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venerdì 17 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/40: scrivere in compagnia dei lupi


Mi addormento, sogno, mi risveglio, è ancora giorno non riesco a capire l’ora, fuori è tutto così silenzioso e chiaro.

I due lupi dei Pireni sono tornati a visitarmi in sogno, sono tranquilli, non si staccano mai uno dall’altra e mi hanno guardato per tutto il tempo mentre impastavo il pane.

Che creature misteriose sono i lupi e che immensa compagnia fanno grazie al loro silenzio.

Se ne sono andati solo quando sono uscita sul patio e mi sono fermata a guardare il tramonto, un’esperienza che ho condiviso con milioni di altre creature.

La notte non mi ha mai fatto paura, ma da quando ci sono i lupi sono ancora più tranquilla.

Cosa ne farò di tutti questi frammenti di vita? Dove li conserverò? In una poesia o in un racconto?

E. M. Forster scriveva di Virginia Woolf che lei apparteneva al mondo della poesia, ma che essendo affascinata, da un mondo diverso, il mondo del romanzo, non faceva altro che “protendersi dal suo albero incantato per afferrare frammenti del flusso della vita quotidiana che scorre via, e per tentare con quei frammenti, di costruire romanzi”.

Ammiro da sempre la Woolf, ne ho scritto il profilo biografico per l’Enciclopedia delle donne e la considero una delle mie maestre, ogni lettura dei suoi libri mi fa scoprire cose sul mondo e sulla scrittura anche se sono passati decenni da quando ho letto per la prima volta il suo Diario di una scrittrice.

Anche io cedo al richiamo dei frammenti e con la poesia cerco di scrivere romanzi.

Non sento la cesura, il salto tra i due linguaggi, la poesia chiede solo maggiore e diverso rigore perché deve rispondere alle regole interne di equilibrio tra ritmo, forma, immagini, contenuto, metafore, sillabe, spazi, enjambement, in un movimento continuo che evoca il fluire circolare del nostro pianeta, del sistema solare, di tutta la galassia, cioè tutto ciò che attiene allo stile, l’equilibrio interno della pagina per poi diventare forma, cioè l’unione tra materia e astrazione, corpo e spirito, come ha detto la Livi in un’intervista.

So di avere già scritto che la mente si riposa nella narrativa ma non è del tutto vero.

Grazia Livi, che è stata una delle più importanti scrittrici italiane del Novecento oltre che, per mia fortuna, un’amica così descriveva la sua preparazione alla scrittura:

“Dovetti inventare il silenzio e farne, in certe ore, la mia condizione di vita.
Nel silenzio mi imposi un lavoro assiduo, come un falegname che pialla il legno.
Volevo ridestare da quel giacimento di cui ho detto prima - oscuro, grumoso - il maggior numero di parole possibili. E di volta in volta volevo legare quelle parole al bagaglio in trasformazione dei miei pensieri e dei miei sentimenti.
Col tempo si creò un ricco scambio fra il sentire e le parole che lo avrebbero rivelato: scambio che la scrittura rese visibile.
Non una grande scrittura, una scrittura che faceva il suo tirocinio un po' a sbalzi. Che insisteva, si ripeteva. Che cercava di non disgregarsi nei compiti familiari - spesso noiosi - anzi li teneva insieme con la volontà di viverli fino in fondo.
Imparai che non bisogna scartare nulla di una vita: ogni minima cosa, anche la più trita, è seme per l'esperienza.
A poco a poco la mia identità prese a riconoscersi - e a sfaccettarsi - attraverso le parole scritte e le parole presero a radicarsi nell'identità.
Il linguaggio - uno scavo nella coscienza - si approfondì e mi promise di diventare il mio fedele specchio.
Quante severe implicazioni, in questo miraggio!  Quanta concentrazione!
Ma era finalmente un lavoro rivolto all'interno, è sempre questo che intendo quando dico "scrittrice"”.

Quel lavoro da falegname ci ha lasciato alcuni tra i più bei libri dedicati alla scrittura e alle scrittrici come Da una stanza all’altra, Le lettere del mio nome, Narrare è un destino e il bellissimo romanzo Lo sposo impaziente che era poi Tolstoj in viaggio di nozze.

Solo adesso, mentre sto tessendo insieme Woolf e Livi, mi rendo conto che Virginia e suo marito venivano chiamati dagli amici The Woolfs giocando tra l’assonanza della pronuncia del loro cognome con la parola wolf, lupo, appunto.

Mi piace indagare questi salti della mente per scoprire che due delle mie scrittrici preferite stiano dialogando nei libri di Grazia, mentre i due lupi woolfiani sono diventati i numi tutelari della scrittura di queste Cronache.

Grazia Livi continua a starsene sul suo balcone:

“Rigiro questi pensieri seduta sul mio balcone, nel buio. La partenza è per domani. Intanto bevo un bicchiere di vino ghiacciato, fra tralci d'edera, sperando che nessuno mi chiami al telefono. Desidero starmene nascosta, nel silenzio delle cose che m'attorniano. Solo il silenzio produce equilibrio, per me. Temo ogni repentinità, ho paura di essere distolta. Siccome abito a un quindicesimo piano, la città mi sta attorno, ammansita e notturna. La grande città! Ora posso osservarla, in piena calma. Di fronte a me il lume verde d'un ascensore percorre l'armatura di ferro di una torre. È lontano abbastanza per apparirmi oscillante come la stella di un presepe. Ci deve essere una terrazza, all'ultimo piano, là dove l'ascensore si arresta a lungo, affinché i turisti contemplino il paesaggio in una illusione di dominio, mentre il vento del parco irrompe tutt'attorno.
La città, vista dall'alto, è bella. So d'averla amata al tempo in cui, vari anni fa, decisi di stabilirmici”.

Ecco che sento la bellezza delle parole fluire in me, mi lascio trascinare, mentre i due lupi si sistemano accanto alla mia scrivania da cui vedo la finestra che resta illuminata spesso sino a notte fonda.

Scegliere la propria finestra, non importa se verso l’esterno o verso l’interno, è una delle prime decisioni da prendere quando si scrive.

