo intrinseco piacere, diventa sempre più difficile perché nel tempo gli scrittori e le scrittrici che mi accompagnano sono diventati via via più numerosi ma oggi ho la necessità di trovare spazio per un'autrice "totale" che mi sta incantando e che in passato ho un po' snobbato ma che ho deciso di riprendere in mano leggendo il profilo che le ha dedicato Grazia Livi nel bellissimo Le lettere del mio nome. Così ho iniziato a comprare vecchie edizioni - cosa c'è di più bello di una vecchia edizione? - dei libri di Gianna Manzini su Maremagnum, che è una libreria di librerie dove si trova l'introvabile, avendo una smodata passione per i libri di carta, soprattutto se stampati nel secolo scorso. Così ho iniziato a leggere il suo Album di ritratti che è un capolavoro ricchissimo, strabordante di riflessioni sulla scrittura e sul mestiere di scrivere e una galleria di ritratti degli scrittori e delle scrittrici amate che spesso furono anche suoi amici nella prima parte e di persone qualunque nella seconda e "parole povere" sulla "diciamo vocazione", "diciamo mestiere" della terza. Gli scrittori di cui uno scrittore scrive entrano a far parte della sua biografia, della sua opera e di quel canto e controcanto che rimanda da un'opera all'altra, di quel dialogo che varca il tempo e lo spazio e che è una delle esperienze più ricche che la vita ci offre. Così la Manzini sta ora con Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Grazia Livi, Agota Kristof, Simone de Beauvoir, Marie Cardinal, e la Plath e la Sexton e Janet Frame e qui mi fermo per non rendere infinita la mia lista che è comunque desumibile dalle "etichette" di questo blog. Amo e ho bisogno di parole scontornate e pesanti come cose, di raccogliermi l'anima e di tenerla in fronte come la lampada dei minatori, per poter entrare nel cerchio di chiarità che la vita ci offre anche quando leggiamo e quando scriviamo. Così andrò avanti e, mano a mano che entrerò in questo libro della Manzini e delle sue parole, a copiarne frammenti per questo blog che è diventato come uno scrigno dei pirati, pieno di tesori che scelgo e getto nell'oceano come un messaggio in bottiglia, perché raggiungano altri lidi e altri lettori.

E.P.

giovedì 23 aprile 2015

Per imparare a scrivere dobbiamo incontrare il messaggero del nostro fallimento

Ho anche sentito colleghi affermare di non riuscire a leggere mentre lavorano a un proprio libro, per paura che Tolstoj o Shakespeare possano influenzarli. 
Io ho sempre sperato di essere influenzata da loro e mi chiedo se avrei intrapreso la carriera letteraria con tanto entusiasmo se ciò avesse significato non poter leggere per tutto il tempo che può essere necessario a completare un romanzo.
A dire il vero, alcuni autori, mettendo in luce tutti ii difetti del nostro lavoro di scrittori, ci costringono a fermarci. Ognuno di noi incontrerà il messaggero del proprio fallimento, un talento geniale, del tutto innocente, scelto per ragioni legate alle inadeguatezze che sentiamo di avere. 
L'unico rimedio che ho trovato per questo incontro è leggere un autore con una produzione completamente diversa, anche se non necessariamente più simile alla nostra: questa differenza servirà a ricordare quanto sono numerose le stanze nella casa dell'arte.

Francine Prose
Leggere da scrittore
traduzione di Jusi Loreti
Dino Audino editore 2014

sabato 6 dicembre 2014

Susan e Thomas si incontrano sulla montagna incantata

Leggere e ascoltare musica: trionfi del mio uscire da me stessa. Che quasi tutto ciò che ammiravo fosse prodotto da persone che erano morte (o vecchissime) o provenienti da un altro luogo, idealmente l'Europa, mi sembrava inevitabile.
Accumulavo dèi. Ciò che Stravinskij era per la musica, Thomas Mann lo diventò per la letteratura. Nella mia grotta d'Aladino, la Pickwick, l'11 novembre 1947 - prendendo in questo momento il libro dallo scaffale trovo la data scritta sulla pagina di risguardo in quel carattere corsivo che andavo allora praticando - comprai La montagna incantata
Lo iniziai quella sera, e per le prime sere ebbi problemi a respirare mentre leggevo. Perché quello non era semplicemente un altro libro che avrei amato, ma uno di quei libri che trasformano, una fonte di scoperte e riconoscimento.
L'Europa intera fece irruzione dentro la mia testa - a patto però che iniziassi a celebrarne il lutto.

