venerdì 31 agosto 2012

Delle cose invisibili e delle cose visibili

Delle cose invisibili e delle cose visibili, soltanto gli dei hanno conoscenza certa.
Gli uomini possono soltanto congetturare.

Alcmeone di Crotone

giovedì 30 agosto 2012

L'immagine del mondo è una costruzione della mente

L'immagine che ogni uomo ha del mondo è, e sempre rimane, una costruzione della sua mente, e non si può provare che abbia alcuna altra esistenza.

Erwin Schrodinger
Mind and matter

mercoledì 29 agosto 2012

E' la poesia, segno di un altrove, che sceglie lingua e materia?

Il blog di poesia della RAI curato da Luigia Sorrentino ospita una mia riflessione sulla poesia.
Questo l'incipit:

"È la materia che sceglie la sua lingua? Sono le cose che scelgono la forma? O è la poesia, segno di un altrove, che sceglie lingua e materia? Ed è il ritmo che accompagna la parola e la fa vibrare? O è la parola che si contorce intorno alla materia e trova il ritmo giusto per dire proprio quella cosa?"

Il resto lo trovate qui


La narrativa è la memoria, il fantasma, la lanterna magica

La narrativa è la memoria, il fantasma, la lanterna magica della realtà presente e passata, interna ed esterna all'uomo, dunque è necessaria alla società e alla civiltà, prima ancora dell'artista.

Francesca Sanvitale

martedì 28 agosto 2012

Sensibili a quei fili di silenzio

Bisogna rendersi sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto della parola è intramato.

Maurice Merleau-Ponty

lunedì 27 agosto 2012

Ogni storia impone la sua lingua

Ogni storia impone all'autore la lingua con la quale vuole essere raccontata.

Giuseppe Pontiggia

domenica 26 agosto 2012

Tu pensi per parole, per te il linguaggio è un filo inesauribile che tessi come se la vita si facesse narrandola.

Isabel Allende
Eva Luna racconta
traduzione di Gianni Guadalupi
Feltrinelli 1990

sabato 25 agosto 2012

Passeggiare sotto il cielo immenso

Vorrei uscire dal mio cuore e passeggiare sotto il cielo immenso.

Rainer Maria Rilke

Lasciarsi trascinare dal vento

Voglio essere trasportato dal vento.
Certo è difficile lasciarsi andare così, naturalmente, bisogna avere un proprio stile, un centro di gravità, la propria linea interpretativa.
Ma se vuoi essere trascinato dal vento, devi essere capace di gettare tutto questo dietro le spalle. Questo è il vero inizio.

Keith Jarret

venerdì 24 agosto 2012

Momento


Momento
senza sguardo né anima
né quiete o respiro,
senza Tao, senza Zen,
senza specchio o polvere,
peso o ala,
acqua fluente
o sponda immutabile,
momento frusciante
di mondi e assenze,
spoglio di sentieri
e deserti, fiore
dell’alba e della notte,
della stasi e del Tempo,
chiaro, indecifrabile:
momento.


Danilo Bramati

Idioti nell'ombra 
Atì editore 2010

giovedì 23 agosto 2012

l'Arte è una casa che tenta di essere stregata

La natura è una casa stregata - ma l'Arte è una casa che tenta di essere stregata.

Emily Dickinson
una lettera a T.W. Higginson 1876

Poesie e Lettere
traduzione, introduzione e note di Margherita Guidacci
Sansoni Editore 1961

mercoledì 22 agosto 2012

La civiltà della carta


Sul tavolo di legno ho riposto un foglio azzurro, un quaderno con la copertina marmorizzata bianca e nera, un quotidiano, un mazzo di carte, un bicchiere marrone e beige, un piatto giallo, un foglio illustrato con fiori stilizzati per impacchettare, un libro con la copertina rossa, un libro con la copertina nera, una vecchia fotografia in bianco e nero degli anni Sessanta, un calendario dell’anno passato, un’agenda dell’anno che verrà, una cartelletta con l’elastico di cartoncino grigio, una lettera scritta a mano, un mazzo di foglietti di appunti ingialliti dal tempo, tanti ritagli di vecchi giornali.
Cosa sarebbe la nostra vita senza la carta?
Immagina di far sparire tutti questi oggetti, potresti vivere senza?
Certo mi dirai, posso scrivere sul mio IPad o sul mio IPhone o sul mio pc. Tutto potrebbe sparire tranne la carta per impacchettare, il piatto e il bicchiere. Tutti gli altri oggetti servono solo come supporti alla scrittura e alle immagini.
Allora adesso sono con un tavolo vuoto, per cercare i  miei appunti, le fotografie, il libro che sto leggendo salto da una videata all’altra.
Scrivo e leggo esattamente come prima. Quasi come prima.
Non mi piace il tavolo vuoto. Quando scrivo voglio vedere intorno a me proprio quegli oggetti che ho elencato, e poi i pennarelli e le matite colorate, la stilografica con l’inchiostro turchese.
Senza carta sono un navigatore senza sestante.
La carta è una grande compagnia, la carta che era albero, la carta che sarà libro, la carta che custodisce i ricordi importanti.
La carta è la casa delle parole, è dove sostiamo presi tra l’istante e l’eternità. Non abbiamo altro luogo che ci appartenga se non la memoria e il filo sottile della carta che noi custodiamo.
Guardo fuori dalla finestra e saluto l’acero che copre la casa di fronte.
L’albero che non sarà carta e mi darà l’ombra, la carta che hai tenuto tra le mani e che continuerà a dirmi che sei esistito.
Che ero nei tuoi pensieri, poi nelle parole, e con le parole viaggio attraverso il tempo e tu sei ancora lo stesso.
Giovane e circondato di carta sul tuo tavolo nell’ombra della stanza, sul tuo tavolo nel sole a picco della Provenza.
Ancora scrivi e così da un capo all’altro del tempo sappiamo
che non abbiamo perduto quel momento ma solo il suo profumo.

