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domenica 16 giugno 2013

Scrivere è sfondare una finestra chiusa

Immaginate una stanza affollata - l' aria viziata, stagnante. Tra i presenti uno va alla finestra. Bene, pensate: la aprirà. Invece la sfonda. Ecco: per Virginia Woolf quello è Joyce. Per lui bisognava scuotere le fondamenta per rinnovare la fabbrica narrativa. Alcuni pilastri, però, li lascia intatti: la triade di Padre, Figlio, Madre - la più antica cellula del mito, della religione, della società. Della letteratura. Ma poiché per Joyce la letteratura si rinnova a punti crociati di tradizione e tradimento, le alterazioni contano: il padre Ulisse è un ebreo di erranza stanziale. Il figlio Telemaco è un intellettuale riottoso incatenato al labirinto in terra d' Irlanda; la Grande Madre Molly, più che una Mater Matura che apra all Aurora, è Afrodite sulla via del tramonto. Di questa cellula germinale - Joyce docet - la letteratura non può fare a meno; soprattutto della Grande madre - umida, acquatica. Come lui di Nora Barnacle: moglie e madre. E' con Nora - il 16 giugno 1904 - a Dublino che concepisce per sé la vita nuova. Sempre con Nora si ingravida di se stesso e nasce scrittore in esilio, che brucia in olocausto le inerti escrescenze di un genere stanco - il romanzo. E lo riporta ad abbeverarsi alla sua origine epica.

Nadia Fusini
Repubblica 16 giugno 2004

giovedì 25 aprile 2013

Il silenzio è musica e poesia

James Joyce aveva l'abitudine di appoggiare l'orecchio al pavimento per ascoltare le voci dei contadini che abitavano al piano di sotto: conversano – diceva – in un idioma così inconsapevolmente ricco di storia e di fascino da costringermi all'ascolto. 
Ma allora si andava a sentire l'Amleto, oggi lo si va a vedere. Tutto – spettacoli, tv, cinema – sembra congiurare contro l'orecchio, che vive nel rumore, frastornato dalla mancanza di silenzio e dunque di musica e poesia.

Andrea Molesini
(da un articolo sul Sole 24Ore dell'11 settembre 2011)

lunedì 24 dicembre 2012

Elogio del frammento


Per speculum et in aenigmate: così il mondo si offre ai nostri occhi, per quanto amore il nostro sguardo contenga. Specchio del mondo, enigma intessuto su altri enigmi, la parola poetica sa avvicinarci al centro delle cose: in suo nome, anch’essa chiede ascolto, accoglienza, meditazione profonda. In cambio, dona la propria vastità, la ricchezza del proprio senso – un dono tutt’altro che pregevole, quali che siano le nostre capacità di accoglierlo.
Al primo incontro con il testo, si attiva in noi un insieme di pensieri: la lettura corretta, la comprensione esatta, l’esegesi rigorosa. A poco a poco, però, altri pensieri sorgono dal nostro intimo che ascolta contemplando il testo, amplificandolo e lasciandolo risuonare in sé, fino a collegarlo con le proprie più vere riflessioni. A questa esperienza vorrei dare voce: a partire dal testo e al servizio del testo per illuminarne, almeno parzialmente, la ricchezza di senso reale e l’ampiezza d’eco possibile. L’obiettivo di questi scritti è qualche frammento di oltre-testo: un po’ di ciò che possiamo udire quando accogliamo una lirica come parola oracolare, come accenno ad altro da sé.
“Acceleratore della coscienza” (J. Brodskij), l’espressione poetica può essere vista come una fune tesa tra noi e il centro delle cose, sulla quale avventurarsi con passo cauto e leggero, guardando avanti a sé.
Per questo si è concentrata l’attenzione sui frammenti che ci vengono incontro nella lettura e che ci abbagliano con la loro bellezza, illuminando, come un cono di luce inesauribile, vasti orizzonti di riflessione e di conoscenza. Sono i piccoli brani che amiamo, ai quali torniamo, che impariamo a memoria e che ricordano a noi stessi nelle più varie occasioni: è bello seguirli autonomamente, ascoltarli uno alla volta, mettendoli in evidenza per sé soli. “In the particular” scrisse Joyce “is contained the universal”: paradossalmente, frammenti di testo sembrano acquistare, a volte, una ricchezza maggiore dell’intera opera in cui sono collocati. Tutto ciò è ben difficile da spiegare, e dipende certamente da noi, dall’atto particolare della nostra lettura; è su questi, comunque, che si vorrebbe richiamare l’attenzione, per desiderio di concentrazione e di essenzialità.
Sono convinto che la verità delle cose appaia di rado, attraverso luccichii improvvisi e imprevedibile, e che sia giusto seguirla, attenderla sul terreno che le appartiene.
L’intenzione è di offrire un momento di sosta, di quiete meditativa al cospetto della parola poetica, senza violare il pudore: esso è sacro anche e soprattutto nella vita della mente. Il discorso, comunque, rimane abbozzato, accennato, spero. Più che lettori, vorrei amici disposti a sostare nella stessa tensione interiore.

Lorenzo Gobbi
introduzione a 
Elogio del frammento
Servitium editrice 2010

sabato 27 ottobre 2012

Il potere del linguaggio e dell'immaginazione

Comprese il senso del potere che il linguaggio e l'immaginazione hanno ai fini dell'organizzazione dell'esperienza.

Chaim Potok leggendo il Ritratto dell'artista da giovane di Joyce

mercoledì 6 giugno 2012

La vita narrante


Quando scrive di getto, siede per ore e ore in poltrona, con un cartone sulle ginocchia che le fa da appoggio, un piccolo calamaio inserito nel cartone, un blocco di carta. È così assorta che i rumori non arrivano fino al suo corpo sprofondato in una vita più vera della vita: la vita narrante. Solo al pomeriggio risalirà alla superficie accomodandosi al tavolo e ricopiando a macchina ciò che ha scritto al mattino. Ma fin quando rimane seduta in poltrona, un guscio l’avvolge. Non vede il cielo che si ravviva o si oscura a causa delle nubi spinte dal vento, non avverte le scrollate di pioggia. Non sente la voce di Leonard che telefona, che parla di manoscritti, che riceve giovani autori. È concentrata sulla psiche, specchio impuro di tutte le convergenze, di tutte le divergenze. “Spesso ora mi tocca dominare l’eccitazione, quasi volessi trapassare uno schermo o qualcosa mi battesse accanto con violenza”. Di nuovo nello spazio astratto della stanza rischia di perdersi. Jacob ha rappresentato un esperimento troppo, troppo ventilato. Adesso occorre erigere un argine che contenga la dilagante materia; occorre adottare un preciso angolo visuale, una unità di misura. Quale? A furia di riflessione e di concentrazione Virginia finirà con l’identificare quest’angolo con l’attimo. L’attimo di pienezza, di pregnanza emotiva, (simile all’epifania joyciana, ma l’epifania ha per Joyce un significato più spirituale che emotivo), mentre l’argine sarà un’occasione limitata nel tempo: un concerto, una passeggiata, una visita, un ricevimento.

Virginia Woolf e la sua scrittura raccontata da Grazia Livi
Da una stanza all'altra 
Stanza con poltrona
Garzanti 1984