Susan Sontag
Pellegrinaggio
traduzione di Paolo Dilonardo
Archinto 1995

sabato 1 marzo 2014

Uno scrittore calmo, disciplinato, molto metodico

Leggeva molto?
"Moltissimo. Amava soprattutto William Shakespeare, Thomas Hardy, W. B. Yates, Robert Penn Warren. Pensi che da ragazzino, in Texas, vinse un premio di una biblioteca vicino alla sua cittadina natale, Clarksville, per esser stato l'utente che aveva consultato più libri in un anno".

E come scriveva Williams? Quali erano le sue abitudini?
"Era uno scrittore calmo, disciplinato, molto metodico. Odiava rivedere, modificare i suoi testi. In genere, cominciava a scrivere al mattino presto, dopo aver preso il caffè con me. Scriveva per tre-quattro ore, per produrre una pagina al giorno, a volte anche tre. Poi, a sera, rientrava nel suo studio per altre due-tre ore a pianificare la scrittura del giorno dopo. E poi c'era l'orto".

L'orto?
"Sì, aveva un enorme orto tutto suo, di circa 120 metri quadri. Quando aveva il "blocco dello scrittore", andava lì e lo curava un po'. Amava il giardinaggio perché per lui era mindless, una cosa meccanica, senza sforzi mentali".


frammenti dell'intervista di Antonello Guerrera a Nancy Gardner, moglie dello scrittore John Edward Williams autore del meraviglioso Stoner pubblicato da Fazi nel 2012
Repubblica 28 febbraio 2014

lunedì 11 novembre 2013

La vera letteratura secondo André Aciman


Quali altri scrittori l'hanno influenzata?
«A parte Marcel Proust e Jane Austen, l'autore che ha plasmato la mia scrittura è Dostoevskij. Adoro la sua capacità di penetrare l'animo umano fin dal primo sguardo, come avviene ne L'idiota, dove i personaggi si analizzano costantemente a vicenda. Henry James, che pure amo, non è mai stato capace di arrivare a tanto. Il mio scrittore preferito è però Tucidide
La Guerra del Peloponneso è il libro che prediligo in assoluto, perché al centro dell'opera non vi è soltanto una tragedia storica, ma anche le sue motivazioni umane. Non mi piace invece Tolstoj, perché penso sia superficiale».

Che cosa pensa degli scrittori contemporanei?
«La vera letteratura si è fermata a Max Sebald e al suo Austerlitz, il libro
più autorevole degli ultimi 40 anni. Il resto ? la generazione dei Safran Foer, Jonathan Franzen, Toni Morrison, Jonathan Lethem, persino Orhan Pamuk non è degno di menzione, incluso Philip Roth, con le sue opere futili e dal linguaggio poco ricercato. In questo mi sento in perfetta sintonia col brillante ed esigentissimo Harold Bloom: anch'io non tollero l'idiozia e m'interesso soltanto all'eccellenza». 

Perché un giudizio così severo?
«Oggi non esistono più scrittori, soltanto prosatori incapaci di raggiungere, come si faceva un tempo, il livello aulico della poesia. Le opere contemporanee non insegnano più nulla ai lettori. Sembrano tutte reportage di cronaca, oppure sceneggiature di film. Neppure i cosiddetti grandi si salvano. Penso a Ernest Hemingway: un pessimo scrittore che ha rovinato intere generazioni di giovani autori, convinti che il suo stile fosse da imitare».