martedì 21 agosto 2012

La città di vetro


Aspettavo ogni giorno, in piedi sulla riva del lago, che la città si rivelasse ai miei occhi. In pochi credevano che esistesse, chi l'aveva veduta era impazzito, chi aveva donato al dio delle risa i suoi pensieri aveva smesso di cercare, chi era partito non aveva più  trovato il filo del ritorno. O forse si era solo lasciato morire nel lago per non dire la propria sconfitta.

Cosa resta di un uomo che ha perduto la sua visione? Cosa resta di un uomo che ha smesso di desiderare?

Ah maledetta mattina in cui i miei occhi d'infanzia hanno visto per un attimo, perfetto e rotondo, gli altissimi palazzi, i monumenti, le strade della città di vetro rilucere nel mio mattino.

Il sole attraversava le antiche mura dando loro consistenza e colore.

Le acque del lago, bianche nel riverbero dell'alba, si aprirono come uno specchio e la città si mosse dal centro dell'acqua sino a me.

Le mie mani diventarono azzurre, la mia fronte splendeva, il cielo era rosso come i lamponi, rosso come il sangue, rosso come i papaveri, rosso come un bambino vede il rosso.

Mia madre mi chiamò dalla porta di casa, la città scomparve, io persi la visione e imparai a desiderare.

La città è in me da quel giorno, l'ho rubata al lago. Nessuno da allora ha più detto di averla veduta, tutti continuano a cercarla, io la custodisco come un segreto, come un tesoro rubato.

La città non ha parlato, non ha rivelato ancora a nessuno il suo mistero, non ha  raccontato le  sue storie.

La città dorme nel centro del lago, i suoi abitanti sono fatti di buio, i suoi abitanti sono fatti di stelle. Se così non fosse loro pure avrei veduto.

Io cerco una città che custodisco in me e dietro i miei occhi marchiati dal sole, è una galassia dalle braccia colorate che ruota verso sinistra a dirmi che la città è la sua capitale.

Io sono il palazzo con le finestre aperte e bianche, io sono la città intera e la galassia che ruota.

Mia madre mi sta ancora chiamando, ferma sulla porta della cucina.

La città porta il mio nome, io porto il volto di questa città.

Perché‚ un palazzo non basta a contenere la mia visione.

Io non ho perduto nulla se non il coraggio di guardare. Lascio che i colori si sciolgano sulle mie mani, imprecisi come un ricordo lontano, sfumati come il sapore della tua bocca la prima volta che ti ho baciata.

La città dorme in me, tranne quel poco che ho lasciato sulla tela.

Il cielo è rosso, le mie braccia stanche.

Io sono la visione, quel cielo rosso, io sono la tela e la ragione, la voce che fa vibrare l'acqua del lago.

Io sono, perché‚ in quell'acqua cerco il mio vero volto.


A Roberto Plevano da Elena Petrassi
un racconto scritto nel maggio del 2000 per 
un amico pittore ispirandomi al quadro che apre
il suo sito

lunedì 20 agosto 2012

La civiltà degli alberi

Immaginiamo un mondo senza alberi e vedremo un deserto.
Immaginiamo il nostro mondo quotidiano, la nostra città, la nostra campagna, senza alberi.
D’estate mancherebbero l’ombra, il canto degli uccelli, i frutti maturi.
In autunno non vedremmo le foglie mutare colore, volteggiare e cadere a ricordarci che ogni stagione finisce.
D’inverno i rami nudi non ricamerebbero il cielo sbiancato, la corteccia non risplenderebbe sotto le gocce di pioggia.
In primavera non potremmo contare i germogli, né gioire dei fiori, né immaginare la stagione feconda che seguirà.
Sempre mancherebbero i rami dove potersi arrampicare, il tronco dove potersi appoggiare.
Non potremmo misurare l’altezza dei bambini e la nostra vecchiaia paragonandoci alla grande quercia.
Non potremmo paragonare il nostro dolore a quello del tronco millenario dell’ulivo che si contorce e abbevera di luce per poi maturare olive che i nostri frantoi attendono.
Senza le bianche betulle non potremmo sognare le steppe della Russia e Michele Strogoff, né raccoglierne le foglie a ogni stadio di maturazione per il nostro primo erbario.
Non potremmo sognare sotto il ciliegio, vedere la nuvola di petali cadere su Anton Cechov e Murasaki Shikibu e immaginare ogni fiore trasformato in parole immortali.
Non potremmo respirare l’aria pungente del bosco invernale, scuotendo i rami dell’abete per far cadere la neve. Né potremmo decorare un piccolo abete vivo con sfere luccicanti per festeggiare l’arrivo della stagione fredda dove la notte regna più del giorno.
Non potremmo respirare l’aroma dell’eucalipto sulle pendici dell’Etna e immaginare Katherine Mansfield giocare alla sua ombra prima di partire per il Vecchio Continente.
Senza alberi non avremmo costruito le prime case e le carrozze, non avremmo letti, armadi e librerie. Sempre mancherebbero le scrivanie dove scrivere le nostre opere, i tavoli dove condividere i pasti, i banchi dove poter studiare, le sedie dove poter riposare.
Su una di quelle scrivanie è adagiata una risma di fogli di carta.
Quella carta un tempo era un albero. Quell’albero ha bevuto la pioggia, respirato il vento, poi è stato abbattuto e tritato, mescolato, con il nostro lavoro è diventato qualcosa di nuovo. Quella carta che ora attende le nostre parole, quella carta che era legno, pioggia, terra scura e lavoro.


