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giovedì 12 gennaio 2017

Leggo con lentezza, con scrupolo. Con difficoltà. Ogni pagina sembra leggermente coperta dalla foschia

La rinuncia


Scelgo Roma. Una città che mi affascina fin da piccola, che mi conquista subito. La prima volta in cui ci sono stata, nel 2003, ho provato un senso di rapimento, un’affinità. Mi sembrava di conoscerla già. Sapevo, dopo solo un paio di giorni, di essere destinata a vivere lì. A Roma non ho ancora amici. Ma non ci vado per far visita a qualcuno. Vado per cambiare strada, e per raggiungere la lingua italiana. A Roma l’italiano può accompagnarmi ogni giorno, ogni minuto.
Sarà sempre presente, rilevante. Cesserà di essere un interruttore da accendere talvolta, poi spegnere. Per prepararmi, decido, sei mesi prima della partenza, di non leggere più in inglese. D’ora in poi, mi impegno a leggere soltanto in italiano. Mi sembra giusto, distaccarmi dalla mia lingua principale. La ritengo una rinuncia ufficiale. Sto per diventare un pellegrino linguistico a Roma. Credo sia necessario che mi lasci alle spalle qualcosa di familiare, di essenziale.
A un tratto tutti i miei libri non mi servono più. Sembrano oggetti qualsiasi. Sparisce l’ancora della mia vita creativa, recedono le stelle che mi guidavano. Vedo, davanti a me, una stanza nuova, vuota. Ogni volta che posso, nello studio, sulla metropolitana, a letto prima di dormire, mi immergo
nell'italiano. Entro in un altro territorio, inesplorato, lattiginoso. Una specie di esilio volontario. Sebbene mi trovi ancora in America, mi sento già altrove. Mentre leggo mi sento un’ospite, felice ma disorientata. Come lettrice non mi sento più a casa. Leggo Gli indifferenti e La noia di Moravia. La luna e i falò di Pavese. Le poesie di Quasimodo, di Saba. Riesco a capire e al contempo non capire. Rinuncio alla perizia per sfidarmi. Baratto la certezza con l’incertezza. Leggo con lentezza, con scrupolo. Con difficoltà. Ogni pagina sembra leggermente coperta dalla foschia. Gli impedimenti mi stimolano. Ogni nuova costruzione sembra una meraviglia. Ogni parola sconosciuta, un gioiello.
Faccio un elenco di termini da controllare, da imparare. Imbambolato, sbilenco, incrinatura, capezzale. Sgangherato, scorbutico, barcollare, bisticciare. Dopo aver terminato un libro, mi emoziono. Mi pare un’impresa. Trovo il processo più impegnativo, eppure più soddisfacente, quasi miracoloso. Non posso dare per scontata la mia capacità di farlo. Leggo come facevo da ragazzina. Così da adulta, da scrittrice, riscopro il piacere di leggere. In questo periodo mi sento una persona divisa. La mia scrittura non è che una reazione, una risposta alla lettura. Insomma, una specie di dialogo. Le due cose sono strettamente legate,
interdipendenti. Adesso, però, scrivo in una lingua, mentre leggo esclusivamente in un’altra. Sto per ultimare un romanzo, per cui sono per forza immersa nel testo. Non è possibile abbandonare l’inglese. Tuttavia, la mia lingua più forte sembra già dietro di me. Mi viene in mente Giano bifronte. Due volti che guardano allo stesso tempo il passato e il futuro. L’antico dio della soglia, degli inizi e delle fini. Rappresenta i momenti di transizione. Veglia sui cancelli, sulle porte. Un dio solo romano, che protegge la città. Un’immagine singolare che sto per incontrare ovunque.

Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda 2015

sabato 7 gennaio 2017

Ma alla fine un desiderio non è altro che un bisogno folle

Il colpo di fulmine


Nel 1994, quando con mia sorella decidiamo di regalarci un viaggio in Italia, scegliamo Firenze. Sto studiando, a Boston, l’architettura del Rinascimento: la Cappella Pazzi di Brunelleschi, la Biblioteca medicea-laurenziana di Michelangelo. Arriviamo a Firenze all'imbrunire, qualche giorno prima di Natale. Faccio la prima passeggiata al buio. Mi trovo in un luogo intimo, sobrio, gioioso.
Negozi addobbati per la stagione. Stradine strette, stipate di gente. Alcune sembrano più corridoi che strade. Ci sono turisti come me e mia sorella, ma non tanti. Vedo le persone che vivono qui da sempre. Camminano in fretta, indifferenti ai palazzi. Attraversano le piazze senza fermarsi. Io sono venuta per una settimana, per vedere i palazzi, per ammirare le piazze, le chiese. Ma
dall'inizio il mio rapporto con l’Italia è tanto uditivo quanto visuale. Benché ci siano poche macchine, la città ronza. Mi rendo conto di un rumore che mi piace, delle conversazioni, delle frasi, delle parole che sento ovunque vada. Come se tutta la città fosse un teatro che ospita un pubblico leggermente inquieto, che chiacchiera, prima dell’inizio di uno spettacolo. Sento l’eccitazione con cui i bambini si augurano buon Natale per la strada. Sento una mattina all'albergo la tenerezza con cui la donna che pulisce la camera mi chiede: avete dormito bene? Quando un signore dietro di me vorrebbe passare sul marciapiede, sento la lieve impazienza con cui mi domanda: permesso? Non riesco a rispondere. Non sono capace di avere nessun dialogo. Ascolto. Quello che sento, nei
negozi, nei ristoranti, desta una reazione istantanea, intensa, paradossale. L’italiano sembra già dentro di me e, al tempo stesso, del tutto esterno. Non sembra una lingua straniera, benché io sappia che lo è. Sembra, per quanto possa apparire strano, familiare. Riconosco qualche cosa, nonostante non
capisca quasi nulla. Cosa riconosco? E bella, certo, ma non c’entra la bellezza. Sembra una lingua con cui devo avere una relazione. Sembra una persona che incontro un giorno per caso, con cui sento subito un legame, un affetto. Come se la conoscessi da anni, anche se c’è ancora tutto da scoprire. So che sarei
insoddisfatta, incompleta, se non la imparassi. Mi rendo conto che esiste uno spazio dentro di me per farla stare comoda. Sento una connessione insieme a un distacco. Una vicinanza insieme a una lontananza. Quello che provo è qualcosa di fisico, di inspiegabile. Suscita una smania indiscreta, assurda. Una tensione squisita. Un colpo di fulmine. Trascorro la settimana a Firenze a due passi dalla casa di Dante. Un giorno, vado a vedere la piccola chiesa, Santa Margherita dei Cerchi, dove si trova la tomba di Beatrice. L’amata, l’ispirazione del poeta, sempre irraggiungibile. Un amore inappagato, segnato dalla distanza, dal silenzio. Non avrei un vero bisogno di conoscere questa lingua. Non vivo in Italia, non ho amici italiani. Ho solo il desiderio. Ma alla fine un desiderio non è altro che un bisogno folle. Come in tanti rapporti passionali, la mia infatuazione diventerà una devozione, un’ossessione. Ci sarà sempre qualcosa di squilibrato, di non corrisposto. Mi sono innamorata, ma ciò che amo resta indifferente. La lingua non avrà mai bisogno di me. Alla fine della settimana, dopo aver visto tanti palazzi, tanti affreschi, torno in America. Porto con me delle cartoline, dei regalini, per ricordare il viaggio. Eppure il ricordo più chiaro, più vivo, è qualcosa di immateriale. Quando penso all'Italia, sento di nuovo certe parole, certe frasi. Sento la loro mancanza. Questa mancanza mi spinge, pian piano, a imparare la lingua. Mi sento sia incalzata dal desiderio sia esitante, timida. Chiedo all'italiano, con una lieve impazienza: permesso?

Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda 2015

venerdì 6 gennaio 2017

Una lingua straniera è come un lago da attravesare

La traversata


Voglio attraversare un piccolo lago. È veramente piccolo, eppure l’altra sponda mi sembra troppo distante, oltre le mie capacità. So che il lago è molto profondo nel mezzo, e anche se so nuotare ho paura di trovarmi nell'acqua da sola, senza nessun sostegno. Si trova, il lago di cui parlo, in un luogo appartato, isolato. Per raggiungerlo si deve camminare un po’, attraverso un bosco silenzioso. Dall'altra parte si vede una casetta, l’unica abitazione sulla sponda. Il lago si è formato subito dopo l’ultima glaciazione, millenni fa. L’acqua è pulita ma scura,
priva di correnti, più pesante rispetto all'acqua salata. Dopo che ci si entra, ad alcuni metri dalla riva, non si vede più il fondo. Di mattina osservo quelli che vengono al lago come me. Vedo come lo attraversano in maniera disinvolta e rilassata, come si fermano qualche minuto davanti alla casetta, poi tornano indietro. Conto le loro bracciate. Li invidio. Per un mese nuoto in tondo, senza spingermi al largo. E una distanza molto più significativa, la circonferenza rispetto al diametro. Impiego più di mezz'ora per fare questo giro. Però sono sempre vicina alla riva. Posso fermarmi, posso stare in piedi se mi stanco. Un buon esercizio, ma non certo emozionante. Poi una mattina, verso la fine dell’estate, mi incontro lì con due amici. Ho deciso di attraversare il lago con loro, per raggiungere finalmente la casetta dall'altra parte. Sono stanca di costeggiare solamente. Conto le bracciate. So che i miei compagni sono nell'acqua con me, ma so che siamo soli. Dopo circa centocinquanta bracciate sono già in mezzo, la parte più profonda. Continuo. Dopo altre cento rivedo il fondo. Arrivo dall'altra parte, ce l’ho fatta senza problemi. Vedo la casetta, finora lontana, a due passi da me. Vedo le distanti, piccole sagome di mio marito, dei miei figli. Sembrano irraggiungibili, ma so che non lo sono. Dopo una traversata, la sponda conosciuta diventa la parte opposta: di qua diventa di là. Carica di energia, riattraverso il lago. Esulto. Per vent'anni ho studiato la lingua italiana come se nuotassi lungo i bordi di quel lago. Sempre accanto alla mia lingua dominante, l’inglese. Sempre costeggiandola. E stato un buon esercizio. Benefico per i muscoli, per il cervello, ma non certo emozionante. Studiando una lingua straniera in questo modo, non si può affogare. L’altra lingua è sempre lì per sostenerti, per salvarti. Ma non basta galleggiare senza la possibilità di annegare, di colare a picco. Per conoscere una nuova lingua, per
immergersi, si deve lasciare la sponda. Senza salvagente. Senza poter contare sulla terraferma. Qualche settimana dopo aver attraversato il piccolo lago nascosto, faccio una seconda traversata. Molto più lunga, ma niente di faticoso. Sarà la prima vera partenza della mia vita. Questa volta in nave, attraverso l’oceano Atlantico, per vivere in Italia.

Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda 2015

giovedì 16 giugno 2016

da dove arrivano le storie

Quando comincia una storia ha già tutto chiaro?
Non è chiaro, all'inizio. Spesso ho un’idea, ma è un’idea molto vaga. Provo a entrare nel mondo della storia, cerco la porta giusta. Può essere quella porta oppure un’altra, oppure una finestra, non lo so, ma devo trovarmi dentro la storia, devo trovare l’ingresso. È difficile, perché spesso una storia non comincia con l’incipit.
Come si arriva all'incipit allora?
Io ci arrivo scrivendo e pensando. A volte comincio una storia, scrivo, scrivo e a un certo punto mi dico: “Ah, deve iniziare qui!” E magari succede dopo aver scritto molte pagine. Arrivo a un momento che mi sembra giusto, spesso ci vuole qualche mese per scoprire l’incipit. Lo spunto può essere un dettaglio, una scena, un pezzettino di dialogo, dipende. Di rado un incipit è ovvio, di rado si presenta così, purtroppo.
Un esempio?
Con La moglie io sapevo che la descrizione dell’ambiente era l’incipit giusto. Ma ci ho messo anni per ridurre quella descrizione a una pagina. Prima era un capitolo di otto o nove pagine e mi sembrava troppo. Ho dovuto togliere tutto. La scena al Tolly Club è arrivata dopo qualche anno. Perché io devo capire innanzitutto i personaggi, senza averli capiti non riesco a capire la storia: loro mi danno tutto, anche la struttura.
Ci parla del lavoro preliminare, quello che si svolge nella sua mente, prima di cominciare? Quando capisce che un’idea può diventare un romanzo?
Non riesco a capire senza scrivere. Ho in mente una cosa, un’idea vaga, poi prendo qualche appunto o scrivo un paragrafo, una descrizione: un viso, un paesaggio, un sentimento, un’emozione. Poi, però, ci vuole un motore. Capisco che è giusto quando c’è un movimento, quando la storia si svolge. Allora è chiaro: se c’è un movimento che posso seguire, c’è un’energia, c’è qualcosa di inevitabile.
Che cosa deve avere un incipit per catturare il lettore fin dalle prime righe? Ci sono inizi lenti e inizi folgoranti. Lei cosa preferisce?
Dipende. Può essere lento o può essere folgorante. A me piace cambiare. Per esempio, ho scritto un racconto intitolato Una volta nella vita che inizia molto lentamente: non si capisce dove andrà la storia, è un incipit disteso, non c’è una tensione o un dramma che si vede subito. Ma è arrivato così. Come si entra in un posto? Si può entrare direttamente: ecco la porta, andiamo. Ma la via può anche essere lunga, rilassata. A me piace seguire il mio istinto, non ho nessuna formula.
Nei racconti, spesso lei comincia da un accidente o da una situazione: da un guasto alla luce o da un trasloco. L’incipit di un racconto dev'essere diverso da quello di un romanzo?
L’inizio deve introdurre gli elementi della storia. Il romanzo può iniziare in modo più lento, invece nel racconto è importante iniziare in mezzo alle cose, l’incipit deve essere più veloce perché tutto è più urgente. Dà velocità al racconto, un incipit del genere, è importante. Un racconto è come un treno che passa. Un romanzo è come andare in macchina: si entra, si gira la chiave, poi si accelera.
frammento dell'intervista di Caterina Bonvicini a Jhumpa Lahiri
L'arte di raccontare
Nottetempo 2015

lunedì 13 luglio 2015

Jhumpa Lahiri: scrivo, scrivo, scrivo, scrivo

Dove scrivi? Hai orari precisi?
Non riesco a scrivere ovunque. Di solito scrivo a casa. Adesso sto a Roma e mi trovo bene, ho un appartamento luminoso, silenzioso, con un bel panorama. Anche se ho un terrazzo non lo uso, scrivo al chiuso o mi distraggo. Ogni tanto invece vado in biblioteca, soprattutto perché la passeggiata che faccio per arrivarci mi è utile per staccare mentalmente. Grazie a Sara, una mia amica, ho scoperto una biblioteca strepitosa a Roma, il Centro Studi Americani di palazzo Mattei, un posto davvero fantastico per scrivere.