Il mio congedo serale è un’ulteriore riflessione di Grazie Livi che è perfetta per chiudere queste divagazioni in compagnia dei lupi.

“Prima bisogna avere scelto deliberatamente il proprio margine, la finestra da cui guardare. Allora il linguaggio fluisce e accoglie. Fluisce e accompagna lungo quella via rischiosa, piena di illusioni, dove l'inconscio si fa conscio a spese dell'abito, della maschera, del ruolo assunto o recitato, delle figure millenarie, assimilate senza saperlo”.

Scegliete la finestra, scegliete il vostro lupo selvaggio e non cercate di addomesticarlo, limitatevi a contemplarlo, proteggete il suo sonno e accoglietelo quando rientra all'alba, le parole che arriveranno saranno uniche e piene di vita vera e selvaggia.

mercoledì 30 settembre 2015

Il mondo della poesia e il mondo del romanzo

Virginia Woolf appartiene al mondo della poesia, ma essendo affascinata da un mondo diverso, il mondo del romanzo, non fa altro che protendersi dal suo albero incantato per afferrare frammenti del flusso della vita quotidiana che scorre via, e per tentare con quei frammenti, di costruire romanzi.

E.M. Forster su Virginia Woolf
citato da Grazia Livi in
Narrare è un destino
La Tartaruga edizioni 2002

giovedì 7 maggio 2015

Un album di ritratti che è il ritratto di Gianna Manzini

Quando scopro o riscopro una scrittrice o uno scrittore che mi catturano divento ossessiva e non ho pace sino a quando non avrò letto la sua opera completa. Posso fermarmi, tornare indietro, appassionarmi e pentirmi, ma non cedo fino all'ultima parola. Poi è la volta delle biografie e autobiografie, dei diari, degli epistolari, dei profili critici. E tutto questo paesaggio di libri va poi a popolare un ripiano della libreria perché i libri di uno scrittore amato sono un mondo che deve essere contiguo e completo. Ora compiere questa operazione, che ha una sua logica e un suo intrinseco piacere, diventa sempre più difficile perché nel tempo gli scrittori e le scrittrici che mi accompagnano sono diventati via via più numerosi ma oggi ho la necessità di trovare spazio per un'autrice "totale" che mi sta incantando e che in passato ho un po' snobbato ma che ho deciso di riprendere in mano leggendo il profilo che le ha dedicato Grazia Livi nel bellissimo Le lettere del mio nome. Così ho iniziato a comprare vecchie edizioni - cosa c'è di più bello di una vecchia edizione? - dei libri di Gianna Manzini su Maremagnum, che è una libreria di librerie dove si trova l'introvabile, avendo una smodata passione per i libri di carta, soprattutto se stampati nel secolo scorso. Così ho iniziato a leggere il suo Album di ritratti che è un capolavoro ricchissimo, strabordante di riflessioni sulla scrittura e sul mestiere di scrivere e una galleria di ritratti degli scrittori e delle scrittrici amate che spesso furono anche suoi amici nella prima parte e di persone qualunque nella seconda e "parole povere" sulla "diciamo vocazione", "diciamo mestiere" della terza. Gli scrittori di cui uno scrittore scrive entrano a far parte della sua biografia, della sua opera e di quel canto e controcanto che rimanda da un'opera all'altra, di quel dialogo che varca il tempo e lo spazio e che è una delle esperienze più ricche che la vita ci offre. Così la Manzini sta ora con Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Grazia Livi, Agota Kristof, Simone de Beauvoir, Marie Cardinal, e la Plath e la Sexton e Janet Frame e qui mi fermo per non rendere infinita la mia lista che è comunque desumibile dalle "etichette" di questo blog. Amo e ho bisogno di parole scontornate e pesanti come cose, di raccogliermi l'anima e di tenerla in fronte come la lampada dei minatori, per poter entrare nel cerchio di chiarità che la vita ci offre anche quando leggiamo e quando scriviamo. Così andrò avanti e, mano a mano che entrerò in questo libro della Manzini e delle sue parole, a copiarne frammenti per questo blog che è diventato come uno scrigno dei pirati, pieno di tesori che scelgo e getto nell'oceano come un messaggio in bottiglia, perché raggiungano altri lidi e altri lettori.

E.P.

mercoledì 22 aprile 2015

Scrivere il diario significa pervenire alla consapevolezza dei processi interiori

Il diario è lo strumento di chi ha il compito di pervenire a una piena e desta consapevolezza dei processi interiori.

Elias Canetti
citato da Grazia Livi in
Le lettere del mio nome
La Tartaruga edizioni 1991

martedì 21 aprile 2015

Scrivere è inventare il silenzio e farne una condizione di vita

Organizzai in modo diverso la mia giornata. Non mi era stato forse detto che nella mia scrittura s'intravedeva qualcosa di diverso? 
Era l'altra identità che s'affacciava al reticolato delle parole consumate, piegate a mille usi, e si guardava intorno. 
Era lei che aveva bisogno di essere alimentata. 
Come? Lo capii gradualmente. 
Prima di tutto preparandole un'area di raccoglimento e di piena gratuità. L'unico committente era interno e siccome era molto debole, bastava il minimo pretesto perché si confondesse: una visita, un mal di denti, un litigio, un capriccio, una cattiva lettura, un dovere. 
Dovetti irrobustire la sua voce e cercai di ridurre certe interferenze, anche se questo aumentava la mia cattiva coscienza.
Dovetti inventare il silenzio e farne, in certe ore, la mia condizione di vita.
Nel silenzio mi imposi un lavoro assiduo, come un falegname che pialla il legno. 
Volevo ridestare da quel giacimento di cui ho detto prima - oscuro, grumoso - il maggior numero di parole possibili. E di volta in volta volevo legare quelle parole al bagaglio in trasformazione dei miei pensieri e dei miei sentimenti. 
Col tempo si creò un ricco scambio fra il sentire e le parole che lo avrebbero rivelato: scambio che la scrittura rese visibile.
Non una grande scrittura, una scrittura che faceva il suo tirocinio un po' a sbalzi. Che insisteva, si ripeteva. Che cercava di non disgregarsi nei compiti familiari - spesso noiosi - anzi li teneva insieme con la volontà di viverli fino in fondo.
Imparai che non bisogna scartare nulla di una vita: ogni minima cosa, anche la più trita, è seme per l'esperienza.
A poco a poco la mia identità prese a riconoscersi - e a sfaccettarsi - attraverso le parole scritte e le parole presero a radicarsi nell'identità. 
Il linguaggio - uno scavo nella coscienza - si approfondì e mi promise di diventare il mio fedele specchio. 
Quante severe implicazioni, in questo miraggio!  Quanta concentrazione! 
Ma era finalmente un lavoro rivolto all'interno, è sempre questo che intendo quando dico "scrittrice". 
E quando dico "giornalista" intendo l'opposto: una che si volge impulsivamente ai fatti, e li insegue, e crede di afferrarli al volo, fin quando si trova lontanissima da sé, dispersa e consumata da una vana corsa.
Allora il principale problema - lo fu per me - sarà di rientrare a casa
La casa del linguaggio è approdo e permanenza.
Per usare le parole di Gianna Manzini - le scrisse nel '45, a proposito di Virginia Woolf - il problema sarà imparare "a raccogliersi l'anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori". 
Fu uno stato di necessità per lei. Dal quale scaturì un modo di essere scrittrice che volle definire così: una specie di "monacazione non palese".
Trascrivere oggi questa definizione fa un certo effetto. Nulla potrebbe apparire più inattuale e incongruo. Ma la Manzini aggiunse che, da quel modo di essere, le derivava una "scabrosa libertà".
1993


