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venerdì 10 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/551. Ho sempre creduto solo nei colpi di fulmine, amore o amicizia è la stessa cosa

 



“Ci sono incontri che segnano una svolta nel corso della nostra vita. Quasi sempre si tratta di un nuovo amore o di un nuovo amico. Io ho sempre creduto ai colpi di fulmine, sia in amicizia che in amore, per me è sempre stato l’unico modo di iniziare una relazione. Per questo mi stupisco ancora oggi di come iniziò la mia amicizia con Octavio, uno dei più grandi poeti e scrittori che la nostra lingua abbia mai avuto. Lui era parecchio più grande di me, era noto per essere un uomo affabile ma riservato, che era stato sposato tre volte e altrettante volte aveva divorziato. Gli si attribuivano amori con le attrici più belle del paese, era un grande appassionato di cinema, in un’epoca in cui le donne si dipingevano le labbra di rosso e portavano corsetti che facevano esplodere i loro seni in invitanti decolleté. Usavano gonne lunghe al polpaccio, a forma di tulipano o di rosa, gonne dritte e strette con un piccolo spacco laterale o posteriore, giacchine con le maniche a tre quarti, lunghi guanti di pelle di capretto, cappelli dalle più svariate fogge, borsette tenute al braccio. Fu l’ultima epoca di vera eleganza nel mondo occidentale, e non lo dico perché quella fu anche l’epoca della mia giovinezza. Don Ottavio era nato all’inizio del secolo e aveva fatto in tempo a sognare le belle gambe delle donne ancora nascoste da abiti lunghi sino alle caviglie. Ma gli anni Quaranta e Cinquanta, quelli dell’esplosione della sua notorietà a livello planetario, furono anche gli anni in cui la vecchia Europa si suicidò e la giovane America andò in suo soccorso. Per le terre meridionali del continente le cose furono molto più complicate, l’ambiguità che apparteneva forse al carattere di molteplici nazioni, fece sì che dopo la guerra centinaia e centinaia di gerarchi nazisti trovassero rifugio sicuro in America latina. Octavio, che negli anni Quaranta viveva a Los Angeles dove lavorava come sceneggiatore, pur non essendo più un giovanotto, diede il suo contributo nella lotta contro il nazismo. Grazie alla sua rete di conoscenze e amicizie sparse in tutto il globo, riusciva sempre a venire a sapere storie in cui la sua mente fervida e romanzesca trovava nessi che nessun altro sarebbe stato in grado di notare. Molte delle informazioni che consegnava al governo americano, fecero di lui un eroe di guerra che ricevette le giuste onorificenze a guerra finita. Grande viaggiatore, conosceva forse meglio l’Europa del suo stesso continente. Parlava correntemente inglese, francese, tedesco e portoghese, oltre allo spagnolo, e questo avrebbe fatto di lui sia un ottimo diplomatico che una grande spia. Preferì diventare una spia e continuò a farlo anche durante la caccia alle streghe del maccartismo. Ma in senso contrario, perché passava informazioni a scrittori, registi, attori e sceneggiatori quando veniva a sapere che stavano per essere indagati o arrestati. Il governo si fidava di lui e a nessuno venne in mente che un uomo della sua levatura, potesse diventare amico degli intellettuali comunisti tanto temuti. Il suo comportamento non venne scoperto se non negli anni Ottanta, quando ormai anziano decise di scrivere la propria autobiografia in forma di romanzo. Forse fu proprio quell’ultima opera a far scattare negli svedesi la decisione di attribuirgli il Nobel per la letteratura. Di certo lui si divertiva moltissimo a stupire e scandalizzare i suoi contemporanei con rivelazioni sulla sua vita che lo resero famoso tra il grande pubblico, quasi più dei suoi stessi romanzi. Lui amava la giovane America, le perdonò anche gli anni bui del maccartismo perché – mi disse una volta – gli americani avevano bisogno di avere un nemico comune da combattere per poter funzionare come nazione, avendo una storia e tradizioni troppo recenti per potersi affidare a un mito condiviso. E il sacrificio di centinaia di migliaia di giovanissimi soldati poco più che ventenni era qualcosa che lui non avrebbe mai dimenticato fino alle fine dei suoi giorni. Fu così che la prima volta che ci incontrammo e io lo riconobbi subito, non riuscii a proferire una parola. Ma fu lui a invitarmi al tavolo vista mare dove stava sorseggiando un cognac e fumando un Avana dal raro aroma”.

