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domenica 12 febbraio 2017

la scrittura non è tribolazione

Considerare la scrittura una tribolazione è un'idea che non mi appartiene. Penso che fondamentalmente debba essere qualcosa che sgorga in modo spontaneo.


Murakami Haruki
Il mestiere dello scrittore
traduzione di Antonietta Pastore
Einaudi 2017







mercoledì 15 giugno 2016

L'attimo esatto in cui si diventa scrittori

Fu in quel periodo che Murakami assistette alla partita di baseball dove avrebbe incontrato il suo destino. Yakult Swallows contro Hiroshima Carp. Lui era un tifoso degli Swallows, e quando un battitore della squadra del cuore colpì con tanta forza la pallina che il crak della mazza risuonò tra gli spalti, Murakami ebbe l'illuminazione. «Mi sembrò che qualcosa arrivasse svolazzando giù dal cielo e io l'accogliessi delicatamente tra le mani. In quel momento, non so perché, pensai: credo che potrei scrivere un romanzo ».
Un'epifania bella e buona. Ma come si decide di diventare scrittori, ammesso che una decisione del genere possa essere presa?
Non credo che la letteratura segua i percorsi delle religioni rivelate, e sarei pronto a scommettere che qualcosa in Murakami avesse già deciso di voltare pagina e aspettasse l'occasione giusta per informare l'interessato.
Un episodio simile accadde al García Márquez degli esordi. Poco più che ventenne, Gabo non riusciva a trovare la sua cifra. Scriveva improbabili racconti kafkiani che a lui per primo suonavano fasulli. Poi successero due cose: García Márquez lesse William Faulkner e sua madre lo portò ad Aracataca, il paesino in cui Gabriel era nato e che sarebbe diventato la Macondo della trasfigurazione letteraria. La situazione si sbloccò: «fu come se quello che vedevo fosse già stato scritto, dovevo sedermi e copiare ciò che era lì. Solo una tecnica come quella di Faulkner mi avrebbe consentito di farlo: l'atmosfera, la decadenza, il calore del piccolo villaggio erano simili a ciò che avevo provato leggendo i suoi libri».
Ecco che vediamo in modo un po' più chiaro il funzionamento di certi processi creativi: scopri la voce di un maestro che ti aiuta a riconoscere la tua, ma a patto di trapiantare ogni cosa in un mondo che appartiene a te e non a lui.
Anche gli incontri con i maestri in carne e ossa possono servire. William Faulkner iniziò a scrivere guardando vivere Sherwood Anderson, all'epoca già autore affermato. I due erano compagni di bevute e Faulkner osservandolo pensò: «bel mestiere scrivere: la mattina lavori, il pomeriggio correggi un po' e la sera sei libero di ubriacarti con chi vuoi». Così Faulkner comunicò all'amico che anche lui avrebbe scritto un libro. Da quel momento Sherwood Anderson sparì dalla circolazione. Un mese dopo sua moglie bussò alla porta dei Faulkner: «mio marito non ne può più di starsene tappato in casa per paura di incontrarti. Vuole fare un patto con te: se non sarà costretto a leggere il tuo manoscritto, dirà al suo editore di pubblicarlo ». Questo aneddoto, che Faulkner condiva con infinite varianti, nasconde un motore ben più oscuro della creazione letteraria: la competizione, la necessità di un maestro da mangiare in salsa piccante. Non è forse un caso che dopo aver cominciato a pubblicare, Faulkner scrisse una raccolta di satire intitolata Sherwood Anderson and Other Famous Creoles che costò la rottura dell'amicizia.

Nicola Lagioia

domenica 6 luglio 2014

Due o tre fiocchi di nuvola bianca macchiavano il cielo, come punteggiatura ben distribuita in un testo

Tutto iniziò in una magnifica, perfetta giornata di sole. Il pomeriggio della prima domenica di luglio. Lontano, due o tre fiocchi di nuvola bianca macchiavano il cielo, come punteggiatura ben distribuita in un testo. La luce incontrastata del sole inondava senza riserve il mondo. In quel luglio sovrano, persino la carta appallottalata di una tavoletta di cioccolato luccicava nell'erba con un bagliore orgoglioso, quasi fosse un cristallo leggendario sul fondo di un lago. Se si guardava con attenzione, si avvertiva nella luminosità, come in un sistema di scatole cinesi, una luce di qualità diversa. Un concentrato di innumerevoli granelli di polline, morbidi e opachi, fluttuavano indolenti nel cielo, finché volteggiando non si depositavano sul terreno, lentamente, senza fretta...

Murakami Haruki
incipit del racconto Storia di una zia povera
I salici ciechi e la donna addormentata
traduzione di Antonietta Pastore
Einaudi 2010


domenica 15 giugno 2014

Per capire le cose ho bisogno di scriverle

È per questo che sto scrivendo. Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle.

