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lunedì 12 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/491. L'estate è profumo di basilico e ringhiera


 

Tra le cose che amo dell’estate è passare più tempo possibile nell’orto. Nell’infanzia ho frequentato l’orto di mia nonna paterna, di zio Giacomo e del cugino Rodolfo in Calabria. A Milano e dintorni, l’orto del fratello minore di mia madre, zio Antonio.

Chi è cresciuto a contatto con la terra non se ne staccherà mai davvero. Ricordo quando mia madre poteva ritornare a occuparsi degli ortaggi altrui e così, ritornava bambina. E sul suo grande balcone aveva un giardino fiorito come non se ne vedevano altri.

È molto faticoso tenere un orto, è tutto uno zappa, pianta, sarchia, innaffia e pota. Si aspetta con trepidazione lo spuntare dei germogli dalla terra, si temono i grilli talpa quanto le cavallette bibliche. E si finisce con il parlare con i pomodori, con i peperoni, con le melanzane, le zucchine e il basilico. Portare in tavola quel che si è amorosamente coltivato è una delle più grandi soddisfazioni della vita, non vi è alcun dubbio. È bello andare nell’orto prima che il sole si alzi e quando inizia a tramontare, respirare quel profumo inconfondibile della terra bagnata, man mano che si innaffia e intanto immaginare cosa mangiare crudo e cosa mangiare cotto. In città non è altrettanto facile stabilire un contatto con il nostro cibo. Ma per il basilico non è impossibile.

 

 

La terra che era mondo

 

Ho scavato nella terra

con le mani già sporche

d'inchiostro.

 

Ho scavato fino al giusto

fondo dove dimorano ora

le piccole radici

e racchiuso tutto intorno

quella terra che era mondo.

 

Le foglie si alzeranno

si apriranno verso le nuvole

invidiose del loro colore

desiderose di andare e stare.

 

A sugo quasi pronto spezzerò

qualche gambo e laverò

le foglie nell'acqua corrente.

 

L'estate è profumo di basilico

e ringhiera.

 

Alternare la scrittura, ecco le mani sporche d’inchiostro, alla cura del basilico cittadino è un’attività comunque piacevole e foriera di soddisfazioni. La terra si mescola con l’inchiostro e le mani sono mani che hanno lavorato e che hanno creato, mentre fuori l’estate ha tinto ormai ogni cosa e ci fa maturare, piano, come i pomodori.

Oggi è lunedì 12 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa, profumata di basilico e pomodoro, è la Cronaca 491. La poesia è tratta dal mio primo libro Il calvario della rosa, Moretti&Vitali, 2004. Oggi è anche il giorno dopo la vittoria degli Azzurri ai campionati europei. Che dire di più e di nuovo? Nulla, se non viva l'Italia!

giovedì 1 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/480. Canto della città mediterranea che si alza nel tempo

 


 

Nella Baia del Silenzio, prima dell’alba la voce del mare è la voce del mondo. Il nero colore della notte si sfuma per sottrazione, come se ogni filo scuro venisse sostituito da un filo d’argento sempre più tenue. La luce che plana da oriente risucchia le barche ormeggiate nella lontananza dello sguardo. Le case portano l’intonaco colorato come un vestito da sera e anziché correre a cambiarsi, attendono che le dita rosate dell’aurora le tingano, così che rispecchiate nel mare, appaiano come uno strano fiore che cinge il lato occidentale della baia. Dall’altra parte i profili degli scogli e dei pini marittimi, si stagliano contro il cielo muto nell’eterno cambiamento del giorno nuovo che si annuncia. Si svegliano i passeri prima degli umani, un uomo saggia la temperatura dell’acqua, nella terrazza che domina l’agglomerato di case, una donna devota ogni mattina innaffia le piante fiorite nei vasi. All’improvviso gridano le rondini, anche se per poco. Poi le voci, qualche risata, e appena il sole ha avvolto nella calda luce gialla ogni cosa, viva o inanimata, la voce del mondo è quella delle cicale che non taceranno sino a dopo il tramonto. Il mare ha onde piccole, le poseidonie danzano sul fondo, mentre pesci dalla schiena d’argento sfilano eleganti verso il largo. Le tre palme antiche sorvegliano la costa, le ore del giorno si passano il testimone pigre e languide, perché così sono i giorni d’estate. Aumentano i bagnanti sino al culmine dell’ora più calda, quando la spiaggia si svuota ed è bello tornare in acqua con l’eco di onde dell’infanzia che si sovrappone a quelle del presente. Ci si lascia rapire dalla corrente morbida, immemori e senza età, in una deriva dei sensi rapiti dalla luce e dalla quiete di quel momento che diventa assoluto e si ripete, onda dopo onda, verso il meriggio. Si cammina poi, nelle vie soleggiate e accadono incontri inaspettati con il proprio passato.