Quali autori allora consiglia ai suoi studenti della City University di New York? 
«Stendhal, Dostoevskij e Flaubert: maestri delle lettere che, a differenza dei contemporanei, erano tutti eruditi. Oppure i due grandi della letteratura italiana del XX secolo: Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Italo Svevo. 
Il Gattopardo è un capolavoro, anche se all'inizio fu bocciato da Elio Vittorini, un altro scrittore che amo molto. I primi romanzi di Svevo non sono in realtà molto interessanti, a parte Una Vita e Senilità. La coscienza di Zeno è
un bellissimo libro, ma più francese che italiano. E poi Cesare Pavese: preferisco La bella estate a La luna e i falò. Anche Gli indifferenti di Alberto Moravia è uno splendido romanzo, ma lui come scrittore non è abbastanza complesso».

frammenti dell'intervista di Alessandra Farkas a André Aciman
Corriere della Sera 10 agosto 2013

mercoledì 28 agosto 2013

Scrivere è dare ordine al proprio universo

Signora Egan, lei ha scelto la letteratura o è stata la letteratura a scegliere lei?
«Una combinazione di entrambe le cose. Da una parte ci sono una serie di esperimenti che vorrei fare come scrittrice, dall’altra non riesco a trovare la voce adatta. Quindi, spesso è il testo a scegliere me, non basta la mia volontà a dare forma a idee che vorrei mettere in atto. E ancora ci sono temi, spunti, progetti che vorrei che mi scegliessero, ma questo non accade».

Perché scrive?
«Per creare un collegamento profondo tra me stessa e il mondo, un relazione spirituale che dà un senso maggiore 
alla mia vita. Se non scrivo provo un senso di vuoto: scrivere dà un ordine al mio universo. E al mio posto nel mondo».

Il romanzo classico: un’icona da distruggere o un punto da cui partire in cerca di nuove forme?
«È nella natura del romanzo essere manipolato. Anzi, lo chiede. Mia madre era una mercante d’arte, e quando incontrava astrattisti, chiedeva sempre se fossero partiti dal realismo: voleva essere sicura che avessero compiuto una scelta radicale sulla base di un’effettiva competenza. Io, con i miei romanzi, ho sovvertito la tradizione ma non l’avrei mai potuto fare senza lavori con una struttura classica. La mia scrittura è influenzata da De Lillo, la Oates, Robert Stone ma anche Edith Warton, George Eliot, Dante Puskin, Byron»


frammenti dell'intervista di Fulvio Paloscia a Jennifer Egan
da Repubblica del 13 giugno 2013
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martedì 27 agosto 2013

Scrivere è cercare i propri maestri nella tradizione

in linea con le affermazioni di Kundera dei giorni passati.

L'originalità, diceva un suo grande conterraneo, Gaudí, "è ritornare alle origini"...
"E le ricordo che quell'architetto geniale ha detto anche che nel campo dell'arte "bisogna sempre fare l'addizione, mai la sottrazione". Ciò significa che ogni cultura non è mai esclusivamente spagnola, portoghese, francese, italiana, tedesca, inglese, né esclusivamente europea, ma è il frutto di diverse civiltà. Ogni lingua, ogni letteratura, ogni cultura è sempre ibrida ! Il vero genio è colui che ha radici dappertutto!".

Si tratta di una nozione antiromantica. In genere si pensa che il genio crei tutto solo. Invece è esattamente il contrario: crea con intere tradizioni..."Tutto quello che ho fatto dagli anni Sessanta del secolo scorso, al contrario di molti miei celebri colleghi sempre a caccia di discepoli, è stato mettermi alla ricerca dei miei padri: Juan Ruiz, San Juan de la Cruz, Cervantes, Quevedo, Blanco White, Flaubert, Cernuda... Tutti costoro sono miei contemporanei".


frammenti dell'intervista di Massimo Rizzante a Juan Goytisolo
su Repubblica del 17 agosto 2013