Murakami Haruki 

Norwegian Wood 
già Tokyo Blues
Einaudi 1993

giovedì 6 febbraio 2014

Scrivere è credere nella forza dell'immaginazione

… I miei romanzi e miei racconti sono a volte più fantastici, a volte meno. Ma la scrittura non cambia. In questo romanzo è stato come negli altri. Ho nuovamente sentito la stessa brezza: ricevo notizie dall'altra parte.

È sempre stato così?

La prima volta mi è successo con Nel segno della pecora, trent'anni fa. Ero seduto alla scrivania, quando di colpo è comparsa davanti a me una strana creatura, il pastore. Veniva dall'altra parte. Non sapevo chi fosse, né che cosa volesse da me. Sapevo però di averne bisogno. Mi stava arrivando una notizia. Quindi l’ho descritto. Di più non ho dovuto fare.

Come prende queste visioni? Lei è religioso?

No, ma credo nella forza dell'immaginazione. E che non c’è solo una realtà. Il mondo vero e un altro mondo irreale esistono entrambi, e sono strettamente collegati. Talvolta, si mischiano. E quando voglio, quando mi concentro con molta forza, posso passare all'altro. Posso anche andare e venire. Questo è ciò che accade nella mia narrativa. Le mie storie si svolgono qualche volta da una parte, qualche volta dall'altra. Ormai non sento la differenza.

È una sorta di spiritismo letterario?

È qualcosa che ha a che fare con la scrittura. Con le cose che mi vengono incontro nell'immaginazione e che mi aiutano a scrivere la storia. Possono essere unicorni, pecore, elefanti, gatti, ma anche l’oscurità o la musica. Tutto ciò acquisisce un’anima soltanto quando ne scrivo. È una forma di animismo. Le cose mi vengono incontro senza che io le richiami. Devo solo concentrarmi molto.

Lei parla di queste cose come se esistessero da sempre.

A volte mi sento un narratore della preistoria. Gli uomini che mi ascoltano stanno seduti in una caverna. Sono intrappolati perché fuori piove. Ma anch'io ci sono e racconto loro qualche storia. Sono circondato dall'oscurità, però quegli elementi spirituali stanno attorno a me, devo solo acchiapparli. So naturalmente quanto sia terribile la vita nella caverna. Il mio compito consiste quindi nel fare scordare quella vita a chi mi ascolta. È per questo che ho sviluppato una tecnica. Anche se alcuni sono convinti che non sia determinante, è solo grazie alla tecnica che una storia diventa anche una buona storia.

Come ha sviluppato questa tecnica?


Non l’ho imparata. Ho semplicemente scritto e continuato a scrivere con serietà. La mia tecnica si è sviluppata da sola.

frammenti dell'intervista a Haruki Murakami di Ronald Düker
Espresso 6 febbraio 2014

domenica 28 aprile 2013

Scrivere è far emergere la realtà del mondo reale

In 1Q84, come nella maggior parte dei suoi romanzi, il meccanismo viene annunciato fin dall'inizio: esiste un mondo noto ed esiste un mondo sconosciuto fatto di lune aliene, uomini ridotti a crisalidi, creature invisibili che tessono le fila di complotti cosmici. Nell'interazione tra questi due mondi si muovono la storia e i personaggi. In questa fuga infinita ha mai l'impressione di spingersi oltre i confini? Dove finisce la metafora?
Il significato di un romanzo - del fatto di scrivere un romanzo - consiste nel far emergere in maniera più completa possibile, in tutti i suoi aspetti, la realtà del mondo reale, portando in esso la prospettiva di un mondo irreale. E tanto più lungo è il romanzo, quanto più ampia, più profonda e più complessa diventa quest'operazione. Per scrivere questo romanzo ho impiegato quasi tre anni. Ho consumato per quest'opera tre anni della mia vita (malgrado la parte che mi resta da vivere non sia poi tanto grande).

Ne valeva la pena?
Evidentemente per me sì. Per me è la cosa che più conta al mondo.

Ritiene 1Q84 il suo libro più importante?
Nei confronti di un'opera appena terminata non mi soffermo a pensare intensamente. Perché ho già esaurito tutta la mia energia nell'azione di scrivere.

frammenti dell'intervista a Haruki Murakami di Dario Olivero
sul Venerdì di Repubblica del 12 ottobre 2012


venerdì 12 aprile 2013

Scrivere è esplorare il proprio mondo interiore, leggere anche


«A volte succede che la ricerca interiore di uno scrittore coincida con la ricerca interiore non di pochi lettori, ma di una moltitudine. Murakami è evidentemente in sintonia con un modo di interrogarsi, di studiare le proprie angosce e i propri desideri diffuso in ogni parte del mondo. Esprime una sensibilità che è allo stesso tempo personale e collettiva. Ciò che lo rende unico, e che forse può spiegare il suo grande successo sia presso i lettori forti che tra i consumatori di best-seller, è l'originalità con cui interpreta un mood collettivo:  questo lo rende uno scrittore esclusivo e popolare al tempo stesso».