 

 

Altri luoghi

Quasi al fondo della strada mi afferra
il profumo dei gelsomini e il cielo
si allarga di un azzurro improvviso

Questa è la città di pietra che mi sfila
il grano dei giorni e nel buio offre
riparo e sollievo agli assenti

Quindi è il vento portato dai rami
a strapparmi i giornali intonsi e
mi spinge a guardare la casa assopita

Quello del pesce è profumo
della città mediterranea che
si alza nel tempo e divora

le terre, le distanze, i confini.

 

 

 

Se si resiste all’ora meridiana, all’oscuro richiamo dei demoni del mezzogiorno che ottenebrano la mente, si ottiene il miele delle ore che precedono il tramonto, quando le rondini si riappropriano del cielo, lettere dell’alfabeto sconosciuto che scrive il romanzo delle nuvole e del tempo, non sopra di noi, ma per noi. Quando tacciono le cicale, tutti sono pronti per la grande sera, la luce arruffa la coda disordinata nei cieli d’occidente e continua il viaggio per lasciare che mente e occhi trovino ristoro nell’ombra, il nostro vero mondo, l’opaca essenza di cui noi pure siamo fatti, creature prestate al visibile per poterlo raccontare. L’ora incerta tra il giorno e la notte si trapunta di luci artificiali sui bordi delle strade e di stelle danzanti nei cieli. Resta poco di tutto, ormai, un ramo secco portato a riva da un cane, le speranza del giorno che è passato, nessun rimpianto, nessuna malinconia. Solo la perfezione di un altro giorno d’estate. 

 

A volte si scopre di essere ancora se stessi, anche a distanza di decenni, così questa Cronaca 480 di giovedì 1° luglio del secondo anno senza Carnevale, nasce dalla rielaborazione di antichi scritti e da una poesia tratta dalla mia prima raccolta Il calvario della rosa, Moretti&Vitali 2004.

lunedì 8 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/365: nel cuore dell'inverno ho finalmente imparato che c'era in me un'estate invincibile.




Ecco che la sera è scesa anche su questo 365° giorno dall’inizio del primo confinamento. Non so perché un anno fa mi sia presa la pazzia di scrivere una Cronaca ogni giorno e di avere continuato a farlo, perché a maggio del 2020, dopo la prima riapertura, sapevo che non era  finita e non lo è ancora, non ancora. In realtà so perché scrivo ogni giorno, scrivo per rafforzare le memorie di questo periodo, scrivo per salvare frammenti di mondo e di umanità. Scrivo per il piacere dello scrivere, scrivo per dare testimonianza, per offrire il mio punto di vista sulle cose di questa realtà e su quelle della mia immaginazione che di realtà ne ha incontrate molte altre. Scrivo perché scrivere è una delle attività più belle della vita, perché così posso offrire e ricevere conforto e speranza attraverso le parole e sentire come risuona in me “l’invincibile estate” di Albert Camus.