 

Come immaginavo, Lucente e Adelina, che veneravano don Octavio come scrittore e come uomo - ho dimenticato di dirvi che era anche un uomo di bellezza virile, un Cary Grant sudamericano, ma ancora più intenso e magnifico, alto all’incirca un metro e ottantacinque, con mani forti ed eleganti, un sorriso che incantava e la voce più profonda e carezzevole che mai avreste potuto sentire – le mie due amiche, dunque volevano sapere tutto della nostra amicizia il cui racconto non avevo ancora avuto il coraggio di mettere per iscritto. Forse raccontarlo prima a loro, ora che don Octavio era morto da tempo, mi avrebbe aiutato.

La cena era stata ottima e mi venne voglia di fumare un Avana e di bere cognac francese. Ma mi accontentati di quel che mi portò il padrone del ristorante. Dalla terrazza dove avevamo cenato, c’era una vista magnifica sulla vallata, e le luci delle case iniziavano a costellare le colline. L’aria era tiepida, la compagnia di prim’ordine, potevo ricominciare il mio racconto.

 

Questa Cronaca 551 di venerdì 10 settembre del secondo anno senza Carnevale è sempre sulle tracce del mio Mutis apocrifo e del suo amico Octavio, forse il poeta Paz? Chi lo sa, ancora Alvaro non me lo ha detto.

giovedì 9 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/550. Si viaggia per viaggiare, non per arrivare

 



“Il viaggio era finito, o forse era appena iniziato. Ero arrivato nella città d’acqua, ma cogliendola alle spalle, ero sceso in autobus giù dalla cordigliera, dove ogni strada era poco più di una mulattiera, a ogni curva avevamo rischiato di scivolare in un burrone, solo l’autista non si era mai dato pena a continuava a masticare foglie rosse e a sputarle in una sputacchiera che doveva avere visto l’alba del nuovo secolo. Fui tra i primi a scendere, fu facile recuperare la mia vecchi valigia di cuoio, mentre lo zaino e il tascapane, colmo dei miei taccuini, lo avevo tenuto sempre a tracolla. Insieme ai miei scritti c’erano il passaporto, qualche spicciolo, una scorta di matite Palomino e un temperamatite, un mazzo di chiavi che aprivano le porte di tutte le case dove avevo vissuto e che mi piaceva ricordare. Quante ne avevo conservate? Mi ripromisi di contarle una volta arrivato in albergo e decisi che, finalmente avrei scritto la storia di ogni chiave. Ero ancora molto giovane quando arrivai a Estrella do Mar, ne avevo sentito parlare così a lungo che voleva vederla e fermarmi qualche tempo per vedere se riuscivo a scrivere il romanzo che avevo in testa. All’epoca credevo ancora che la buona riuscita di un romanzo dipendesse dai luoghi che visitavo e dai luoghi dove avrei scritto. Niente di più sbagliato, non erano i luoghi reali a essere importanti. Non erano neanche i luoghi ricordati, lo scarto davvero importante era quello dell’immaginazione. Quel luogo marinaro e non ancora del tutto balneare, poteva anche esistere solo nella mia testa e da nessun altra parte. Era quel che sarebbe uscito nella pagina ad avere valore, e nient’altro. La piazza degli autobus era proprio nel cuore della città, da lì ci si poteva spostare senza problemi seguendo una delle avenidas, niente di monumentale com’ero abituato a vedere nella mia città natale, che si diramavano come i raggi di una ruota di bicicletta ed erano intersecate dalle calle che dividevano il quartiere in rioni e borghi. Volevo stare il più possibile vicino al mare, così mi incamminai per Avenida de El cangrejo cansado. Faceva caldo, ma il vento marino rinfrescava subito il sudore, mi fermai a un chioschetto a prendere una limonata e a guardarmi intorno. Era già pieno di gente in vacanza che bighellonava come me, anche se io ero lì per uno scopo ben preciso e nobile: sarei diventato un grande scrittore un giorno, sarei stato onorato da tutto il mondo, mi avrebbero invitato anche in Europa e un giorno, prima che i miei capelli fossero diventati completamente bianchi, mi avrebbero conferito il premio Nobel per la Letteratura. Al solo pensiero fremevo di orgoglio e mi stupisco oggi, che i capelli li ho bianchi e il Nobel hanno preferito assegnarlo a guitti e strimpellatori, mi fanno sorridere le ingenue ambizioni del ragazzo che sono stato. Ancora non avevo imparato che non è la mèta a dare valore al cammino, ma è vero l’esatto contrario. È la strada che conta e non l’arrivo, Kavafis lo aveva già scritto meglio di quanto io non lo avessi pensato, ma nella mia ignoranza poetica non avrei letto quella poesia che molti anni più avanti. Pur immaginandomi come uno scrittore avventuroso, aveva chiamato l’albergo per prenotare una stanza con vista mare per un intero mese. Avevo trovato il depliant della Posada de El cangrejo descansado, in una bettola portoghese che era intitolata a Miranda do Douro, un paesello che avrei poi visitato quando mi tradussero in portoghese. Mi era sembrato un segno del destino e così ero tornato nella pensioncina che era diventata il sacrario della mia scrittura. Dissi a donna Alexandra che mi sarei assentato per un mese, le pagai due mesi di pigione anticipata e andai a fare qualche compera prima di partire. Non era da me avere tutti quei soldi in tasca, ma la fortuna mi aveva sorriso quando avevo comprato un biglietto del lotto e avevo vinto una cifra tale da permettermi almeno un anno di vita morigerata senza dovermi preoccupare di arrabattarmi a scrivere qualunque testo per mangiare e pagarmi l’alloggio. Quel che non potevo neanche immaginare, quando presi possesso della camera con vista mare, e che pagai in anticipo per essere sicuro che i proprietari mi avrebbero trattato con rispetto e le cameriere con solerzia, era come la mia carriera di scrittore avrebbe avuto una svolta. Dopo avere sistemato i bagagli chiesi consiglio su un buon posto per cenare e loro furono ben lieti di prenotarmi un ottimo tavolo alla taberna de El cangrejo saciada. E di granchi cucinati in svariati modi mi saziai quella sera, in insalata di mare, poi cotti in una terracotta col riso e il pomodoro. Ma volli finire con un’aragosta grigliata perché ne avevo viste di belle grosse nella vasca all’ingresso del locale. Fu proprio lì che posso affermare sia iniziata la mia vera vita da scrittore”.