Grazia Livi
Narrare è un destino
La Tartaruga edizioni 2002 

lunedì 20 aprile 2015

Scrivere è cercare un lampo che getti luce su tutto, è afferrare fulgide stelle che cadono nella piena estate, in mezzo alla notte

Ora mi chiedo: davvero narrare è un destino?
Avevo sette anni quando dichiarai in famiglia che volevo diventare scrittrice. 
Per una serie di coincidenze e di scelte ho poi onorato quel sogno ingenuo, che mi permetteva di salvarmi dai naufragi della sensibilità, mi spingeva a rafforzarmi nella disciplina, mi avviava verso un progetto di indipendenza. 
La parola scritta ha così dominato la mia vita. Tuttora la domina. Anche se la figura di scrittrice che immaginai da bambina si è trasformata, a causa dei profondi mutamenti sociali: omologazione, potenza dei media, mercato trionfante, globalità; ormai non coincide più con quel ruolo, quel mito. Non esiste più.
Al posto di quella figura c'è una donne come tante, la cui particolare inclinazione è di farsi assorbire dalle parole scritte e la cui esigenza è di cercare una sintesi che valga per la conoscenza e per la solitudine.
Cosa intendo per sintesi? Intendo un segnale di verità, un lampo che getti una luce su tutto. 
La via di chi scrive è contrassegnata da questi lampi. Da anni, tuttavia, ho smesso di chiedermi dove portano: questa è la novità. Forse ho fatto mio un pensiero di Simone Weil: "Distacco dai frutti dell'azione. Sottrarsi a questa fatalità". 
In mezzo al mondo cambiato continuo il lavoro che ho scelto. Per necessità, per innata fedeltà. Sono persuasa che non c'è alcun punto, nella realtà, a cui mirare come a una conquista. Mi aspetto gioia e sorpresa solo da quei lampi di cui ho detto prima: per loro guardo attentamente oltre i disordini e i mutamenti.
E mi tengo pronta ad afferrarli, quasi fossero stelle in fulmineo transito: fulgide stelle che cadono nella piena estate, in mezzo alla notte.
agosto 2002


Grazia Livi
Narrare è un destino
La Tartaruga edizioni 2002 

domenica 19 aprile 2015

il fruscio del castagno, le cui fronde verdi potevano ospitare tutto: nidi, gemme, utopie, scoiattoli, sogni

Era felice d'essere lì, all'insaputa di tutti. Sentiva i cigolii intermittenti della sega e i tonfi della legna, subito raccolta dalle mani di Peter. E il cinguettio delle rondini. E il fruscio del castagno, le cui fronde verdi potevano ospitare tutto: nidi, gemme, utopie, scoiattoli sogni. Già, i sogni. Uscire fuori da lì. Pedalare via in bicicletta, Peter e lei. Correre per strada, mano nella mano, indossando abiti fragranti, mangiar pasticcini. Pattinare leggeri in mezzo a ragazzi alati, con le sciarpe al vento, coi berretti multicolori... Poiché l'attesa si prolungava, fu colta da una tale voglia di vivere che accostò una sedia al muro, vi mise sopra un panchetto e montò leggera su quella torre in pericolo. Stava violando un divieto. Tuttavia allungò il collo fino ad afferrare, in una sola occhiata, tetti, fronde, camini, facciate, finestre, altane, formicolio di passanti, cielo senza neanche una nube. 'Amsterdam!' gridò a labbra chiuse. Si teneva in bilico, abbacinata, stringendo con la mano i capelli sulla nuca perché non traboccassero fuori. 'Finché questo c'è ancora e io posso godere questo cielo senza nuvole non ho il diritto di essere infelice'. Qualcosa di luminoso si levo più volte e ricadde all'orizzonte, come in uno spruzzo d'acque. Pensò: 'Aquiloni'. E subito accompagnò quel volo con tre parole: natura, felicità interiore, bellezza. Cauta, con quei tre concetti, dovette discendere, ma li teneva stretti. Sedette di nuovo per terra, con la fronte appoggiata alle ginocchia. Era calma. Una pienezza mai provata le faceva guardare le mattonelle spaccate, come se non le vedesse. Le fessure sporche fra l'una e l'altra. Gli insetti morti. Ora un ragnetto da una fessura risalì obliquo, le arrancò su per il piede. Lei lo lasciò fare. Non era più turbata da nulla: solo emozioni vaste che si stendevano su di lei, come certezze. E d'un tratto qualcosa di alto e fulmineo: un'intuizione. Ne fu attraversata come da un fremito, ma poiché aveva fianchi magri e spallucce strette, l'intuizione traboccò, formando una pozza di luce per terra. lei si specchiò in quella pozza. 'Dio' disse con tutta se stessa. Esisteva. L'amava. Faceva tutt'uno con lei, con Amsterdam, con l'umanità, con tutte le infinite possibilità di vivere e morire che le stavano attorno. Pensò fra sé indicibilmente: 'Dio vuol vedere gli uomini felici'. E poco dopo, nel diario,: "Tutto è come deve essere".