domenica 2 giugno 2013

La gioia di scrivere

Piacere. Gusto, Com'è raro sentire usare queste parole. Com'è raro vedere la gente vivere o, a proposito, creare, sottomettendosi a loro. 
Eppure se mi chiedessero di nominare i principali componenti della natura di uno scrittore, le cose che formano il suo materiale e lo spingono lungo la strada per la quale vuole andare, io potrei solo consigliare di seguire il proprio piacere, il proprio gusto.
Avete il vostro elenco di scrittori preferiti; io ho il mio. 
Dickens, Twain, Wolfe, Peacock, Shaw, Molière, Jonson, Wycherly, Sam Johnson. 
Poeti: Gerard Manley Hopkins, Dylan Thomas, Pope.
Pittori: El Greco, Tintoretto.
Musicisti: Mozart, Haydin, Ravel, Johann Strauss (!).
Pensate a tutti questi nomi e penserete a grandi o piccoli, nondimeno importanti, piaceri, appetiti, desideri. 
Pensate a Shakespeare e a Melville e penserete al tuono, al fulmine, al vento.
Conoscevano tutti la gioia di creare in forme grandi o piccole, su canovacci illimitati o ristretti. Questi sono i figli degli dei. Conobbero la gioia nel proprio lavoro. Non importa se la creazione arrivò con difficoltà, qui e là lungo la strada, o se le malattie e le tragedie toccarono le loro vite più intime. Le cose importanti sono quelle che ci sono arrivate dalle loro mani e menti, e queste scoppiano di vigore animale e vitalità intellettuale. I loro odi e i loro sconforti sono stati trattati con una specie di amore.
Guardate l'allungamento di El Greco e ditemi, se potete, che non provava gioia nel suo lavoro. Potete veramente sostenere che Dio che crea gli animali dell'universo del Tintoretto è un lavoro fondato su altro che non sia il "divertimento", nel senso più ampio e più pienamente sviluppato del termine?
Il Jazz migliore dice "Gonna live forever; don't believe in death". (Vivrai per sempre, non credere alla morte).
E la migliore scultura, come la testa di Nefertiti, dice e ripete "La Bellezza è stata qui, è qui, e sarà qui per sempre". 
Ciascuno degli uomini che ho nominato ha raccolto un pizzico di argento vivo dalla vita, l'ha conservato nel tempo e ha costretto, nella fiamma della propria creatività, a voltarsi verso di esso e dire "Non è forse bello?". Ed era bello.
Cos'ha a che fare tutto ciò con lo scrivere i racconti dei nostri tempi?
Solo questo: se scrivi senza piacere, senza gusto, senza amore, senza divertimento, sei solo un mezzo scrittore.
Significa che sei così occupato a tenere d'occhio il mercato o a prestare orecchio al versante avanguardistico, che non sei te stesso. Non conosci neanche te stesso. 
Prima di tutto uno scrittore dev'essere, è, agitato.
Dev'essere una cosa di febbri e entusiasmi.
Senza questa forza, farebbe bene a uscire a raccogliere pesche o a scavare dei fossi. Dio sa che sarebbe meglio per la sua salute.
Quanto tempo c'è voluto perché voi scriveste una storia dove il vostro vero amore e il vostro vero odio finissero sulla pagina? Quand'è stata l'ultima volta che avete avuto il coraggio di abbandonare un pregiudizio che vi è caro e allora la pagina è stata come illuminata da un fulmine? Quali sono le cose migliori e le peggiori della vostra vita, e quand'è che comincerete a sussurrarle o a gridarle?

Ray Bradbury
La gioia di scrivere in
Lo zen nell'arte della scrittura
Libera il genio creativo che è in te
traduzione di Paolo Nori e Salim Catrina
DeriveApprodi 2000

mercoledì 3 aprile 2013

Imparare a scrivere con Shakespeare

Lei viene lodata per il suo stile, non solo perché racconta i Tudor con il tempo presente, ma perché scrive straordinariamente bene. Dove o come ha imparato?
«Da Shakespeare. Sembra un cliché, ma è così. Sono cresciuta in una casa senza libri, ma anche lì a un certo punto entrò non so come una vecchia edizione del Giulio Cesare di Shakespeare. Ricordo ancora quando lessi la scena in cui Marco Antonio, con il corpo di Cesare appena ucciso, spinge la folla contro Bruto e Cassio. Tutto quello che ho scritto viene da quella scena, il potere di un leader carismatico sulla folla, l'arte della retorica, il punto della svolta in cui tutto cambia».

Ma a parte il Bardo, chi l'ha ispirata?
«Ho letto di tutto, tanto, voracemente, storia, poesia, narrativa. Ma i miei contemporanei li ho letti tardi, solo quando ero già adulta».

Le piace Jane Austen, nel duecentesimo anniversario di Orgoglio e pregiudizio?
«Mi piacciono la sua sottigliezza e il suo umorismo. Ma più di tutto, in Orgoglio e pregiudizio, mi piace Lidia, la storia della sorella che scappa e ne combina di tutti i colori. Ha ragione lei, sono attirata più dai cattivi che dai buoni».