Fai preproduzione o scrivi di getto?
Scrivo, scrivo, scrivo, scrivo. Non ho formule. Inizio subito, vado avanti, il percorso di ogni libro è del tutto singolare e non esiste una ricetta buona in ogni caso. Quindi scrivo. Scrivo e scopro tutto solo tramite il processo di scrittura. Faccio moltissime stesure, e capita che lavorando così ci metta anche molto tempo a trovare il vero punto d’ingresso del romanzo. A volte riscrivo lo stesso paragrafo venti volte per trovare il tono e la postura giusta del brano. Poi però c’è un momento in cui trovi il passo, la struttura inizia ad apparirti chiara in mente, senti la velocità e allora procedi spedita.

Quante riscritture fai? Tendi giù a buttare giù prima tutto o cesellare passo passo?
Come ho detto riscrivo molto. In italiano scrivo a mano, mi piace quando, dopo aver accumulato un po’ di materiale, lo ricopio al computer, lo stampo e vedo cosa è venuto fuori. Lo rileggo, faccio mille appunti ai margini che portano di solito a buttare via oltre la metà del testo, poi di nuovo torno al quaderno a mano. Il fatto è che in italiano, se uso la tastiera, non riesco ad ‘ascoltare’ le parole; al di là di ciò, il risultato dello scrivere a mano è un’esperienza più intima e più diretta. A ripensarci, per i miei libri in inglese non l’ho fatto mai, è proprio un diverso processo, un diverso approccio al testo.

frammenti dell'intervista di Vanni Santoni a Jhumpa Lahiri
dal blog minima&moralia del 24 giugno 2015

lunedì 3 novembre 2014

Le belle giornate

Una bella giornata inizia con un incontro casuale: la mia amica Angela sta aspettando la metropolitana con il suo Kindle in mano. 
Ha un rossetto rosso ciclamino intenso che è un lampo di colore nel buio del mattino.
È bella e luminosa e, appena mi vede, sorride.
Così viaggiamo insieme sino alla mia fermata raccontandoci gli avvenimenti degli ultimi giorni e ci diamo appuntamento nel nostro ristorante del mercoledì.
Lei sta rileggendo Jane Austen in inglese e le piace ancora di più che in italiano.
Ci sono scrittrici e scrittori che vanno letti a distanza di anni e la Austen fa parte di questa schiera tutto sommato piuttosto nutrita.
Quando arrivo in ufficio giro alla mia Rossana il link alla bella intervista che D - La Repubblica ha dedicato a Jhumpa Lahiri, una delle scrittrici contemporanee che più mi affascina e piace. 
Dopo un po' mi arriva la sua risposta con il racconto delle ore intense e belle che ha passato con sua figlia:
"sabato film al cinema con Camilla "Il giovane favoloso" e letture letture letture.
Io che leggo l'ultimo romanzo di Elena Ferrante e Camilla che legge Le memorie di Adriano bevendo assieme un tè. Abbiamo parlato di Leopardi e di Pavese...".
Ecco, le belle giornate iniziano incontrando, di persona o in parola, un'amica carissima e parlando di libri.
Così posso affrontare il primo lunedì di Novembre, il mese delle foglie che cadono, del tè, delle castagne, della notte che scende repentina, delle nuvole grigie e rosa.

giovedì 29 maggio 2014

Io vago per il mondo anche dalla mia scrivania

Jhumpa Lahiri è una scrittrice americana nata a Londra da genitori bengalesi.