Grazia Livi
Le lettere del mio nome
Anna Frank. La confidente
La Tartaruga edizioni 1991 

sabato 18 aprile 2015

Scrivere è conquistarsi tutt'altro spazio

Da tempo il suo vero problema è 'come conquistarsi un pezzetto di spazio'. Certo non lo stesso spazio di Thoby che andava in treno a Cambridge, fantasticando di diventare un giorno il giudice Stephen 'con diverse pubblicazioni al suo attivo, libri di diritto, un paio di libri sugli uccelli'. Né lo stesso di George che al mattino, s'avviava verso il Ministero del Tesoro 'elegante e ben disposto, con i calzini a righe e scarpette ben lustre (...) dandosi un ultimo colpetto al cilindro con il guanto di velluto'. Era tutt'altro spazio. coincidente con porte e pareti. Con la sua stessa persona. Con la singolarità custodita fra le pieghe della persona, come un cuore nascosto. Con le parole traboccanti di quel cuore, che potevano essere dette solo a tavolino, come una scrittrice.


Grazia Livi

Le lettere del mio nome
Virginia Woolf.  Il grembo
La Tartaruga edizioni 1991

venerdì 17 aprile 2015

separare la parola dal senso

Guardava verso la finestra. 'Finestra' pensava, stringendosi addosso la propria americanità, come una coperta. Restava in attesa. La parola non doveva portarsi dietro alcuna associazione. Né doveva avere la benché minima qualità descrittiva. Nuda, doveva essere. Esatta come la matematica. La pronunziava fra sé e le sottraeva il senso. Ma era possibile separare la parola dal senso? 'Ho fatto innumerevoli sforzi perché le parole si scindessero dal senso e l'ho trovato impossibile'. Rimetteva la parola finestra dentro il suo significato. E la pronunziava ancora fin quando 'non aveva il suo peso e il suo volume completo'. Infine, era rinata coincidendo con la cosa concreta.

Grazia Livi
Le lettere del mio nome

Gertrude Stein. L'unica
La Tartaruga 1991

giovedì 16 aprile 2015

Lo stile è quel particolare equilibrio interno di ogni pagina

Scrivere significa anche attenersi alla fedeltà più profonda: quella che attiene allo stile, ossia al particolare equilibrio interno di ogni pagina.

Grazia Livi
Le lettere del mio nome
La Tartaruga 1991

giovedì 5 febbraio 2015

Una tessitura accurata, un equilibrio di tutte le parti: questo significa scrivere racconti

Cosa significa affidarsi alla misura stretta di un racconto rispetto all'architettura di un romanzo?

Nel romanzo si diluiscono le difficoltà. In un racconto non mi piace il tono muscolare della scrittura, ma il nitore. Amo la sapienza accorta, il taglio artigianale, l'idea che qualcosa possa essere fatta per bene, senza fretta e sciatteria. Non mi interessa la storia o la scena. Non sono una scrittrice di fatti. Mi basta un particolare, un trasalimento o un moto affettivo. È questo che coordina a sé le parole come in un movimento a spirale. Bado che ci sia una tessitura accurata, un equilibrio di tutte le parti. Non è intimismo ma intimità. Ognuna di quelle parole passa per il corpo, entra in profondità, si inscrive in una linea fluida. Poi c'è da stabilire un contatto tra questo fluire e il segno sulla pagina. È il momento della forma: unione di materia e astrazione, corpo e spirito.



La conversazione di Grazia Livi  con Marina Peral Sànchez e Lucia Tancredi a Milano nel maggio 2014 è in appendice alla raccolta di racconti Sognami ancoragià editi e scelti da Grazia con il figlio Gabriele, pubblicata dalla casa editrice ev di Treia (MC)

mercoledì 4 febbraio 2015

l'ostinato stare chino sullo strumento

Qual è la qualità che occorre per scrivere?

La pazienza. Come dice il poeta Rilke: l'ostinato stare chino sullo strumento. Una pazienza umile e giornaliera, come potrebbe essere quella dell'artigiano che leviga e tornisce il legno.
Forse è una caratteristica toscana, della mia gente. Mi incantano gli artigiani, la loro passione e il loro fare le cose per bene. Mio figlio fa il restauratore, in questa cura per la materia ci intendiamo molto.

La conversazione di Grazia Livi  con Marina Peral Sànchez e Lucia Tancredi a Milano nel maggio 2014 è in appendice alla raccolta di racconti Sognami ancora già editi e scelti da Grazia con il figlio Gabriele, pubblicata dalla casa editrice ev di Treia (MC)


lunedì 2 febbraio 2015

Inventare destini guardando le finestre illuminate

Guardo le finestre illuminate e immagino la quiete e la riflessione altrui, mi invento destini accesi come lampade.

Grazia Livi
L'approdo invisibile
Garzanti 1980

mercoledì 28 gennaio 2015

Scrivere in una prosa speciale per arrivare al cuore dell'esperienza

Come arrivare al cuore dell'esperienza, si chiede, come disegnare la linea chiara, lieve, incisa alitante.
"Forse non in poesia, né forse in prosa. Quasi certamente in una sorta di prosa speciale".

Grazia Livi su Katherine Mansfield
Da una stanza all'altra
Stanza d'affitto
Garzanti 1984

martedì 20 gennaio 2015

Lo stile e le parole necessarie sono il "centro" di ogni scrittore

In definitiva lei è arrivata a crearsi un suo stile molto personale. Posso chiederle quali strumenti ha usato?