domenica 19 agosto 2012

Il mare a Milano


Quando attraverso il cortile, il mare lambisce le pietre squadrate, le piccole onde riverberano il sole e mi costringono a socchiudere gli occhi. Il profumo dell’oleandro rosa strappa la tela del tempo e sono sulla soglia della casa abbandonata. Le cicale friniscono e cantano al cielo la profondità della stagione che tutto divora. Un sentore di legno bruciato invade l’aria del mezzogiorno. È ancora estate, la città risplende nel silenzio delle cose. È ancora agosto, i campi riposano prima dell’aratura, è il tempo sospeso che non cerca risposte, che non vuole domande. Il mare si ritira al mio passaggio, è solo un cortile solitario, che si erge al centro della stagione matura. È solo Milano, è solo estate in un giorno d’agosto.

sabato 18 agosto 2012

L'estate è la stagione più timida

Una nuvoletta, come un piccolo sbuffo di fumo bianco, apparve nell'angolo della finestra.
L'estate è la stagione più timida.

John Banville
La lettera di Newton
Minimum fax 1998
traduzione di Francesca Olivieri

venerdì 17 agosto 2012

Dello scrivere in prima persona


Quando cominci a scrivere in prima persona, se le storie sono rese così reali che la gente ci crede, la gente che le legge quasi sempre pensa che le storie siano davvero successe a te. Questo è naturale perché quando le stavi inventando dovevi farle succedere alla persona che le stava raccontando. Se lo fai in modo sufficientemente efficace, accade che la persona che sta leggendo finisce col credere che le cose siano successe anche a lei. Se riesci a farlo stai cominciando a ottenere quello a cui miravi, cioè fare qualcosa che diventerà parte dell’esperienza del lettore e parte dei suoi ricordi. Ci devono essere delle cose che lui non ha notato leggendo il racconto o il romanzo che, senza che lui lo sappia, entrano nei suoi ricordi e nella sua esperienza in modo da essere parte della sua vita. Fare questo non è facile.
Quello che, se non facile, è quasi sempre possibile fare ai membri della scuola investigativa di critica letteraria è provare che l’autore di narrativa scritta in prima persona non può ragionevolmente aver fatto tutto quello che il narratore ha fatto e, forse, niente del tutto. Quale importanza abbia questo o che cosa provi se non che l’autore non è privo di immaginazione o di capacità inventiva io non l’ho mai capito.
Nei primi tempi in cui scrivevo a Parigi io inventavo non solo sulla base della mia esperienza ma anche delle esperienze e delle conoscenze dei miei amici e di tutte le persone che avevo conosciuto, o incontrato da quando ero in grado di ricordare, che non erano scrittori. Ho sempre avuto  la fortuna che i miei migliori amici non fossero scrittori e di aver conosciuto molte persone intelligenti capaci di raccontare.

Ernest Hemingway
Festa mobile
traduzione di Luigi Lunari
edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011

giovedì 16 agosto 2012

Prepararsi all’addio


Salutate la casa, il pozzo
gli ulivi, mettete delle colline
il profilo in un’altra quiete che
confonderà le querce
alle ciminiere.

Ai treni consegnate i giochi nei
campi, gli stornelli dell’estate  
lasciateli all’aia. Della cucina
prendete il fumo che con altro
fumo mescolerete.

All’orecchio non confidate
subito il segreto dell’oleandro,
lasciate che le  voci barbare
ne violino la sfera.

Il viaggio inizia con la terra
che non si stacca, non si
stacca dalle suole.


Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Moretti&Vitali 2004

mercoledì 15 agosto 2012

Milano Ferragosto 2003


Il sole pieno, il centro
dell’estate, nessun perdono
è il sale che ti asciuga la pelle.

Nelle strade che respiriamo
risuona una nenia di ragazza
la vedo all’angolo girare
sempre più veloce, mentre cerca
di guardarsi la schiena.

Sull’altro marciapiede un nano
e un ubriaco giocano alla morra
la carta vince sempre, hanno
dimenticato le forbici a casa.

Le saracinesche sono una teoria
di minuti sfuggiti all’orologio,
un tram della linea 29 fende
la frescura e il pensiero
si arroventa fino alla prossima
esausta fontana.

Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Moretti&Vitali 2004

martedì 14 agosto 2012

I campi bruciati dell’estate


                    a mia nonna   

Vicino alla tua ombra
giocavo al riparo
mentre l’aria seminava
intorno odore di orto
l’odore del tuo corpo.

Inginocchiata sulla terra
sfioravi i pomodori seguendo
i tuoi gesti antichi
discorso mai imparato
a memoria.