Oggi, camminando come al solito, consideravo che la tecnologia, veleno della nostra società, in quest’anno di pandemia è stata la cura che ci ha permesso di non bloccare, almeno fino a un certo punto, il lavoro e la scuola. Smartworking e DAD (didattica a distanza) hanno salvato almeno in parte, le nostre vite. Avete provato a immaginare cosa sarebbe stata una pandemia del genere solo dieci anni fa? Io sì, e so che sarebbe stato tutto, ma proprio tutto, molto più difficile. È grazie alla tecnologia che questa sera ho potuto presentare, grazie all'invito del professor Giancarlo Covella grande appassionato di poesia, studioso e raffinato traduttore, il mio ultimo libro di poesie Un’estate invincibile all’Istituto Pascal-Mazzolari di Verolanuova. Circa 300 partecipanti con la presenza del sindaco e di un’assessora, la preside e la dirigente scolastica, molti professori e moltissime studentesse e studenti che hanno contribuito leggendo in lingua Sylvia Plath, Amelia Rosselli, Colette e Marguerite Yourcenar. Ho letto una poesia da ciascuno dei miei primi 4 libri e poi una scelta dal quinto. Nonostante gli schermi e la distanza, credo di avere sentito la presenza di tutte quelle giovani menti attente e curiose. Anche fare le presentazioni online è come gettare bottiglie con un messaggio in un oceano di cui non vedo i confini, né le isole, né le terre che lo delimitano.

Spero, spero davvero che i ragazzi e le ragazze stasera abbiano sentito la loro estate invincibile e che imparino a coltivare il loro giardino interiore.

Di seguito alcune delle poesie che ho letto stasera.

 

La stessa riva

Siamo rimasti fermi

sulla stessa riva, guardando

direzioni opposte tra la fine

e l’inizio della luce, accecati

intenti, pronti a riconoscere

il calvario della rosa

che fiorirà in novembre.

 

 

Il calvario della rosa

Moretti&Vitali 2004

 

 

L’opera del vento

 

Dovevo uscire dal gesto usuale

cambiare la foglia con l’acqua

piovana, non cercare presagi

sull’asfalto arroventato. Poco

molto poco, il calice non riempie

la brocca, il miele non addolcisce

l’ape, semmai ne fortifica il pungiglione.

Questo è il mio scrivere, ti confesso

mescolare polline e parole, il resto

è opera del vento.

 

 

Sillabario della Luce

Moretti&Vitali 2007

 

 

La rosa sapiente e profumata

 

Quella rosa, quella non un’altra

perfetta sull’orlo della sparizione

dove l’ultimo petalo esita a

proclamare la propria fioritura.

È quella la rosa che ha scolpito

il fondo della pupilla, immagine

pietrosa incisa in un occhio

che non sa il fondo perché

dentro l’abisso vive. Quello

è l’occhio scolpito, quella

vi dico, proprio quella rosa

aulentissima e perfetta, oh

mia mistica visione che a ogni

cosa doni il profilo di una

rosa. Quella rosa, quella

non un’altra. Dolorosa,

sapiente e profumata, mai

nata nel maggio odoroso.

 

Figure del silenzio

Atì editore 2010

 

 

In ogni passione avvengono prodigi

 

 

Le noci e il melograno

ancora intatti sul tavolo,

due parole opposte che si

attraggono, le sto cercando

quercia e pietra uniche

a sfidare il tempo

troppo simili nella pervicacia

meglio la pioggia e il vento

che passano e non sanno

il sollievo della sosta.

Così saranno la quercia

e il vento i primi opposti

e la pietra con la pioggia

ad accompagnare ogni ricordo

che avrai lasciato, ogni parola

che avrò perduto.

In ogni passione avvengono

prodigi.

 

Scrivere il vento

Atì editore 2016

 

 

Un muro, un tetto, il silenzio interiore

 

Quello che sta sopra di noi,

le nuvole, le stelle, i tetti delle

case, la luce del sole, la chioma

degli alberi, le foglie in aria,

la pioggia prima che cada.