Alvaro, cioè io, interruppe il racconto proprio sul bello e Lucente e Adelina non riuscirono a convincerlo in nessun modo a continuare. Avevo fame e lo proclamai a gran voce, di sicuro con la pancia piena avrei raccontato meglio. Così le mie due anziane amiche si rassegnarono a portarmi alla locanda perché potessi sfamarmi. Poi ricominciai il racconto, ma non è questo il momento di scrivere per voi cosa mi accadde.

Anche in questa Cronaca 550 di giovedì 9 settembre del secondo anno senza Carnevale, siamo rimasti in compagnia del mio Mutis apocrifo. Per inciso: oggi è un anno e mezzo preciso che scrivo le Cronache, dovrò forse festeggiare?

mercoledì 8 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/549. Il mondo non può stare tutto intero nella vita di nessun uomo

 

Guardo il fiume scorrere verso la sua mèta, che non è il mare ma un altro fiume. Acqua su acqua, verde su verde. Cosa proverà l’acqua che non diventa salata, ma solo moltiplica la sua dolce verdezza? Guardo l’acqua che oscilla, freme e luccica sotto un diverso sole. Non sono più affacciato al mio balcone che guarda verso le piantagioni di caffè, sono seduto all’aperto, riconosco Venezia e accanto a me Iosif Brodskij che mi parla come se fosse un oracolo:

“Ripeto: acqua è uguale a tempo, e l'acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d'acqua, serviamo alla bellezza allo stesso modo. Toccando l'acqua, questa città migliora l'aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell'universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l'eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all'uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch'esso è più grande di chi ama”.

Mi sveglio con un sussulto, non ero a Venezia, ero in un sogno veneziano sognato da qualcun altro. Le piantagioni di caffè sono sempre l’immensa distesa che tinge il mio occhio, mi alzo e torno al mio tavolino, vorrei scrivere ancora di Maqroll e Bashur.