«Il tipico lettore di libri di consumo si aspetta da un romanzo soprattutto evasione. Il lettore di Murakami prova l'ebbrezza di allontanarsi dal proprio mondo per evadere in una dimensione separata dalla propria quotidianità, ma mentre si addentra in questo spazio fantastico, si accorge di compiere contemporaneamente un'esplorazione del proprio mondo interiore. Lo si potrebbe descrivere come un rapporto tra microcosmo e macrocosmo».

Eppure, malgrado sia a tutti gli effetti una star, Murakami non si è fatto risucchiare dalla fiera delle vanità del successo... 
«Se ne è difeso continuando a vivere come aveva sempre fatto, in modo riservato e centellinando le apparizioni pubbliche. Ha solo aumentato i periodi di permanenza all'estero. Credo che ormai viva sempre meno in Giappone. Dai suoi libri si percepisce chiaramente che non gli interessa il mondo delle celebrities ma la vitae l'umanità delle persone ordinarie. Perché, nonostante le proiezioni autobiografiche evidenti in molte sue opere, Murakami non è uno scrittore narcisista. Non scrive per sete di gratificazione, come invece fanno molti scrittori o aspiranti scrittori sempre ostili nei suoi confronti, ma per necessità».

frammenti dell'articolo di oggi su Repubblica dove Franco Marcoaldi parla di Haruki Murakami con il nipponista Giorgio Amitrano che è anche il suo eccellente traduttore

venerdì 10 agosto 2012

Jonah che scriveva, Alex che correva


 “La debolezza del campione rispecchia, ai massimi livelli, la debolezza di tutti. La paura di non farcela non riguarda solo gli olimpionici. La paura di non farcela è l'ossessione di massa della società più competitiva mai vista sulla faccia della Terra; e tanto più competitiva quanto più disposta a reggersi l'anima con i denti, affilatissimi, delle droghe di ogni ordine e grado”
Così Michele Serra chiudeva un suo articolo sulla vicenda di Alex Schwazer  su Repubblica di mercoledì 8 agosto.
Condivido le parole di Serra e nella mia testa continuo a sovrapporre la vicenda del marciatore con quella di Jonah Lehrer, il giornalista statunitense che nel giro di due mesi è stato schiacciato prima dalla scoperta di diversi casi di plagio e auto-plagio, perché ha riciclato brani di articoli già pubblicati sia per nuove collaborazioni giornalistiche che per il suo ultimo libro Imagine. How creativity works, e infine perché è stato rivelato che alcune affermazioni lì attribuite a Bob Dylan,  le ha inventate lui.  Dunque il marciatore si drogava e lo scrittore copiava, rendendo così le altrui parole la sua droga. La paura di non farcela è di sicuro la molla principale di simili comportamenti, la competitività sfrenata di questa società ne è l’humus. Tralascio le motivazioni economiche che non sono da escludere a priori, ma voglio aggiungere due altri elementi per completare la mia riflessione: il tempo e la fatica.
Correre e scrivere richiedono tempo e fatica e quando ti muovi non hai nessuna garanzia di arrivare fino alla fine. Per correre e scrivere ci vogliono pazienza e costanza. Anche il centometrista deve ripetere decine e decine di volte gli stessi movimenti, il marciatore per un tempo ancora più lungo. 
Si corre e si marcia un passo dopo l’altro e solo così si arriva al traguardo; si scrive una parola dietro l’altra, poi le parole diventano frasi, periodi, pagine, articoli, libri interi. Nessuno corre e scrive mai solo per se stesso, l’ebbrezza della corsa e della parola ben riuscita sono già di per sé un premio, ma si corre e si scrive per lanciare verso il mondo un frammento di bellezza. 
Con la corsa vinciamo la forza di gravità e la resistenza dell’aria, con la parola vinciamo la forza del tempo che passa e la resistenza della carta. Correre e scrivere sono due pratiche della solitudine, ogni passo, ogni gesto della mano sono la sfida che chi li compie lancia contro sé stesso. Se il desiderio di essere il primo disintegra la correttezza del proprio agire, significa che si è smarrito il senso di eternità che questi gesti racchiudono.  Il riconoscimento immediato, la fama, il successo ci costringono a vivere un eterno presente, perché non basta avere vinto una volta, bisogna continuare a vincere ogni giorno per non essere dimenticati. Ricordate com’era quando da bambini correvamo solo per il gusto di farlo? Se avete mai corso con il sole in faccia capirete di cosa sto parlando. Se avete mai preso un foglio bianco in mano e avete scritto la prima parola senza sapere dove vi avrebbe condotto, pure. Ho tanta pena per questi due giovani uomini che hanno bruciato il talento e la fatica di anni per un istante di fama. L’oscuro anonimato che li attende sarà forse per loro la punizione più atroce. Cosa faranno delle loro vite? Come si riscatteranno? Meglio correre e scrivere ogni giorno godendo della fatica, ritornando sui propri passi, rileggendo e sapendo che il compimento di un’opera ha bisogno di tempo, fatica, solitudine e silenzio.

P.S. L’arte di correre di Haruki Murakami ancora non l’ho letto, ma vista questa riflessione credo sia giunto il momento