Quello che sta intorno a noi,

il vento, la nebbia, la luce del sole,

la voce di ogni persona, la pioggia

mentre cade, il profumo dei tigli,

i ricordi che assediano i passanti.

Quello che sta sotto di noi,

la terra, la sabbia, le pietre,

l’erba che non è stata

tagliata, le foglie dopo che sono

cadute, l’acqua, la neve,

la carta gettata.

Dunque, sta sotto solo ciò che

possiamo evitare, ma il vento,

le voci, la stella marina e quella

appesa nel cielo, la luce del sole,

le nuvole, sono cose che non

possiamo scongiurare, se non

usando i poveri strumenti umani:

l’ombrello, il passo lungo, lo sguardo

chino e distratto, un muro, un tetto,

il silenzio interiore.

 

Un’estate invincibile

Atì editore 2019

 

 

Altre poesie da Un’estate invincibile, seguiranno nei prossimi giorni. Chiudo così questa Cronaca 365 di lunedì 8 marzo del secondo anno senza Carnevale

mercoledì 18 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/255: scrivere e leggere, accettare il calvario della rosa che fiorisce in novembre

 

 
 Dare i nomi alle cose e alle persone, ricevere un nome perché senza nome non esistiamo. Ciò che non può essere nominato non esiste, è parte del lato invisibile del mondo e della materia.

Dare i nomi è creare, la creazione del mondo nella Genesi nasce dalla voce di Dio che nomina e separa, per ogni cosa esiste un opposto, per ogni cielo la sua terra, per ogni notte il giorno, per tutte le tenebre un’unica luce.

Quando impariamo a parlare ci impadroniamo del mondo e del mistero delle sue leggi. Impariamo la lingua madre, perché dalla madre la impariamo e perché la lingua è madre del mondo che noi andiamo a esplorare, conoscere e costruire.

Poi impariamo a leggere e scrivere, uno dei momenti più belli, intensi e importanti nella vita di ciascun essere umano.

Leggere significa poter conoscere, imparare, informarsi. La lettura di un libro diventa poi un colloquio ininterrotto con il suo autore e i personaggi, gli eventi, le narrazioni, le rievocazioni. Siamo nel nostro infinito presente e nel tempo eterno dei libri che leggiamo, un libro è un mondo che possiamo ritornare a esplorare ogni qual volta lo desideriamo. A ogni lettura ricordiamo ciò che abbiamo letto e scopriamo elementi nuovi o cose che non sapevamo di sapere.

Scrivere ci consente di trasmettere i nostri pensieri, di fermare i ricordi, di entrare in comunicazione con gli altri esseri umani. La scrittura ha sempre in sé una dimensione salvifica e di auto aiuto perché le parole scritte creano quella distanza, quel vuoto che ci permette di pensare a noi stessi e ai nostri mali come se davvero, come scriveva Rimbaud, io fossi un altro da me.

Leggere poesia significa lasciarsi trasportare in territori inesplorati grazie a un uso non comune della lingua comune. Le visioni del poeta entrano in noi così come i suoi ricordi e ci attraversano, restano imbrigliati nella nostra memoria e nutrono l’anima.

Scrivere poesia significa abbandonarsi a quel flusso misterioso di parole che arrivano alle rive della nostra mente come naufraghi e noi le accogliamo e ce ne prendiamo cura nutrendole, riscrivendole, aspettando che fioriscano e, come le rose, spandano intorno a sé quel profumo inconfondibile che ci fa riconoscere la vera poesia.

Sono una lettrice appassionata di tutti i libri che parlano e raccontano di scrittura creativa e non creativa. Mi piace entrare nelle regole della mia lingua e farle mie, nelle regole che definiscono una buona storia, pure.

Ho imparato negli anni che per imparare a scrivere bisogna avere letto molto, ogni nuovo libro si nutre delle letture del suo autore, non solo di memoria e immaginazione. La narrativa è un duro lavoro di immaginazione e scelta, di ordine temporale, di trama, di vita dei personaggi e ha bisogno, come diceva e faceva Irène Némirovsky di “una vita anteriore del romanzo” dove lo scrittore costruisce i personaggi, le biografie, gli intrecci, i punti di svolta della trama, i dialoghi.