Io ti camminavo nei passi
sciogliendo ogni esitazione
nel fango. L’acqua non rifletteva
il cielo ai piedi delle piante
era la terra a specchiarsi
prima di bere.

Insieme salutavamo
la grande quercia
le colline gremite di ulivi
i campi bruciati dell’estate.

Questo il paesaggio inciso
nella pietra del passato.
Laggiù ci troviamo, a volte
a camminare di nuovo accanto.

Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Moretti&Vitali 2004

lunedì 13 agosto 2012

Ritratto dello scrittore che legge/3

Cominciai con Turgenev e presi i due volumi di Memorie di un cacciatore e un vecchio libro di D.H. Lawrence. Credo fosse Figli e amanti, e Sylvia mi disse di prendere altri libri se volevo. Scelsi la traduzione di Costance Garnett di Guerra e pace, e Il giocatore e altri racconti di Dostoevskij.

Ernest Hemingway il giorno in cui scoprì la libreria Shakespeare and Company


domenica 12 agosto 2012

Shakespeare and Company

A quei tempi non c'erano soldi per comprare libri. I libri li prendevo in prestito alla biblioteca circolante della Shakespeare and Company, che era la biblioteca e la libreria di Sylvia Beach al 12 di rue de l'Odéon. In una via fredda e spazzata dal vento, era un posto simpatico, caldo e accogliente con un grande camino in inverno, tavoli e scaffali di libri, libri nuovi in vetrina, e al muro fotografie di famosi scrittori, sia morti che viventi. Le fotografie avevano tutta l'aria di istantanee e anche gli scrittori morti avevano l'aria di essere stati vivi davvero.

Ernest Hemingway
Festa mobile
traduzione di Luigi Lunari
edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011

sabato 11 agosto 2012

Perché scrivo - Orhan Pamuk


Scrivo perché ne ho voglia.
Scrivo perché non posso fare un lavoro normale come gli altri.
Scrivo perché dei libri come i miei siano scritti e io li possa leggere.
Scrivo perché ce l'ho con voi tutti, contro il mondo.
Scrivo perché mi piace stare chiuso in una stanza tutto il giorno.
Scrivo perché non posso sopportare la realtà se non trasformandola.
Scrivo perché il mondo intero sappia che genere di vita io, gli altri, noi tutti abbiamo vissuto e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia.
Scrivo perché amo l'odore della carta e dell'inchiostro.
Scrivo perché credo più di tutto nella letteratura, nell'arte del romanzo.
Scrivo per abitudine, per passione.
Scrivo perché ho paura di essere dimenticato.
Scrivo perché apprezzo la fama e l'interesse che ne derivano. Scrivo per star solo.
Scrivo nella speranza di capire perché ce l'ho così tanto con voi tutti, con il mondo intero.
Scrivo perché mi piace essere letto.
Scrivo, dicendomi, che bisogna finire questo romanzo, questa pagina, che ho cominciato.
Scrivo, dicendomi, che è quello che tutti si aspettano da me.
Scrivo perché come un bambino credo nell'immortalità delle biblioteche e nella posizione che vi mantengono i miei libri.
Scrivo perché la vita, il mondo, tutto è incredibilmente bello ed esaltante.
Scrivo perché è piacevole tradurre in parole tutta questa bellezza e la ricchezza della vita.
Scrivo non per raccontare una storia bensì per costruirla.
Scrivo per sfuggire al sentimento di non potere raggiungere un luogo verso cui si aspira, come nei sogni.
Scrivo perché non riesco ad essere felice qualsiasi cosa faccia.
Scrivo per essere felice.