Gli strumenti sono stati molti, lo sono per ogni scrittore. La cosa importante è riuscire a fonderli così come si cerca di fondere le varie componenti di sé fino ad arrivare al proprio “centro”.
Lo stile è espressione di questo centro, di questo “unicum”, che lo scrittore degno di questo nome (tanti, nel mondo, sono gli scriventi) cerca di esprimere con le sue parole più necessarie.
L’autenticità, infatti, è il fondamento di ogni scrittura che si rispetti.

frammenti di untervista di Maria Antonietta Cruciata a Grazia Livi
pubblicata sulla rivista Caffè Michelangiolo gennaio-aprile 2007

lunedì 19 gennaio 2015

Scrivere è una continua presenza a se stessi: in ricordo di Grazia Livi

Grazia Livi era una scrittrice di genio, una donna straordinaria e una grande amica. E' scomparsa a Milano il 18 gennaio 2015.

Voglio ricordarla ripubblicando la voce che le ho dedicato per l'Enciclopedia della donne.

Grazia Livi

Firenze 19 marzo 1930 - Milano 18 gennaio 2015

Nata in una famiglia fiorentina di intellettuali e docenti universitari, Grazia Livi sente in tenera età il richiamo di una vocazione. «Avevo sette anni quando dichiarai in famiglia che volevo diventare scrittrice. Per una serie di coincidenze e di scelte ho poi onorato quel sogno ingenuo, che mi permetteva di salvarmi dai naufragi della sensibilità, mi spingeva a rafforzarmi nella disciplina, mi avviava verso un progetto di indipendenza. La parola scritta ha così dominato la mia vita. Tuttora la domina. Anche se la figura di scrittrice che immaginai da bambina si è trasformata, a causa dei profondi mutamenti sociali: omologazione, potenza dei media, mercato trionfante, globalità; ormai non coincide più con quel ruolo, quel mito. Non esiste più. Al posto di quella figura c’è una donna come tante, la cui particolare inclinazione è di farsi assorbire dalle parole scritte e la cui esigenza è di cercare una sintesi che valga per la conoscenza e per la solitudine». Inizia con questa dichiarazione la raccolta di saggi di Grazia Livi Narrare è un destino. La proclamazione di se stessa come scrittrice è dunque coronata da un’intera esistenza consacrata alla scrittura e dedicata a interpretare e avvicinare il mistero della scrittura femminile. 
Dopo essersi laureata in filologia romanza con Gianfranco Contini e avere avuto come maestri anche De Robertis, Longhi, Salvemini e Migliorini, intraprende una vita da donna sposata ma già emancipata, in anticipo sui tempi e con la volontà precisa di «sottrarre la mia identità all’informe destino femmineo». Il lavoro di giornalista e inviata per «La Nazione», «Epoca», «Il Mondo» e «L’Europeo» le fa incontrare alcune tra le più eminenti figure del Novecento, come Le Corbusier, Menuhin, Schweitzer, rimanda solo di poco il confronto con la grande sfida della scrittura, l’esigenza che «le parole mettessero ordine, conferissero un senso, una lucidità, una ragione». L’intensa attività giornalistica finì quando Grazia sentì che era arrivato il momento di “rientrare a casa. La casa del linguaggio e approdo e permanenza... e come scrisse Gianna Manzini a proposito di Virginia Woolf, il problema sarà «imparare a raccogliersi l’anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori»". La bambina distratta e sognatrice si desta dunque da un sogno lungo una vita ed entra nella realtà della scrittura, nella pagina non più bianca dove la parola scritta regna e rimedia il disordine e le lacerazioni dell’anima. La fame di parole veniva saziata da letture precoci di scrittrici e scrittori che saranno poi i compagni della vita, i modelli e una fonte altissima di ispirazione. La lettura sarà, così come accade per una delle protagoniste di uno dei suoi racconti, un’isola di beatitudine e di pace. Lo studio tenace prima e la concretezza del lavoro di giornalista le diedero parte degli strumenti che, uniti al carattere determinato e all’amore per le parole, le permisero di dedicare la vita alla scrittura. Le tappe della consapevolezza e della maturazione segnano il giro dei decenni. A venti anni «il sogno di diventare scrittrice si radicò in me come una priorità»; passati i trent’anni «capii che dovevo affrontare me stessa, dando ascolto alle mie vere aspirazioni e organizzando i miei talenti». Il primo romanzo Gli scapoli di Londra venne recensito sul «Corriere della Sera» da Eugenio Montale che affermò «che poche donne sanno scrivere come Grazia Livi». Anche il poeta Mario Luzi le scrisse una lettera di apprezzamento che preconizzava «intravedo nel suo lavoro un destino d’artista». Tra gli incontri significativi della sua vita vanno senz’altro ricordati quello con Anna Banti, cui ha dedicato un bellissimo saggio nel libro Le lettere del mio nome. La Banti, altera e tranchant nei giudizi, era un’autorità letteraria riconosciuta, certo non era una donna materna ma amava incoraggiare persone che riteneva avessero valore. Lontana per età e censo dalle rivendicazioni femministe, rimproverava un po’ alla Livi il suo essere femminista, ma fu lei a incoraggiarla a scrivere e le commissionò i primi articoli per la rivista «Paragone» a partire da quello dedicato a Virginia Woolf che la Banti definì “bellissimo”. Tra le tante amicizie importanti ne ricordiamo due anche perché da anni segnano un rapporto di scambio artistico e letterario. Le due scrittrici sono Marisa Bulgheroni, studiosa e traduttrice di Emily Dickinson, e Gabriella Fiori autrice di una bellissima biografia della filosofa Simone Weil e studiosa di Maria Zambrano. La consapevolezza di sé è conquistata anche grazie all’analisi junghiana, leggere un saggio di Jung le diede «un senso di rivelazione. Più ancora dei concetti, mi colpì la dimensione nei quali erano immersi: vasta, feconda gratificante. Sentii un’aria di perennità». Fu così grazie all’analisi che «venni a patti con le mie aspirazioni: nessuna parola scritta avrebbe esaurito la verità tutta intera. Di conseguenza divenni più aperta al lato notturno della vita: ambiguità, contraddizioni. Anche la mia scrittura subì a poco a poco dei cambiamenti. Due almeno mi sono chiari. Uno è il ritmo che si fece più mosso e ondulato, come spinto dall’interno verso l’esterno da un’energia ridestata. L’altro riguarda il lessico che perse certe angolosità e forse si aprì all’ingresso di vocaboli più impuri e polivalenti». Da questa apertura sono nati alcuni dei libri italiani più belli degli ultimi decenni, come Da una stanza all’altra, dedicato a Jane AustenKatherine Mansfield, Caterina Percoto,  Emily Dickinson, Anaïs Nin, Virginia Woolf; Le lettere del mio nome, un romanzo-saggio dove incontra, straordinarie figure femminili, alcune già raccontate nel libro precedente, come Colette, Virginia Woolf, Gertrude Stein, Anne Frank, Gianna Manzini, Anna Banti, Ingeborg Bachmann, Carla Lonzi, Agnes Bojaxhiu. Leggendo Grazia Livi accade che i suoi libri ci parlino dal profondo e profondamente di noi, non tanto di quanto già sapevamo e condividiamo con la scrittrice, ma di quanto non sapevamo di essere e di sapere. Con i racconti del volume Il vento e la moto, una volta di più si sente la sua capacità di suscitare meraviglia. Accettando l’assioma che la vera esperienza è indicibile e il silenzio la sua lingua, in questa indicibilità lei è capace di cogliere il cuore muto e luminoso della verità. Capace di raccontare la verità delle esistenze femminili come pochi altri scrittori contemporanei, Grazia Livi racconta poi gli uomini, figli e padri in particolare, con un lento avvicinamento che rivela la radicale alterità del genere maschile. È con il romanzo Lo sposo impaziente, dedicato a Tolstoj e alla moglie Sof’ia Andreevna e in parte ispirato dai loro diari, che lei narra, con tono febbrile, il viaggio e la prima notte di nozze della coppia, l’atmosfera russa, i tormenti dell’anima, il conflitto tra artista e comunità, la passione della scrittura: «Sentiva un furioso bisogno di annotare, ma temeva di non avere niente indosso per farlo». Per poter parlare di questo grande scrittore Livi è stata in Russia, è partita dai documenti e ha messo in relazione due psicologie per arrivare a dire nell’intimo la realtà di un’anima maschile. Sempre piena di stupore e curiosità sa accogliere con impazienza e generosità le richieste di chi inizia a muovere i primi passi nel mondo della scrittura. E più che raccontarsi fa domande perché ha un interesse genuino nei confronti degli esseri umani. Continua a scrivere, circondata dai libri più amati perché «la parola scritta, ha esercitato su di me un particolare incanto. Questo incanto è stato accompagnato misteriosamente, da una specie di obbligo interno, a cui ho obbedito, negli anni facendo dello scrivere la mia professione. Nessuno mi ha mia chiesto, né imposto di scrivere, tranne io stessa. Anzi le circostanze mi hanno spesso scoraggiata. L’assoluta gratuità di questa mia scelta è l’unico segno della sua necessità». Riservata per quanto riguarda gli aspetti della vita privata, Grazia Livi è stata sposata due volte. La vita di coppia e la nascita del figlio Gabriele non le hanno impedito di raggiungere il destino agognato, essere una donna che scrive. Scrivere «è una continua presenza a se stessi… perché la scrittura non è un altro.. la scrittura è permeata dai miei pensieri». 