La poesia più ancora della prosa ha regole semplici, a mio avviso, che sono riconoscibili. La poesia non può essere solo l’espressione di un’emozione. Tutti proviamo emozioni, ma fare di un’emozione un verso è altra cosa.

Lo sguardo del poeta diventa visione, l’udito è il ritmo, le poesie sorde non sono poesie, la forma muta al mutare delle epoche e del poeta, ma una poesia senza forma è come una stella senza cielo, ci si accorge subito che qualcosa non funziona. Ultimo ma non ultimo è il contenuto, ciò che vogliamo dire scrivendo versi e le parole che usiamo. Non credo che tutte le parole siano adatte a entrare nelle misteriose regole della poesia, alcune parole sono totalmente inadatte a diventare parole poetiche. Resta poi l’elemento misterioso che fa di una poesia una poesia. È l’altrove che si manifesta nei versi, è lo sguardo rovesciato verso l’interno, è l’ultima rosa di un giardino autunnale che diventa la rosa assoluta, quella che vive un eterno calvario, che fiorisce quando fiorisce perché farlo è la sua natura.

 

La stessa riva

 

Siamo rimasti fermi

sulla stessa riva, guardando

direzioni opposte tra la fine

e l’inizio della luce, accecati

intenti, pronti a riconoscere

il calvario della rosa

che fiorirà in novembre.

 

Ora siamo in novembre, è mercoledì 18 novembre dell’anno senza Carnevale. Ho scorto l’ultima rosa del mio giardino è pallida e coperta di brina, il suo profumo è più un ricordo che una promessa, ma una rosa è sempre una rosa.

Non sono regole, non sono consigli quelli che ho scritto, sono constatazioni che mi riguardano e che auspico riguardino anche voi che mi leggete, sono riflessioni che finiscono in una spirale e ricominciano da capo, perché leggere e scrivere è qualcosa di infinito, lettura e scrittura sono quanto di più simile all’eternità noi creature umane siamo riusciti a inventare

La poesia di questa cronaca 255 è la poesia che ha dato il titolo al mio primo libro, Il calvario della rosa, scelto nel 2004 dal poeta Danilo Bramati curatore della collana Fabula, presentato  dal poeta Milo De Angelis e pubblicato da Moretti&Vitali nel 2004. Io quella rosa novembrina continuo a vederla se mi affaccio nel giardino della mia memoria.

mercoledì 16 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/192: la pagina bianca e l’inchiostro turchese o di qualunque altro colore

 

Credo che siano già state scritte decine di migliaia di pagine sul blocco dello scrittore. Pagine che interessano solo a chi scrive, vorrebbe scrivere o scriveva e non ci riesce più.

Non ho ricette universali in merito, ma alcune recenti conversazioni con la mia amica Edith, che sa scrivere e con la scrittura si delizia e si tormenta mi hanno convinto a scriverne.

Quando ieri parlavo di persone a geometrie variabili, pensavo anche a lei e al suo percorso di vita, alle sue passioni e al suo desiderio di scrittura.

Così voglio riflettere con la penna in mano e scrivere quali sono le mie modalità di scrittura, i miei rituali e i miei percorsi.

Devo premettere che ho letto moltissimo sull’arte della scrittura, consigli degli scrittori, regole e decaloghi per scrivere e su internet ci sono luoghi pieni di notizie interessanti e scritti imperdibili, come ad esempio brainpickings di Maria Popova.

Però non voglio andare a rileggere ma scrivere, magari proprio in forma di decalogo, le cose che con me funzionano, che favoriscono la scrittura e che mi piace fare.