Orhan Pamuk

venerdì 10 agosto 2012

Jonah che scriveva, Alex che correva


 “La debolezza del campione rispecchia, ai massimi livelli, la debolezza di tutti. La paura di non farcela non riguarda solo gli olimpionici. La paura di non farcela è l'ossessione di massa della società più competitiva mai vista sulla faccia della Terra; e tanto più competitiva quanto più disposta a reggersi l'anima con i denti, affilatissimi, delle droghe di ogni ordine e grado”
Così Michele Serra chiudeva un suo articolo sulla vicenda di Alex Schwazer  su Repubblica di mercoledì 8 agosto.
Condivido le parole di Serra e nella mia testa continuo a sovrapporre la vicenda del marciatore con quella di Jonah Lehrer, il giornalista statunitense che nel giro di due mesi è stato schiacciato prima dalla scoperta di diversi casi di plagio e auto-plagio, perché ha riciclato brani di articoli già pubblicati sia per nuove collaborazioni giornalistiche che per il suo ultimo libro Imagine. How creativity works, e infine perché è stato rivelato che alcune affermazioni lì attribuite a Bob Dylan,  le ha inventate lui.  Dunque il marciatore si drogava e lo scrittore copiava, rendendo così le altrui parole la sua droga. La paura di non farcela è di sicuro la molla principale di simili comportamenti, la competitività sfrenata di questa società ne è l’humus. Tralascio le motivazioni economiche che non sono da escludere a priori, ma voglio aggiungere due altri elementi per completare la mia riflessione: il tempo e la fatica.
Correre e scrivere richiedono tempo e fatica e quando ti muovi non hai nessuna garanzia di arrivare fino alla fine. Per correre e scrivere ci vogliono pazienza e costanza. Anche il centometrista deve ripetere decine e decine di volte gli stessi movimenti, il marciatore per un tempo ancora più lungo. 
Si corre e si marcia un passo dopo l’altro e solo così si arriva al traguardo; si scrive una parola dietro l’altra, poi le parole diventano frasi, periodi, pagine, articoli, libri interi. Nessuno corre e scrive mai solo per se stesso, l’ebbrezza della corsa e della parola ben riuscita sono già di per sé un premio, ma si corre e si scrive per lanciare verso il mondo un frammento di bellezza. 
Con la corsa vinciamo la forza di gravità e la resistenza dell’aria, con la parola vinciamo la forza del tempo che passa e la resistenza della carta. Correre e scrivere sono due pratiche della solitudine, ogni passo, ogni gesto della mano sono la sfida che chi li compie lancia contro sé stesso. Se il desiderio di essere il primo disintegra la correttezza del proprio agire, significa che si è smarrito il senso di eternità che questi gesti racchiudono.  Il riconoscimento immediato, la fama, il successo ci costringono a vivere un eterno presente, perché non basta avere vinto una volta, bisogna continuare a vincere ogni giorno per non essere dimenticati. Ricordate com’era quando da bambini correvamo solo per il gusto di farlo? Se avete mai corso con il sole in faccia capirete di cosa sto parlando. Se avete mai preso un foglio bianco in mano e avete scritto la prima parola senza sapere dove vi avrebbe condotto, pure. Ho tanta pena per questi due giovani uomini che hanno bruciato il talento e la fatica di anni per un istante di fama. L’oscuro anonimato che li attende sarà forse per loro la punizione più atroce. Cosa faranno delle loro vite? Come si riscatteranno? Meglio correre e scrivere ogni giorno godendo della fatica, ritornando sui propri passi, rileggendo e sapendo che il compimento di un’opera ha bisogno di tempo, fatica, solitudine e silenzio.

P.S. L’arte di correre di Haruki Murakami ancora non l’ho letto, ma vista questa riflessione credo sia giunto il momento

giovedì 9 agosto 2012

Scrivere con facilità

Scrivere con facilità significa lasciarsi dietro le spalle quel famoso blocco da pagina bianca di cui tutti abbiamo sofferto e ogni tanto soffriamo tuttora.
Una sindrome che mi ha accompagnata per lungo tempo e che ora mi visita di rado perché tanti anni passati a lavorare con le parole alla fine a qualcosa servono. Magari non a scrivere meglio, ma sicuramente ad avere meno paura. Nella mia cassetta degli attrezzi, o meglio del pronto soccorso, ho ormai diversi rimedi pronti per l’uso.
Scrivere con facilità significa anche trovare il ritmo, come quando si sente la musica e ci si muove, si balla con lei. Solo che ci si muove con le parole. Ma la musica c’entra sempre.
Scrivere con facilità significa anche scrivere con leggerezza e con gioia, come sto facendo adesso dopo un bel po’ di post :-) Significa soprattutto avere abbastanza pazienza e fiducia in se stessi da sopportare la solitudine, e starsene magari per ore a pensare e a tentare davanti a uno schermo bianco senza scoraggiarsi.


Luisa Carrada 
Parole che corrono, parole che scorrono
Il blog del mestiere di scrivere
28 novembre 2004



Scrivere sul serio

Io credo, sinceramente credo, che non c'è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente.

Italo Svevo

Scrivi la frase più vera che conosci

Era meraviglioso scendere le lunghe rampe di scale sapendo che mi era andata bene col lavoro. Lavoravo sempre finché non avevo concluso qualcosa e smettevo sempre quando sapevo quel che sarebbe successo dopo. Così ero sicuro che il giorno successivo sarei andato avanti. Ma qualche volta quando stavo cominciando un nuovo racconto e non riuscivo a farlo partire, mi sedevo davanti al fuoco e strizzavo le bucce delle piccole arance sul bordo della fiamma e guardavo lo scoppiettio di scintille blu che producevano. Restavo a guardare fuori sui tetti di Parigi e a pensare : “Non preoccuparti. Hai sempre scritto prima e scriverai adesso. Non devi far altro che scrivere una sola frase vera. Scrivi la frase più vera che conosci”. Così alla fine scrivevo una frase vera, e poi da lì andavo avanti. E allora era facile perché c’era sempre una frase vera che conoscevi e che avevi visto o che avevi sentito dire da qualcuno. Se cominciavo a scrivere in modo complicato, o come qualcuno che introduceva o presentava qualcosa, scoprivo che potevo benissimo tagliare tutti i fronzoli e gli arzigogoli e buttarli via per cominciare con la prima frase vera ed esauriente che avevo scritto. Lassù in quella stanza decisi che avrei scritto una storia su ogni cosa che conoscevo. Cercavo di farlo per tutto il tempo in cui scrivevo ed era una buona e severa disciplina.
Fu in quella stanza che imparai a non pensare a niente di quel che stavo scrivendo dal momento in cui smettevo di scrivere fino a che ricominciavo il giorno dopo. In quel modo il mio subconscio avrebbe continuato a lavorarci su e intanto io avrei potuto ascoltare la gente e osservare tutto, speravo; e imparare, speravo; e leggevo in modo da non pensare al mio lavoro e rendermi incapace di farlo. Scendere le scale quando avevo lavorato bene, cosa che richiedeva fortuna e impegno, era una sensazione meravigliosa e a quel punto mi sentivo libero di andare a spasso per Parigi.