Fonti, risorse bibliografiche, siti
G. Livi, La distanza e l’amore, Garzanti 1978
G. Livi, L’approdo invisibile, Garzanti 1980
G. Livi, Da una stanza all’altra, Garzanti 1984
G. Livi, Le lettere del mio nome, La Tartaruga edizioni 1991
G. Livi, Vincoli segreti, La Tartaruga edizioni 1994
G. Livi, La finestra illuminata, La Tartaruga edizioni 2000
G. Livi, Narrare è un destino, La Tartaruga edizioni 2002
G. Livi, Lo sposo impaziente, Garzanti 2006
G. Livi, Il vento e la moto, Garzanti 2008

venerdì 24 maggio 2013

Sul mio balcone, nel buio: Milano

Rigiro questi pensieri seduta sul mio balcone, nel buio. La partenza è per domani. Intanto bevo un bicchiere di vino ghiacciato, fra tralci d'edera, sperando che nessuno mi chiami al telefono. Desidero starmene nascosta, nel silenzio delle cose che m'attorniano. Solo il silenzio produce equilibrio, per me. Temo ogni repentinità, ho paura di essere distolta. Siccome abito a un quindicesimo piano, la città mi sta attorno, ammansita e notturna. La grande città! Ora posso osservarla, in piena calma. Di fronte a me il lume verde d'un ascensore percorre l'armatura di ferro di una torre. È lontano abbastanza per apparirmi oscillante come la stella di un presepe. Ci deve essere una terrazza, all'ultimo piano, là dove l'ascensore si arresta a lungo, affinché i turisti contemplino il paesaggio in una illusione di dominio, mentre il vento del parco irrompe tutt'attorno.
La città, vista dall'alto, è bella. So d'averla amata al tempo in cui, vari anni fa, decisi di stabilirmici. E so d'averla vivificata, gettando su di essa tutte le mie aspettative ansiose di prorompere. Era, ai miei occhi, la capitale del nord, sbiancata da migliaia di luci al neon, protesa a inventare una vita adatta alla misura nuova dell'uomo, intenta a convertire ogni sforzo in strumenti efficiente e in comfort. La sua profonda potenzialità arrivava al mio orecchio con un fremito. I sobborghi, ad esempio, stavano divorando giorno per giorno la pianura, mentre il centro, in slanci di rinnovata potenza, non faceva che fiorire verticalmente: grattacieli, torri, ciminiere.
Accadde molti anni fa e ora osservo tutto questo, senza ritrovare il sentimento d'allora. Sento che la città ha esaurito da tempo il suo slancio. Una volta attuate le sue progettazioni in cemento-vetro, perforato il suo grembo coi cunicoli della metropolitana, drizzati ai margini i suoi casamenti- baluardo impietriti nella ripetizione di sé, ecco che la tensione fantastica, in lei, si è esaurita assai presto. Oggi la città è muta, nella sua compattezza. Qua e là restano le punte di una bellezza antica o ipermoderna, apprezzabile solamente dall'alto: le lontane guglie del Duomo, la merlatura del castello medievale che i fari avvampano di rosa-arancio, la superficie di certi edifici lucenti e piatti (la mostruosa utopia di un architetto d'avanguardia li ideò senza finestre) e in alto in mezzo al cielo, la luna che è salita adagio ed è ferma lassù, sul pennone slanciato della notte.