  1. Quando ho una vaga idea che mi risuona in testa come un martello, la scrivo su un taccuino. Sempre ricordando come Einstein avesse detto a Valery – credo – che si vantava di girare sempre con un taccuino per annotare le buone idee, che lui non ne aveva bisogno, perché di buone idee ne aveva avute due o tre al massimo in tutta la vita.
  2. I taccuini, i quaderni, i bloc notes devono, prima di tutto, piacermi come oggetti da guardare. A volte sono anche semplici quaderni scolastici dalle copertine colorate, l’importante è che mi invitino alla scrittura.
  3. Scrivo a mano con penne bic dall’inchiostro turchese, o rosa, o verde, o arancione, o blu, o nero. A volte scrivo con una stilografica, ne ho parecchie, incluse un paio di Montblanc, e da qualche anno anche con le matite Palomino che sono meravigliose.
  4. Scrivo soprattutto al tavolo della cucina, ho scritto sul tema almeno un paio di poesie, ma dall’inizio della pandemia sono tornata a scrivere alla grande scrivania in soggiorno.
  5. Il tempo che non rientra nel soprattutto lo dedico alla scrittura al computer. A volte copio gli appunti, o delle citazioni o i brani delle prose che sto scrivendo. Le poesie nascono soprattutto così.
  6. Quando non so cosa scrivere, copio brani dai miei autori preferiti. Uno dei libri che più ho copiato e ricopiato è Il giunco mormorante di Nina Berberova.
  7. Scrivo a mano perché il gesto dello scrivere impugnando una penna costringe il pensiero a rallentare, lo sguardo farsi più acuto e l’attenzione a dedicare a ogni parola, a ogni sfumatura il tempo giusto.
  8. A volte scrivo in francese o inglese, le altre due lingue che conosco bene. Soprattutto il francese. Copiare Proust, o la Berberova, o la De Beauvoir, o la Némirovsky dal francese è sublime. Per l’inglese copio i racconti della Mansfield e i diari della Woolf.
  9. Non c’è giorno della mia vita in cui io non pensi alla scrittura. Un tempo la scrittura della prosa e quella della poesia erano rigidamente separate. Da quando scrivo le Cronache non c’è soluzione di continuità. Inseguo gli spunti, le frasi e le immagini e tesso insieme prosa poetica, prosa tout-court, poesia e riflessioni a seconda degli umori del giorno. Se non assecondassi questa modalità di scrittura le Cronache non sarebbero Cronache
  10.  Se proprio non riesco a scrivere prendo uno dei miei libri preferiti dallo scaffale dei libri preferiti e leggo. La Musa, a volte, si fa sedurre da se stessa espressa in libri già noti e io assecondo questo suo desiderio di riconoscimento.

Ecco che sono già arrivata a un decalogo dove convivono modalità, riti e azioni. Devo continuare a pensarci, quindi potrebbe esserci un secondo decalogo e magari anche un terzo, chissà…

 

Per chiudere ecco una poesia dedicata alla scrittura.

 

Al tavolo della cucina

 

Perché scrivo?

Perché scrivo, lo so.

Ho dita prensili per

afferrare la penna

mucchi di carta da rovesciare

per scrivere sul retro, un

appetito vorace e facili

digestioni. Al tavolo della

cucina so stare per ore

senza un falso movimento.

Ho la pazienza della pietra,

l’ostinazione delle onde.

Soffio parole sulla carta

mentre il vento trascina

le ore, il senso, il momento

sono nella punta delle dita.

Questo inchiostro è l’opposto,

l’ombra acquietata, nessuna

luce ne cambia la posizione.

 

 

 

 

La Cronaca 192 è dedicata alla mia amica Edith, lei sa perché. Oggi è il sedicesimo giorno del nono mese dell’anno senza Carnevale. La poesia è mia ed è tratta dal mio primo libro, Il calvario della rosa, Moretti&Vitali 2004.

martedì 15 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/191: non ci sono geometrie cartesiane nel mio cuore

 

Ho già salutato più e più volte l’estate in questi ultimi giorni, ma la stagione bella non è ancora stanca e oggi ha avvolto la città silenziosa in un abbraccio di calore al limite del sopportabile.