Ernest Hemingway
Festa mobile
Traduzione di Luigi Lunari
Edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011

mercoledì 8 agosto 2012

Scrivere quel che faremmo per amore

Jeffrey Eugenides ama conversare e scrivere d'amore. E lo fa spiegando che "è difficile immaginare di scrivere qualcosa sugli esseri umani senza prendere in considerazione quel che farebbero per amore". Appartiene alla categoria di narratori che partono in maniera esplicita dalle proprie esperienze personali, tuttavia, prima di abbandonarsi ai ricordi intimi preferisce soffermarsi sull'importanza imprescindibile dell'amore nella storia della letteratura ("pensi a Omero, Catullo, Tolstoj o Shakespeare"), negando che la narrativa statunitense prediliga oggi altri temi: "Non crede che Libertà di Franzen parli in primo luogo di amore e di tutti i conflitti che scatena? ", mi chiede nel suo ufficio di Princeton. " Jhumpa Lahiri scrive di amore e anche George Saunders, che non definiresti immediatamente un romantico, ha scritto Jon, una delle grandi storie d'amore contemporanee. Updike e Cheever hanno scritto delle difficoltà dell'amore: l'adulterio, il divorzio... Ne parla anche Bellow, pensa a: Ne muoiono più di crepacuore. E perfino DeLillo, che dipinge in toni cupi, ha scritto scene ambientate in stanze di motel...".

Quali sono i romanzi d'amore che l'hanno influenzata maggiormente?

"Lolita, che è una storia d'amore perversa, ma autentica e i grandi romanzi ottocenteschi: Anna Karenina, Madame Bovary, Ritratto di signora. Ma se vogliamo fare una riflessione sull'amore devo citare la frase di La Rochefoucauld che ho posto come epigrafe nella Trama del matrimonio: "La gente non si innamorerebbe se non avesse sentito parlare dell'amore". È un'idea interessante: che l'amore non sia intrinseco agli esseri umani, una parte della nostra biologia, ma piuttosto qualcosa di culturale, creato dalle nostre menti. Da bambini, impariamo dai libri e dai film l'esistenza di questo fenomeno chiamato amore. Quando abbiamo cinque anni, abbiamo l'idea di sposare, una volta adulti, nostra madre. Poi ci vengono altre idee. I bambini giocano al matrimonio, o almeno lo facevano quando ero piccolo. Probabilmente ora giocano ad "accordi prematrimoniali", ma la verità è che noi impariamo l'idea di innamorarci prima di quando ci innamoriamo"...


un frammento dell'intervista di Antonio Monda Jeffrey Eugenides per la serie Parlami d'amore
la Repubblica 3 agosto 2012

martedì 7 agosto 2012

Tradurre è trovare la nota giusta

Magris - Quando mi capita, in qualche città all’estero, di presentare un mio libro tradotto, spesso, mostrando l’edizione italiana, dico che quel testo l’ho scritto io, aggiungendo che l’altro, la versione nell’altra lingua, l’abbiamo invece scritto in due, io e il traduttore o la traduttrice. La traduzione letteraria infatti è una vera e propria ri-creazione; è un lavoro linguistico e poetico, la trasformazione di qualcosa in qualcosa d’altro, che pure mantiene la sua originalità e la sua unicità. Dire quasi la stessa cosa, ha scritto Umberto Eco; quel quasi è lo spazio avventuroso del ricreare. Tradurre è impossibile e necessario, scrivevano tanti anni fa due germanisti triestini, Guido Cosciani e Guido Devescovi; in questo senso assomiglia alla vita e alla necessità di afferrarne il senso sempre sfuggente. Come diceva Schlegel, l’inventore del Romanticismo, è la prima forma di critica letteraria, perché scopre inesorabilmente i punti di forza di un testo e quelli deboli, dove un testo tiene e dove annaspa o bara. Ne parlo con una maestra di quest’arte singolare, Ljiljana Avirovic, studiosa croata vivente da decenni in Italia e docente di Teoria e pratica della traduzione dall’italiano in croato e di Teoria e pratica della traduzione specialistica in italiano e in croato presso la Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori dell’Università di Trieste, scuola di cui costituisce una colonna portante...«Ho tradotto anch’io — le dico tornando insieme a lei a Trieste da un convegno a Zagabria — anche se non posso certo paragonarmi a te, e so che la versione creativamente fedele estrae da ogni libro qualcosa d’altro che ha ancora da svilupparsi, da crescere… Per entrare nel vivo del lavoro di bottega, come procedi quando attacchi la versione di un libro? Ci sono varie fasi?».
Avirovic — Sì, procedo per fasi. La teoria della traduzione propone tre fasi: la comprensione, l’interpretazione e la stilizzazione. Lo studio che precede la traduzione (le prime due fasi) è molto utile; permette al traduttore di farsi un’idea su cosa sarà, o cosa vorrebbe fosse, il risultato finale. La terza fase è originata dal talento: esso è un dono che consente la nuova creazione di un’opera preesistente e, nel contempo, è lo specchio delle brame traduttive. Ad esempio, con le tre differenti letture del tuo romanzo Alla cieca prima di iniziare la traduzione, ho afferrato il ritmo narrativo e ricreato spero degnamente la tua opera nella mia lingua. Nell’angolo creativo del mio animo sento ancora il timbro musicale di quelle frasi...