Grazia Livi
L'approdo invisibile
Garzanti 1980

lunedì 25 marzo 2013

Grazia Livi raccontata da me

Sull'Enciclopedia delle donne è appena uscita la voce che ho dedicato a una delle mie scrittrici contemporanee preferite.

Grazia Livi

Firenze 1930 - vivente


Nata in una famiglia fiorentina di intellettuali e docenti universitari, Grazia Livi sente in tenera età il richiamo di una vocazione. «Avevo sette anni quando dichiarai in famiglia che volevo diventare scrittrice. Per una serie di coincidenze e di scelte ho poi onorato quel sogno ingenuo, che mi permetteva di salvarmi dai naufragi della sensibilità, mi spingeva a rafforzarmi nella disciplina, mi avviava verso un progetto di indipendenza. La parola scritta ha così dominato la mia vita. Tuttora la domina. Anche se la figura di scrittrice che immaginai da bambina si è trasformata, a causa dei profondi mutamenti sociali: omologazione, potenza dei media, mercato trionfante, globalità; ormai non coincide più con quel ruolo, quel mito. Non esiste più. Al posto di quella figura c’è una donna come tante, la cui particolare inclinazione è di farsi assorbire dalle parole scritte e la cui esigenza è di cercare una sintesi che valga per la conoscenza e per la solitudine». Inizia con questa dichiarazione la raccolta di saggi di Grazia Livi Narrare è un destino. La proclamazione di se stessa come scrittrice è dunque coronata da un’intera esistenza consacrata alla scrittura e dedicata a interpretare e avvicinare il mistero della scrittura femminile. 
Dopo essersi laureata in filologia romanza con Gianfranco Contini e avere avuto come maestri anche De Robertis, Longhi, Salvemini e Migliorini, intraprende una vita da donna sposata ma già emancipata, in anticipo sui tempi e con la volontà precisa di «sottrarre la mia identità all’informe destino femmineo». Il lavoro di giornalista e inviata per «La Nazione», «Epoca», «Il Mondo» e «L’Europeo» le fa incontrare alcune tra le più eminenti figure del Novecento, come Le Corbusier, Menuhin, Schweitzer, rimanda solo di poco il confronto con la grande sfida della scrittura, l’esigenza che «le parole mettessero ordine, conferissero un senso, una lucidità, una ragione». L’intensa attività giornalistica finì quando Grazia sentì che era arrivato il momento di “rientrare a casa. La casa del linguaggio e approdo e permanenza... e come scrisse Gianna Manzini a proposito di Virginia Woolf, il problema sarà «imparare a raccogliersi l’anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori»". La bambina distratta e sognatrice si desta dunque da un sogno lungo una vita ed entra nella realtà della scrittura, nella pagina non più bianca dove la parola scritta regna e rimedia il disordine e le lacerazioni dell’anima. La fame di parole veniva saziata da letture precoci di scrittrici e scrittori che saranno poi i compagni della vita, i modelli e una fonte altissima di ispirazione. La lettura sarà, così come accade per una delle protagoniste di uno dei suoi racconti, un’isola di beatitudine e di pace. Lo studio tenace prima e la concretezza del lavoro di giornalista le diedero parte degli strumenti che, uniti al carattere determinato e all’amore per le parole, le permisero di dedicare la vita alla scrittura. Le tappe della consapevolezza e della maturazione segnano il giro dei decenni. A venti anni «il sogno di diventare scrittrice si radicò in me come una priorità»; passati i trent’anni «capii che dovevo affrontare me stessa, dando ascolto alle mie vere aspirazioni e organizzando i miei talenti». Il primo romanzo Gli scapoli di Londra venne recensito sul «Corriere della Sera» da Eugenio Montale che affermò «che poche donne sanno scrivere come Grazia Livi». Anche il poeta Mario Luzi le scrisse una lettera di apprezzamento che preconizzava «intravedo nel suo lavoro un destino d’artista». Tra gli incontri significativi della sua vita vanno senz’altro ricordati quello con Anna Banti, cui ha dedicato un bellissimo saggio nel libro Le lettere del mio nome. La Banti, altera e tranchant nei giudizi, era un’autorità letteraria riconosciuta, certo non era una donna materna ma amava incoraggiare persone che riteneva avessero valore. Lontana per età e censo dalle rivendicazioni femministe, rimproverava un po’ alla Livi il suo essere femminista, ma fu lei a incoraggiarla a scrivere e le commissionò i primi articoli per la rivista «Paragone» a partire da quello dedicato a Virginia Woolf che la Banti definì “bellissimo”. Tra le tante amicizie importanti ne ricordiamo due anche perché da anni segnano un rapporto di scambio artistico e letterario. Le due scrittrici sono Marisa Bulgheroni, studiosa e traduttrice di Emily Dickinson, e Gabriella Fiori autrice di una bellissima biografia della filosofa Simone Weil e studiosa di Maria Zambrano. La consapevolezza di sé è conquistata anche grazie all’analisi junghiana, leggere un saggio di Jung le diede «un senso di rivelazione. Più ancora dei concetti, mi colpì la dimensione nei quali erano immersi: vasta, feconda gratificante. Sentii un’aria di perennità». Fu così grazie all’analisi che «venni a patti con le mie aspirazioni: nessuna parola scritta avrebbe esaurito la verità tutta intera. Di conseguenza divenni più aperta al lato notturno della vita: ambiguità, contraddizioni. Anche la mia scrittura subì a poco a poco dei cambiamenti. Due almeno mi sono chiari. Uno è il ritmo che si fece più mosso e ondulato, come spinto dall’interno verso l’esterno da un’energia ridestata. L’altro riguarda il lessico che perse certe angolosità e forse si aprì all’ingresso di vocaboli più impuri e polivalenti». Da questa apertura sono nati alcuni dei libri italiani più belli degli ultimi decenni, come Da una stanza all’altra, dedicato a Jane AustenKatherine Mansfield, Caterina Percoto,  Emily Dickinson, Anaïs Nin, Virginia Woolf; Le lettere del mio nome, un romanzo-saggio dove incontra, straordinarie figure femminili, alcune già raccontate nel libro precedente, come Colette, Virginia Woolf, Gertrude Stein, Anne Frank, Gianna Manzini, Anna Banti, Ingeborg Bachmann, Carla Lonzi, Agnes Bojaxhiu. Leggendo Grazia Livi accade che i suoi libri ci parlino dal profondo e profondamente di noi, non tanto di quanto già sapevamo e condividiamo con la scrittrice, ma di quanto non sapevamo di essere e di sapere. Con i racconti del volume Il vento e la moto, una volta di più si sente la sua capacità di suscitare meraviglia. Accettando l’assioma che la vera esperienza è indicibile e il silenzio la sua lingua, in questa indicibilità lei è capace di cogliere il cuore muto e luminoso della verità. Capace di raccontare la verità delle esistenze femminili come pochi altri scrittori contemporanei, Grazia Livi racconta poi gli uomini, figli e padri in particolare, con un lento avvicinamento che rivela la radicale alterità del genere maschile. È con il romanzo Lo sposo impaziente, dedicato a Tolstoj e alla moglie Sof’ia Andreevna e in parte ispirato dai loro diari, che lei narra, con tono febbrile, il viaggio e la prima notte di nozze della coppia, l’atmosfera russa, i tormenti dell’anima, il conflitto tra artista e comunità, la passione della scrittura: «Sentiva un furioso bisogno di annotare, ma temeva di non avere niente indosso per farlo». Per poter parlare di questo grande scrittore Livi è stata in Russia, è partita dai documenti e ha messo in relazione due psicologie per arrivare a dire nell’intimo la realtà di un’anima maschile. Sempre piena di stupore e curiosità sa accogliere con impazienza e generosità le richieste di chi inizia a muovere i primi passi nel mondo della scrittura. E più che raccontarsi fa domande perché ha un interesse genuino nei confronti degli esseri umani. Continua a scrivere, circondata dai libri più amati perché «la parola scritta, ha esercitato su di me un particolare incanto. Questo incanto è stato accompagnato misteriosamente, da una specie di obbligo interno, a cui ho obbedito, negli anni facendo dello scrivere la mia professione. Nessuno mi ha mia chiesto, né imposto di scrivere, tranne io stessa. Anzi le circostanze mi hanno spesso scoraggiata. L’assoluta gratuità di questa mia scelta è l’unico segno della sua necessità». Riservata per quanto riguarda gli aspetti della vita privata, Grazia Livi è stata sposata due volte. La vita di coppia e la nascita del figlio Gabriele non le hanno impedito di raggiungere il destino agognato, essere una donna che scrive. Scrivere «è una continua presenza a se stessi… perché la scrittura non è un altro.. la scrittura è permeata dai miei pensieri». 
Fonti, risorse bibliografiche, siti
G. Livi, La distanza e l’amore, Garzanti 1978
G. Livi, L’approdo invisibile, Garzanti 1980
G. Livi, Da una stanza all’altra, Garzanti 1984
G. Livi, Le lettere del mio nome, La Tartaruga edizioni 1991
G. Livi, Vincoli segreti, La Tartaruga edizioni 1994
G. Livi, La finestra illuminata, La Tartaruga edizioni 2000
G. Livi, Narrare è un destino, La Tartaruga edizioni 2002
G. Livi, Lo sposo impaziente, Garzanti 2006
G. Livi, Il vento e la moto, Garzanti 2008