“Il mondo non può stare tutto intero nella vita di nessun uomo. Lo attraversiamo, lo riduciamo in immagini, forse in parole. Dal particolare vogliamo arrivare al tutto. Forse la letteratura ci riesce, forse ci riesce anche la pittura. Ma io posso dipingere solo attraverso le parole, se anche sapessi disegnare e tenere in mano un pennello, sono solo le parole che mi attraggono. Non ho scelto il mondo dove nascere, né i primi grandi viaggi con i miei genitori. Ho scelto dopo di andare dove loro non erano mai stati e tornare dove ho visto il mondo con gli occhi di un bambino. Questo altipiano è la mia vera casa, le storie di questa gente si intrecciano alla mia stessa storia. Sono quasi un vecchio, ma la forza del mio sguardo è sempre la stessa di allora. Mi concentro su un particolare e lo espando, lo fisso e come fa Lucente con le sue foglie di tè, vedo un altro mondo muoversi e chiamarmi a dirlo con parole nuove. La maggior parte della gente non è ossessionata dalle parole, certo amano le storie, ma basta loro ascoltare da una voce viva o guardarle al cinema, sempre meno al teatro. Quelli che leggono non vogliono usare i loro occhi e le loro orecchie, non vogliono esplorare il mondo esterno. Noi che leggiamo usiamo l’occhio interiore e l’orecchio che non ascolta ma sospira. Cerchiamo il mondo invisibile dei ricordi e delle storie, vogliamo che si manifesti nel teatro della nostra mente, nient’altro è importante, solo quando abbiamo finito di leggere una storia, pian piano il mondo si manifesta di nuovo, il solito mondo nel quale dobbiamo vivere, che l’abbiamo scelto o no”.

Ancora non sono pronto a scrivere un’altra storia da questa mia isola del tempo, così metto da parte il taccuino e continuo a leggere Iosif. So che c’è un luogo, al monastero di Colorno, dove gli scrittori, vivi e morti, vanno per incontrarsi e avere accesso alla Biblioteca di Babele, credo di essere quasi pronto a partire. Ma non subito, devo dire ancora qualcosa di Adelina e Lucente, devo loro almeno una storia che profumi di nebbia e caffè, che oscilli tra il fiume e il mare invisibile che da qui non riusciamo a vedere.

Continuo a stare in compagnia di Alvaro Mutis e di Maqroll il gabbiere anche in questa Cronaca 549 di mercoledì 8 settembre del secondo anno senza Carnevale, un anno di paure e mascheramenti, di fiumi indolenti e parole sognatrici. La citazione di Iosif Brodskij è tratta da

Fondamenta degli Incurabili, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi 1991.

martedì 7 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/548. La punta delle dita è in fiamme, allora scrivi e non fermarti sino a che l’alba non spegnerà questo fuoco

 



“Una cosa che mi piace di te, Alvaro, è che sei affidabile come un cucù svizzero. Sapevo che saresti arrivato da me oggi proprio a quest’ora e sei arrivato. Che grande soddisfazione non sbagliarmi mai. Certo che per essere uno scrittore riservi poche sorprese. Magari va meglio nei libri, ma nella vita sei proprio prevedibile”.

Erano trent’anni che conoscevo Lucente e da trent’anni lei mi faceva sempre la battuta sul mio essere un cucù svizzero. A volte con qualche piccola variante e così anziché un cucù ero una banca, sempre svizzera, l’apoteosi dell’ordine e della noia. Ma anche a ma piaceva che i nostri incontri cominciassero sempre allo stesso modo. E di anno in anno cercavo di memorizzare un paio di buone storie e se non mi era successo niente di speciale, cosa molto frequente nella vita degli scrittori, ecco che avevo una buona scusa per inventarmi una storia, pensata apposto per Lucente e Adelina che erano due ragazze dell’anteguerra e credevano ancora nell’amore e nel romanticismo.