Claudio Magris in conversazione con Ljiljana Avirovic
Corriere della Sera 6 agosto 2012

lunedì 6 agosto 2012

L'arte è esperienza portata all'estremo

Le opere d'arte sono sempre il prodotto di un pericolo che si è corso, di un'esperienza portata all'estremo, fino al punto in cui l'uomo non può più continuare.


da una lettera di Rilke a Clara Westhoff

domenica 5 agosto 2012

Stava in quiete la casa e il mondo in calma

Stava in quiete la casa e il mondo in calma.
Libri si fece chi leggeva, ed era


La notte estiva l'anima del libro.
Stava in quiete la casa e il mondo in calma.


Parlò lo scritto quasi fosse il libro,
Benché il lettore curvo sopra il foglio


Volesse divenire lo studioso
A ci il libro è verace, a cui la notte


D'estate è perfezione di pensiero.
Stava in quiete la casa come giusto.


Del senso e senno parte era la quiete,
Acme di perfezione per la pagina.


Calmo era il mondo. In un tal mondo, dove
Non c'è altro senso, il vero stesso è calma,


Il vero stesso è estate e notte, è l'uomo
Che s'attarda lassù chino leggendo.


Wallace Stevens
Mattino domenicale
e altre poesie
a cura di Renato Poggioli
Einaudi 1988

sabato 4 agosto 2012

Il grande esodo che non c'è più

Sul quotidiano La Stampa di oggi leggo due articoli dedicati alle vacanze dei tempi andati. Il pensionato Fiat Francesco Anrò, in posa davanti alla sua Fiat 850 bianca in una vecchia foto in bianco e nero, ricorda le partenze di massa quando la fabbrica chiudeva e la famiglia poteva permettersi tre settimane di vacanza al mare in Liguria. Anche la mia famiglia andava in vacanza nel mese di agosto. Un lungo viaggio verso la Calabria dove ci aspettavano la nonna paterna, zii e zie e soprattutto un nugolo di cugini. Il viaggio era costellato dalle soste nelle stazioni di servizio della Esso. Quando mio padre faceva il pieno, sentivo che lo slogan "metti un tigre nel motore" anticipava quel che sarebbe accaduto. Saremmo ripartiti con slancio e il nastro di chilometri alle nostre spalle sarebbe stato sempre più lungo di quello che andavamo srotolando. Adoravo l'odore della benzina, la schiuma del cappuccino dell'Autogrill, le facce sconvolte dal sonno dei viaggiatori che andavano alla toilette. Anche noi partivamo nel cuore della notte per rubare la strada vuota a quelli più pigri che aspettavano le prime luci dell'alba. Io e mio fratello dividevamo il sedile posteriore con le nostre borse che contenevano: almeno due copie di Topolino, qualche pacchetto della gomma del Ponte, patatine Pai, biscotti Pavesini. Finito l'arrembaggio alle provviste, cui eravamo autorizzati solo nella tarda mattinata, passavamo il resto del viaggio alternando litigi per il possesso dei Topolini ai giochi comuni con i soldatini di mio fratello o le mie Barbie. A ogni viaggio rimpiangevo che non avremmo mangiato i panini dell'Autogrill ma le cibarie portate da casa. Il menù standard prevedeva polpette al sugo, conservate in un thermos cilindrico verde, pomodori, pesche, pane casereccio a fette, thermos con acqua fresca e caffè per il guidatore. Nelle auto non c'era aria condizionata, così sul suo sedile mio padre metteva sempre un grande asciugamano a strisce bianche e rosse che poi avremmo usato in spiaggia. Mia madre viaggiava con dei pantaloni a sigaretta blu scuro, una camicetta abbottonata dietro piena di sfumature lilla, azzurre, viola, e una borsa anni sessanta che sembrava un confetto rivestito di cotone all'uncinetto blu zaffiro e il manico rigido. Per un mese smettevo di essere la bambina di città e diventavo la bambina di campagna che voleva imparare a camminare a piedi nudi come i cuginetti e lavava i panni nel ruscello davanti alla casa della nonna. Durante quei giorni estivi si realizzava quella sospensione della vita quotidiana di cui scrive Massimo Gramellini nel secondo articolo di cui dicevo all'inizio. 
"Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l'interruttore con la speranza che nell'attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati."
Ma il giorno della partenza arrivava inesorabilmente, finite le vacanze, finite le lunghe ore in spiaggia a correre dentro e fuori dall'acqua, finite le gare nei campi bruciati, finiti i pic-nic all'ombra della grande quercia, finite le chiacchierate infinite, inesauribili con mia cugina Maria, detta Mariuccia, per distinguerla da sua nonna, che era poi mia zia,le nostre fughe sugli alberi, il cibo rubacchiato in cucina e divorato di nascosto nell'orto. Un mondo si richiudeva alle nostre spalle quando salivamo in auto per tornare a Milano. Ma sapevo che quel mondo bruciato dal sole era lì ad aspettarmi e che lo avrei ritrovato intatto l'anno successivo. L'ansia del ritorno veniva rimpiazzata dalla gioia di essere di nuovo a Milano. A volte partivamo la sera tardi e viaggiavamo di notte. Era meraviglioso attraversare la pianura dopo Bologna e riconoscere la città dall'odore dell'aria. A Melegnano ci mettevamo in fila per pagare il pedaggio di uscita dell'autostrada del sole. Ma noi il sole ce lo portavamo dentro e anche nel cibo che la nonna ci consegnava, come se al nord si fosse in eterna carestia. Oltre al pollo fritto nella padella di alluminio sul fuoco che era il pasto del viaggio, pomodori crudi e in salsa, peperoni verde buoni da friggere, peperoncini rossi freschi e secchi, qualche soppressata e un capicollo, olio extra-vergine, aglio e cipolle rosse di Tropea. Il cibo teneva a bada la malinconia e la trasformava in uno struggimento dolce, in quella nostalgia che tagliava la lingua e faceva smettere a mio padre di parlare nel dialetto nativo non appena uscivamo dall'autostrada. In casa parlavamo italiano perché mia madre è pugliese e quindi nelle loro lingue natali con mio padre non si sarebbero mai potuti capire. Ma io avevo imparato a decifrare quelle lingue anche se non a parlarle. Ogni tanto chiedevo a entrambi di tradurmi qualcosa nel loro dialetto, forse perché volevo ritrovare l'atmosfera delle loro infanzie vissute per intero senza conoscere la città. Ma questa è un'altra storia.