In una delle vie del mio quartiere, ricca di bar, bistrot, pizzerie e ristoranti, sono apparsi nuovi dehors, che hanno un’aria così parigina, e piattaforme che sono andate a sostituire un po’ di parcheggi in striscia azzurra. Che bellezza! Vederli mi ha messo allegria. C’era un sacco di gente seduta fuori a pranzare e chiacchierare. Uno di quegli sprazzi di normalità concessi dall’estate ancora rigogliosa.

Ma io già mi ero adagiata tra le braccia del primo autunno e non avevo nessuna voglia di tornare indietro. Ieri sera ho passato una bellissima serata con la mia amica Paola, una serata densa di confidenze, pensieri intelligenti, profondità, risate, commozione, cioè tutto quanto fa un’amicizia e non solo una frequentazione. Quando siamo uscite dal ristorante, una scoperta anche per via della crema catalana allo zenzero, ancora non avevamo finito di parlare e siamo rimaste un po’ a goderci l’aria fresca della sera, con gli aceri e gli ippocastani che seminavano le foglie secche per strada. Ho accompagnato Paola alla sua auto e lei mi ha riaccompagnata sotto casa, dopo avermi regalato una squisita marmellata di fragole e rabarbaro fatta da lei, che è una delle mie persone preferite al mondo, che non è mai banale e scontata e ogni volta che ci vediamo non è solo una riscoperta ma una vera scoperta.

Una delle mie nonne diceva che per conoscere davvero una persona si deve aver mangiato con lei almeno un tummin’ di sale che non ho mai saputo a quanto corrispondesse, ma nella mia testa bambina equivaleva a una tonnellata, perché pensavo, e lo penso ancora, che per quanto si conosca una persona non la si conosce mai davvero fino in fondo, mai.

Anche se ci sono persone che negli anni confermano e reiterano la loro forma, e il pensiero che abbiamo su di loro, che finiscono con l’essere forme geometriche chiuse, che danno conforto come le vacanze sulla riviera romagnola, la pizza il sabato sera e il gelato d’estate. Conosco moltissime persone così, che sono così da quando le conosco e sto bene con loro e non mi aspetto grandi guizzi.

Poi ci sono persone come Paola che sono a geometria variabile e mi sorprendono ogni volta che ci parliamo. Lei e le persone come lei, sono un mare burrascoso, un sentiero in salita, un giardino inselvatichito. Poi la burrasca passa e ti trovi in una baia che non hai mai visto, il sentiero finisce su un prato costellato di fiori e attraversato da un ruscello e abitato da placide mucche al pascolo, il giardino inselvatichito tale non è, e le fragoline di bosco crescono in moltitudine in mezzo all’erba.

L’intensità del sentire e del vivere non significano una vita agiata e senza preoccupazioni. Sentire la vita che ci cresce intorno e che ci attraversa, sentirne le spine sui rovi e pungersi, non fermarsi di fronte alle difficoltà, vivere è anche questo. È non avere timore di guardarsi intorno, di lasciare che le geometrie si aprano e ci permettano di rivelare prima di tutto a noi stessi chi siamo.

Ho sempre sentito profondamente mia questa citazione da Joachim Du Bellay

 

 

La vita è una goccia

di miele che ho potuto

suggere sempre ma

soltanto da un ramo di

rovi.

 

 

E adesso apro il barattolo di marmellata di fragole e rabarbaro, preparo un buon tè e faccio finta che fuori sia autunno anziché estate. E scrivo a un’amica quanto le sue geometrie variabili siano preziose.

 

 

Geometrie

 

Una singola equazione

il risultato è la conferma,

la punta delle dita sulla

piega del tuo sorriso

aspetta l’esito definitivo

che non tolga ombra

al solco di sale che ha

rovesciato nel suo contrario

il triangolo iniziale: 

 

non ci sono geometrie

cartesiane nel mio cuore.