venerdì 18 gennaio 2013

I libri per me fecondi

Ricordo che non lessi Il mare non bagna Napoli ma lo bevvi, lo assorbii. Ne rimasi incantata. A turbarmi era una sensazione strana, nuova: la chiamerei di fecondità.
Cosa intendo? Intendo il racconto di una vita profondamente sentita. Intendo uno spessore e un risalto dato agli eventi, anche minimi, quasi fossero attraversati da un significato che non si vede perché scorre sotto, molto sotto, come una vena d'acqua. Intendo l'immediatezza delle parole che sgorgano dal centro degli affetti, senza trascurare il Logos, com'è abitudine diffusa, senza espellere gli opposti. La prosa si dispone così attorno a chi legge, come un grembo denso, amorevole, non come un edificio. Mi viene da dire che la prosa è stata composta non innalzata, come le opere di certi grandi romanzieri.

Dunque, per molti anni, la parola "fecondità" io l'associai alla scrittura della Ortese, come un'etichetta. Il mare non bagna Napoli fu il primo esempio. Poi a poco a poco la serie dei libri, per me fecondi, si ampliò e contenne molti esempi; le poesie di Emily Dickinson e di Christina Rossetti, i racconti di Carson Mc Cullers, i romanzi di Anna Banti, di Madame de Lafayette, di Jane Austen.
Poiché ero in cerca della mia identità - io credo che identità poetica e identità reale debbano procedere di pari passo e versarsi in un unicum che è vita e forma - entravo in quelle letture, come in intimi luoghi dove mi raccoglievo quasi fosse un convento. E mi riconoscevo. Sì, perché lì, in quei recinti, incontravo il linguaggio a me affine: quello che scaturiva dalle mie stesse esperienze, formava le mie stesse similitudini, s'intesseva di pensieri non troppo lineari, bensì permeati di commozione. Era il linguaggio della mia peculiarità femminile.

Grazia Livi
Narrare è un destino
La Tartaruga edizioni 2002

domenica 13 gennaio 2013

Scrivere è avere scelto la finestra da cui guardare

Prima bisogna avere scelto deliberatamente il proprio margine, la finestra da cui guardare. Allora il linguaggio fluisce e accoglie. Fluisce e accompagna lungo quella via rischiosa, piena di illusioni, dove l'inconscio si fa conscio a spese dell'abito, della maschera, del ruolo assunto o recitato, delle figure millenarie, assimilate senza saperlo.

Grazia Livi
Narrare è un destino
La Tartaruga Edizioni 2002