venerdì 3 agosto 2012

Entrare a Milano (l'incipit della certosa di Parma)

Capitolo primo
Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte entrò in Milano a capo di quella giovane armata che aveva varcato il ponte di Lodi e annunciato al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un successore.
I prodigi d'ardimento e di genio cui l'Italia assistette nel giro di qualche mese, ridestarono un popolo addormentato; ancora otto giorni prima dell'arrivo dei francesi, i milanesi non vedevano in essi che un'accozzaglia di briganti avvezzi a fuggir sempre davanti alle truppe di Sua Maestà Imperiale e Reale; questo almeno era quanto ripeteva loro tre volte alla settimana un giornaletto, grande come la mano, stampato su cattiva carta. 
Nel Medio Evo i milanesi non erano stati meno bravi dei francesi della Rivoluzione, tanto che s'erano meritati di vedere la loro città rasa al suolo dagli imperatori d'Alemagna. Ma da quando erano diventati dei fedeli sudditi, il loro gran daffare era di stampare sonetti su fazzolettini di taffetà rosa ogni volta che si celebrassero le nozze d'una donzella appartenente a qualche famiglia nobile o ricca. Due o tre anni dopo questa data memoranda della sua vita, quella stessa donzella si prendeva un cavalier servente; talora il nome del cicisbeo, scelto dalla famiglia del marito, occupava un posto d'onore nel contratto di matrimonio. C'era un bel salto tra tali costumi effeminati e le profonde emozioni che diede l'arrivo imprevisto dell'armata francese. Sorsero nuovi costumi profondamente sentiti. Il 15 maggio 1796 tutto un popolo ebbe ad accorgersi che quello che aveva sin allora rispettato era estremamente ridicolo e qualche volta odioso. La partenza dell'ultimo reggimento austriaco segnò il tramonto delle vecchie idee; esporre la propria vita diventò di moda. Si vide che dopo secoli di ipocrisia e di sensazioni scipite bisognava amare qualche cosa di vera passione e per quello sapere all'occasione arrischiare la vita.


Seguo la promessa di felicità di Antonio Muñoz Molina e mi accingo a rileggere...


Stendhal
La certosa di Parma
traduzione di Camillo Sbarbaro
Einaudi 1976

giovedì 2 agosto 2012

Una promessa di felicità

Se bisogna vivere in un romanzo, lo si deve fare nelle migliori condizioni. La scorsa estate, appena è arrivato il caldo, ho cercato rifugio nel Dottor Živago. Visto che sto leggendo una biografia di Joyce, mi tenta molto quest’estate tornare sull’Ulisse. Per ora porto con me, quasi intatta, appena iniziata, un’edizione tascabile della Certosa di Parma: una promessa di felicità, per dirla con le parole di Stendhal.

Antonio Muñoz Molina

nell’editoriale di questa settimana della imperdibile rivista Internazionale

mercoledì 1 agosto 2012

I libri, le stanze

Quand'ero piccola, avevamo un amico di famiglia con la casa piena di libri. Erano così tanti che il suo letto sembrava costretto in un angolo. Tappezzavano tutte le pareti, dal pavimento fino al soffitto, e altri ancora erano sdraiati in orizzontale su quelli stipati negli scaffali. I loro dorsi erano pennellate di ocra e di arancione tenue, lilla, rosso, nero. C'erano persino grosse pile che si ergevano come ciminiere in mezzo alla stanza.
La mia, di stanza, ha le pareti in pietra e il pavimento di legno, porte finestre che si aprono sui rami alti di un acero giapponese, spoglio d'inverno, una massa verde d'estate. Gli uccelli appollaiati lì sopra piegano la testa per sbirciare nella strana caverna dove dormo e lavoro. Poche strade più in là, oltre la ferrovia, c'è una lunga striscia di spiaggia. Nelle notti fredde, quando le onde si alzano, rimango sveglia nel mio letto e ascolto l'oceano. Non ho molti mobili: un letto, un armadio, un lungo tavolo bianco e librerie con una mutevole popolazione di dorsi, perché non sono una collezionista, mi piace passarli agli altri, i libri.


Brenda Walker
Come i libri mi hanno salvato la vita
Storia di una guarigione
traduzione di Maria Eugenia Morin
Cairo Editore 2011