 

 

 

Questa Cronaca 191 appartiene al quindicesimo giorno del nono mese dell’anno senza Carnevale. Il titolo e i versi finali della poesia sono una citazione da Ivan Illich.

La poesia è tratta dal mio primo libro Il calvario della rosa, Moretti&Vitali 2004.

Joachim Du Bellay è citato da Rossana Rossanda con Manuela Freire nel libro-conversazione La perdita.


domenica 19 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/133: un giorno di tregua domenicale, la poesia di una città


Vento largo e caldo. 

Luce morbida e lunga sui tetti.

Rondini in picchiata riempiono d'allegria il cielo.

I ragazzini-gelsomini sono sfioriti da giorni, ma al tramonto si schiudono in me e diffondono il loro intenso profumo tutto intorno. E io passo davanti a quella cancellata chiudendo gli occhi e affondando il viso nella fioritura.

Oggi è una domenica di luglio, di questa strana stagione che non è iniziata e non finirà.

Godo di questa giornata di tregua, del cielo smaltato, delle case che risplendono, dei visi degli estranei che passeggiano e so che condividiamo lo stesso piacere.

Sul balcone che era di mia madre continua la fioritura dei gerani rossi e rossa, delle ortensie dal colore ancora incerto, delle ginestre dal giallo appena accennato, dei garofanini rossi e altezzosi, dei piccoli cespugli di rose rosa, malva e rosse, del basilico che profuma come l’estate intera, della menta già alta e vigorosa.

In giardino gli alberi storpiati dalla potatura dissennata dell'anno passato - mi chiedo che competenze avessero quei massacratori che hanno tagliato rami possenti e vecchi di mezzo secolo - si sono presi la loro rivincita e le foglie nuove si stirano pigre seguendo il vento nella sua danza. 

Nel mio quartiere le due torri novecentesche svettano e mi riportano a un giugno di tre decenni fa, quando uscita dal cinema Zenit, che era dove ora c'è la Feltrinelli in piazza Piemonte, ero rimasta abbagliata dalla loro solennità di pietra che incideva l'azzurro del cielo e teneva sospesa una falce di luna e una stella proprio in cima ai tetti che si specchiavano uno nell'altro.

Dall’altro lato della piazza, in lontananza, svettano le Tre Torri che sono belle, vuote di impiegati, e poco in sintonia con il profilo di Milano.

I locali sono pieni di gente che mangia e beve, chiacchiera e ride. Sui marciapiedi, però, sono rari i passanti che girano senza mascherina.

Una tregua domenicale per tutti gli abitanti della capitale del nord, per accogliere la settimana che viene, la pandemia, il vuoto del centro città, la disoccupazione, il crollo del turismo.

Ma questa sera voglio pensare solo al profumo dei gelsomini per averne nostalgia quando la notte sarà scesa e il sipario della luce sarà solo stella o lampione.

Così niente Montagne della Nebbia, niente mare, niente amici della Casa delle Parole, così ritrovo una poesia scritta molte, molte estati fa.



La città in bilico

nella mia città non troverete
panni alle finestre stesi
né svolte improvvise sul mare
lucido di sole o su una valle
ampia di nuvole

nella mia città non vedrete
santi o pellegrini
camminare in ginocchio
non lamenti udrete o grazie
all’unico dio tra gli dei

nella mia città non c’è orizzonte
e un giorno al mese
oriente si scambia di posto
con occidente
tanto la luce è uguale alla
stessa luce

nella mia città ci siamo solo noi
ancora intenti a camminare
in bilico sul fiume nascosto
inghiottito dalle case.



A volte è piacevole anche restare dall’altro lato dell’immaginazione, ben ancorati al pianeta e camminare in punta di piedi sulle stelle rovesciate che hai seminato al tuo passaggio.



La città in bilico è tratta dalla mia prima raccolta poetica Il calvario della rosa, Moretti&Vitali Editori, 2004