E Virginia Woolf?
«Amo i suoi diari, ma non i suoi romanzi. Mi interessa di più la sua vita che le sue storie. Leggendole divento impaziente, vorrei meno emozione, più azione. Ma forse non ero ancora pronta per la Woolf. Forse un giorno lo sarò».

Che cos'ha di diverso una scrittrice da uno scrittore?
«Per conto mio, niente. Certo quando scrivi trasporti sulla pagina una parte di te stesso. Ma la migliore scrittura avviene quando la tua personalità viene spazzata via. Ho letto di un famoso scrittore inglese che si fa mettere uno specchio davanti alla scrivania, mentre scrive. Ebbene io, al contrario, indosserei una maschera per scomparire, diventare un'altra. Ma non ne ho bisogno, perché indosso una maschera virtuale».

frammenti dell'intervista a Hilary Mantel di Enrico Franceschini su Repubblica del 3 aprile 2013in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo 
Anna Bolena, una questione di famiglia
traduzione di Giuseppina Oneto
Fazi editore 2013


martedì 19 febbraio 2013

Il mattino di uno scrittore


Dall’intervista di Leonetta Bentivoglio allo scrittore israeliano Amos Oz, che riprende alcuni temi narrati nel libro autobiografico Una storia d’amore e di tenebra, su Repubblica di oggi:

«Mi sveglio ogni mattina un po’ prima dell’alba e cammino per quaranta minuti nel deserto, inspirandone l’aria secca e pulita, e ascoltando il silenzio. Tutto, lì, assume giuste proporzioni. Quando torno a casa, accendo la radio e sento un politico che pronuncia parole come “mai” o “per sempre” o “per l’eternità”. Allora so che le pietre del deserto stanno ridendo di lui.»

(…)

È possibile rintracciare un tema centrale nella sua produzione?
Se mi si punta una pistola alla tempia, e vengo costretto a rispondere con un’unica parola, dico che il soggetto di tutti i miei romanzi è la famiglia. Se mi concede due parole, le dirò: famiglie infelici. La stranezza dell’istituzione familiare mi affascina. Noi, per natura, non siamo monogami. Eppure quella cosa innaturale chiamata famiglia passa incessantemente da una generazione all’altra. Con ostacoli, difficoltà, rotture. Ma dopo migliaia di anni esiste ovunque, nell’Iran degli ayatollah e nel Greenwich Village post-moderno, tra gli zulu africani e tra gli esquimesi del Polo Nord. È tutta la vita che inseguo questo mistero.
Non solo lei: la letteratura israeliana ne sembra catturata. Basti pensare ai romanzi di Yehoshua, di Grossman…
Nella cultura ebraica la famiglia è l’istituzione centrale. Non la Chiesa, non il Papa, non Dio: la famiglia. Ogni cosa succede intorno alla tavola familiare, dove per esempio si leggono i testi sacri.
Come spiega che in un paese piccolo come Israele ci sia una forte concentrazione di grandi scrittori?
Forse perché abbiamo una lingua che è un miracolo degno di essere esplorato continuamente. Per diciassette secoli l’ebraico è stato una lingua morta, come il latino o il greco antico, ma circa centoventi anni fa è tornato a vivere. Oggi le persone volano sui jumbo in ebraico, fanno i chirurghi in ebraico, lanciano i satelliti in ebraico. È un linguaggio che allo scrittore dà molta libertà, e accoglie sempre nuove parole. È dinamico. È come l’inglese elisabettiano. Un vulcano in eruzione, un terremoto, una lava incandescente. Per di più, in questa lingua in perpetua evoluzione, l’eco della Bibbia resta ovunque.
C’è stato qualcuno, in principio, che le ha trasmesso l’amore per il racconto?
Mia madre era una grande narratrice. Le sue storie della buonanotte erano prodigiose. Gotiche, oscure. Ne aveva un patrimonio inesauribile. E le inventava al momento, come in un flusso.
E la biblioteca di suo padre? È stata anch’essa determinante?
Ne ho un ricordo mitico. Vivevamo in un angusto appartamento a pianoterra, era un po’ come stare in un sottomarino. Ma era pieno di libri che io leggevo in modo ossessivo e indiscriminato, perché non avevo altro da fare. Gli inglesi imponevano il coprifuoco nelle strade di Gerusalemme, perciò la sera non si poteva uscire. Non avevo né fratelli, né sorelle. Sognavo di diventare io stesso un libro, forse perché i libri sopravvivono sempre allo sterminio.


lunedì 18 febbraio 2013

Il potere di qualcosa al tempo stesso immaginato e reale

Perdere e ritrovare la fede nella narrativa?
Accade anche agli scrittori. Ecco uno stralcio da un articolo di 
Ian McEwan su Repubblica di oggi.