Innamorata della lingua italiana, soprattutto, e dell'Italia, da qualche mese scrive, in italiano per Internazionale
Ogni settimana il suo racconto è il primo articolo che leggo. Questa settimana scrive di lingua ed esilio:

Chi non appartiene a nessun posto specifico non può tornare, in realtà, da nessuna parte.
I concetti di esilio e di ritorno implicano un punto di origine, una patria. Senza una patria e una vera lingua madre, io vago per il mondo, anche dalla mia scrivania. Alla fine mi accorgo che non è stato un vero esilio, tutt'altro. 
Sono esiliata perfino dalla definizione di esilio.

martedì 14 gennaio 2014

Il mondo in una frase

La mag­gior parte dei giorni ini­zia con frasi scritte al com­pu­ter su un dia­rio che nes­suno ha mai visto. C’ è una libertà in que­sto: la libertà di scri­vere cose su cui non mi cimen­terò mai. Le frasi sono per lo più banali, ser­vono per scal­dare le dita e il cer­vello. Nei giorni in cui sono pre­oc­cu­pata, in cui mi sento tri­ste, in cui sono a corto di parole, la mec­ca­nica del for­mu­lare frasi e met­terle in uno scri­gno è la sola cosa che rie­sca a farmi con­cen­trare di nuovo.

Costruire una frase è come scat­tare un’istan­ta­nea con una Pola­roid: premi il bot­tone e guardi cosa viene fuori. Scri­vere una frase equi­vale a docu­men­tare e svi­lup­pare al tempo stesso. (...)

Il mio lavoro cre­sce frase dopo frase. Dopo una fase ini­ziale in cui mi siedo pazien­te­mente, non tanto pazien­te­mente, e mi sforzo di inse­rirle da qual­che parte, di fis­sarle, le frasi ini­ziano ad arri­vare al mio cer­vello, già for­mate. Di solito le sento quando mi appi­solo per dor­mire. C’è qual­cuno che me le sug­ge­ri­sce, ma non so bene chi sia. Sono io, lo so, ma la fonte sem­bra indi­pen­dente, recon­dita, spe­cial­mente all’ ini­zio. La luce si accende, scri­bac­chio in fretta su un pezzo di carta una frase o due e poi al mat­tino le riporto al piano supe­riore, sul mano­scritto. Sento le frasi quando guardo fisso fuori dalla fine­stra, quando affetto la ver­dura, o quando aspetto da sola su un bina­rio della metro­po­li­tana. Sono le tes­sere di un puzzle, che mi ven­gono date senza un ordine par­ti­co­lare, senza una logica appa­rente. Sento solo che fanno parte della cosa.

Col tempo, in pra­tica ogni frase che ricevo e regi­stro a casac­cio viene ordi­nata, esa­mi­nata, orga­niz­zata e cam­biata. La mag­gior parte le eli­mino. Tutto il mio lavoro di revi­sione — ed è un pro­cesso che ini­zia imme­dia­ta­mente e accom­pa­gna la gesta­zione — avviene al livello di frasi. È arro­vel­lan­domi sulle frasi che si chia­ri­sce un per­so­nag­gio, che si svi­luppa una trama. Lavo­rare in modo tanto com­pul­sivo sulle parole, magari anche prima del neces­sa­rio, è come vedere gli alberi prima della fore­sta. Eppure sono inca­pace di imma­gi­nare la fore­sta in qual­siasi altro modo.

Quando sto per ulti­mare un libro o un rac­conto svi­luppo una sen­si­bi­lità acuta e osses­siva per ogni frase del testo. Mi entrano nel san­gue. Per un attimo sem­brano pren­derne il posto. Quando c’ è qual­che frase ancora in prova, mi siedo in un soli­ta­rio iso­la­mento e comin­cio a lavo­rarci. Le con­fronto, le esa­mino, inverto l’ ordine delle parole. E per ognuna emetto una sen­tenza: decido se farà parte del testo oppure no. Que­sto esame così minu­zioso può por­tare alla cecità. A volte — e que­sto mi ter­ro­rizza — le frasi smet­tono di avere un senso. Alla fine, quando ho ulti­mato un libro, mi sento svuo­tata. È l’ assenza di tutte quelle frasi che erano cir­co­late den­tro di me durante un periodo della mia vita, un com­plesso sistema di radici che viene estirpato.

Jhumpa Lahiri

frammenti dell'articolo pubblicato su Repubblica del 29 luglio 2012