"Ho un ricordo di quand'ero bambino, nel quale accarezzo un dettaglio in un romanzo. Ricordare il momento è un altro modo di ritrovare la fede nella narrativa. Fu un' esperienza ipnotica, che ha avuto delle conseguenze per tutta la vita, perché mi mostrò come il mondo fattuale e quello narrativo possono penetrarsi l'un l' altro. Avevo tredici anni, ero solo nella biblioteca scolastica, incantato da Messaggero d' amore, il romanzo di L. P. Hartley. Il suo protagonista, Leo, di famiglia povera, trascorre l'estate del 1900 in vacanza con un compagno di scuola la cui famiglia possiede una grande villa in campagna. Il cuore della vicenda, naturalmente, è il ruolo di Leo come messaggero in una storia d' amore clandestina. Ma ciò che mi attrasse fu 
l'ondata di calore di quel mese di luglio, e l'attrazione di quel ragazzino per il termometro della serra e come potesse raggiungere i 100 gradi Fahrenheit. Un giorno arriva alla villa una copia del settimanale satirico, Punch, dove una vignetta mostra "Il signor Punch sotto l' ombrello si asciuga la fronte, mentre il cane Toby, con la lingua di fuori, si affloscia dietro di lui". Ricordo di aver messo da parte il libro, con mossa ispirata, e di avere attraversato la biblioteca per andare a cercare lo scaffale dove erano riposte le vecchie copie rilegate di Punch, di aver tirato giù il volume del 1900 cercando il mese di luglio. Ed eccoli lì, il cane sovraccaldato, l'ombrello e il signor Punch che si preme un fazzoletto sulla fronte! Era vero. Ero rapito, esultante per il potere di qualcosa al tempo stesso immaginato e reale. E per un attimo, provai una singolare tristezza, la nostalgia per un mondo dal quale ero escluso. Per un momento, ero stato Leo, avevo visto ciò che lui aveva visto, poi mi trovai di nuovo nel 1962 ed ero in collegio, e non c'erano amanti tra cui fare la spola, nessuna ondata di calore, e non restava che questo, una rivista ingiallita. Allora non potevo capirlo così, ma avevo visto come il realismo può essere potenziato da ciò che accade davvero. Venti anni dopo, l'ho sperimentato personalmente. Cose che non sono mai accadute possono mescolarsi con cose successe, una creatura immaginaria può prendere per mano la realtà in carne ed ossa, può vivere in casa tua, come il mio Henry fece una volta, può leggere tutto ciò che hai letto e perfino fare l' amore con tua moglie. L'ateo può riposare con il credente, l'enciclopedia con la poesia. Tutto ciò che hai assorbito e di cui ti sei stupito nei mesi privi di fede (la scienza, la matematica, la storia, la legge e tutto il resto) puoi portarlo con te e usarlo quando torni nuovamente all'unica vera fede".

martedì 12 febbraio 2013

Il metodo di scrivere

La prosa di Vita (Sackville-West) è troppo scorrevole. L'ho letta e mi fa correre la penna. Quando leggo un classico mi sento ripiegata in me stessa e - non tenuta a freno, no l'opposto; non mi viene la parola per ora. Se Passaggio a Teheran l'avessi scritto io, avrei asciugato dei mari interi di quest'acqua di rose; e poi (penso) avrei trovato il mio metodo d'attacco. La mia caratteristica di scrittore è, io credo, di saper individuare questo metodo e di esprimermi con precisione. Se scrivessi libri di viaggio, aspetterei fino a che non emergesse un angolo di visuale: poi mi darei a quello. Il metodo di scrivere un racconto piattamente narrativo non può essere giusto; le cose non succedono così nel proprio cervello. Ma lei è molto abile e ha una voce. Questo mi fa pensare che devo leggere To the Lighthouse tutto di fila e in stampa, domani e lunedì; dall'inizio alla fine, per via dei miei curiosi metodi, per la prima volta. Voglio leggere abbondantemente e liberamente una volta; poi cincischiare sulle minuzie.
12 febbraio 1927

Virginia Woolf
Consigli a un aspirante scrittore
traduzione di Bianca Tarozzi e Giordano Vintaloro
BUR 2012


venerdì 18 gennaio 2013

I libri per me fecondi

Ricordo che non lessi Il mare non bagna Napoli ma lo bevvi, lo assorbii. Ne rimasi incantata. A turbarmi era una sensazione strana, nuova: la chiamerei di fecondità.
Cosa intendo? Intendo il racconto di una vita profondamente sentita. Intendo uno spessore e un risalto dato agli eventi, anche minimi, quasi fossero attraversati da un significato che non si vede perché scorre sotto, molto sotto, come una vena d'acqua. Intendo l'immediatezza delle parole che sgorgano dal centro degli affetti, senza trascurare il Logos, com'è abitudine diffusa, senza espellere gli opposti. La prosa si dispone così attorno a chi legge, come un grembo denso, amorevole, non come un edificio. Mi viene da dire che la prosa è stata composta non innalzata, come le opere di certi grandi romanzieri.

Dunque, per molti anni, la parola "fecondità" io l'associai alla scrittura della Ortese, come un'etichetta. Il mare non bagna Napoli fu il primo esempio. Poi a poco a poco la serie dei libri, per me fecondi, si ampliò e contenne molti esempi; le poesie di Emily Dickinson e di Christina Rossetti, i racconti di Carson Mc Cullers, i romanzi di Anna Banti, di Madame de Lafayette, di Jane Austen.
Poiché ero in cerca della mia identità - io credo che identità poetica e identità reale debbano procedere di pari passo e versarsi in un unicum che è vita e forma - entravo in quelle letture, come in intimi luoghi dove mi raccoglievo quasi fosse un convento. E mi riconoscevo. Sì, perché lì, in quei recinti, incontravo il linguaggio a me affine: quello che scaturiva dalle mie stesse esperienze, formava le mie stesse similitudini, s'intesseva di pensieri non troppo lineari, bensì permeati di commozione. Era il linguaggio della mia peculiarità femminile.

Grazia Livi
Narrare è un destino
La Tartaruga edizioni 2002

martedì 15 gennaio 2013

Leggere è sporcare i libri di salsa di pomodoro


Che cosa faceva in quel periodo? 
«Prima di essere una scrittrice io sono una lettrice, lo sono sempre stata».
Fin da piccola divoravo London, Faulkner e molta fantascienza. Anche oggi i miei libri sono sporchi di salsa di pomodoro perché non riesco a staccarmi da una lettura nemmeno quando cucino». 

Il suo racconto più famoso cita le montagne. Ma a lei piace anche l'oceano... 
«Tutto è cominciato quando i miei genitori affittarono una casa quasi diroccata sulla costa del Maine per 25 dollari la settimana. Si trattava di una casupola arrampicata su una piccola scogliera a picco sull'oceano. Ricordo il sentiero che ci portava nelle piscine naturali formate dalla marea. È stata una settimana di esplorazione, ricerca di conchiglie, studio delle alghe marine e delle piccole creature che vivevano in quelle pozze d'acqua. E poi la scoperta di monete perse nella sabbia e i ricci di mare».

Perché ricorda in particolare quell'esperienza? 
«Era un mondo senza tempo. A noi bambine quella casa sembrava un luogo perfetto in cui vivere, ma mia madre si lamentava per la cucina primitiva, un vecchio forno a cherosene con due fuochi. Non ci siamo mai più tornati; molti anni dopo, senza rendermene conto, ho comprato una casa in Newfoundland che assomigliava molto alla casa del Maine».

Cosa le manca di più, oggi? 
«L'oceano, appunto. Ho passato gli ultimi trent'anni della vita tra pianure e montagne. Mi manca il nord Atlantico, salato e ansimante, come manca a chiunque sia vissuto da quelle parti.
E ho visto molti mari: dall'oceano Indiano al mare della Tasmania, ma quello che parla al mio cuore è l'oceano Atlantico. Lì mi sentivo davvero in vacanza».

frammento dell'intervista di 
Antonio Monda Annie Proulx
la Repubblica 25 agosto 2011