“Vi ho mai raccontato della prima volta che Ilona mi ha notato? È successo molto prima che nel libro che poi ho scritto. Ero in una milonga di Buenos Aires con Abdul Bashur e lei era seduta dall’altro lato della pista con una sua amica altrettanto bella. Era impossibile non notarle, due bionde naturali in mezzo a tutte belle donne dai capelli color notte e dagli occhi di pece. Lei e Ilana, non ridete era il vero nome della sua amica, continuavano a fissarci aspettando che andassimo a invitarle. Ma nessuno si muoveva e allora sono state le ragazze a venire a prenderci. Se non le avessimo seguite gli altri milengueros ci avrebbero ricoperti di insulti, così nonostante fossimo entrambi arrugginiti, siamo scesi in pista. E la magia della milonga si è rinnovata una volta di più. Siamo partiti con il Libertango di Piazzolla e non abbiamo smesso per quasi due ore. Ilana e Bashur sono andati via prima di noi e Ilona aveva ancora voglia di ballare, così ha accettato l’invito di un tipo corpulento con dei baffi sottili che gli tagliavano in due la faccia. Quando la sua mano è scesa troppo sotto la vita, lei gli ha pestato un piede con un tacco a stiletto che avrebbe ammazzato un toro. Lui non ha proferito parola, ha iniziato a sudare e senza emettere un solo suono, se ne è tornato al suo tavolo. Ilona è andata a prendere il suo scialle nero ricamato di tralci di rose rosse che sembravano vere e mi ha fatto cenno di seguirla. Ma io ho esitato un attimo di troppo e quando sono arrivato in strada lei era già andata via. Poi ci siamo ritrovati, ma questo già lo sapete”.

“E dove sarebbe la storia?” chiese Lucente.

“La storia non è capitata a me ma a Bashur. Quando ha preso una stanza in un alberghetto con Ilana, quasi subito hanno bussato alla porta. Lui temeva che fosse un altro uomo che li aveva inseguiti. Invece erano due amiche di Ilana cui lei aveva telefonato. Bashur mi disse che quella notte aveva spalancato le porte del Paradiso, e che tutto gli angeli erano biondi dalla testa ai piedi”. Mi fermai a ripensare alla faccia del mio amico e ricordai che l’estasi esiste anche in questa vita e che lui ne era la prova.

“Quello che Bashur non mi confessò se non anni dopo, è che nel cuore della notte arrivò anche Ilona nella stanza d’albergo e sfrattò una delle ragazze per prendere il suo posto. Immaginai che non sarebbe stata una buona idea mettermi in competizione con lui e, infatti, non ci siamo mai invischiati in storie con le stesse donne, proprio per non rischiare confronti”.

Lucente e Adelina sorridevano, ognuna persa nei suoi ricordi, poi la veggente si alzò a prendere il bollitore che aveva fischiato e versò l’acqua nelle tre tazze. Mentre io aspettavo che il mio tè raffreddasse un po’, lei buttò via l’acqua quasi subito e iniziò a scrutare nel fondo della tazza come se ci fosse qualcosa da leggere. Mi fece cenno di avvicinarmi e quello che vidi rimase un episodio senza precedenti e senza seguito. Le foglioline del tè si muovevano in vortici sul fondo della tazza e sulle pareti e ogni tanto formavano figure che lei descriveva con poche parole. “Il falcone, la donna di fuoco. Il fiume verde, l’uomo di paglia. Gli alberi non camminano coi piedi ma con le radici. Le nuvole cantano ma noi non riconosciamo la loro lingua e pensiamo che sia il vento. Ilona arriva con la pioggia. Maqroll sta tornando. Tu li aspetterai entrambi alle foci del Rio Blanco”.

“Cosa aspetti Mutis a scrivere un altro romanzo per noi? Queste sono le storie che ti stanno cercando”.

Continuai a sorseggiare il mio tè mentre Lucente era andata a guardare fuori dalla finestra sul retro. Anche lei dava sulla vallata e le piantagioni. C’era un vento molto forte, un falcone che volava basso e un incendio sul crinale del fiume che si era fermato perché non c’era altra erba secca da divorare. Erano immagini di cui avevo già scritto e ora Lucente mi dava indicazioni perché io le scrivessi ancora. Sentivo la punta delle dita in fiamme, dovevo tornare alla locanda a scrivere. Adelina si alzò senza bisogno che glielo chiedessi e ce ne andammo, non prima di avere promesso a Lucente che saremmo tornati l’indomani.

 

Che volete se a settembre continuo a pensare di essere con Mutis a guardare una piantagione di caffè? Oggi è martedì 7 settembre del secondo anno senza Carnevale e la Cronaca 548 sta ancora ballando il tango.

lunedì 6 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/547. Ci sono tre cose che non possono sottostare a nessuna legge perché vivono delle loro proprie ragioni: l’amore, la fame e la morte

 

“Cosa stai guardando Alvaro? Ci sono solo le piantagioni di caffè da quella parte”.

“Non è così Adelina, è che tu sei abituata a guardare questo paesaggio tutti i giorni e non vedi altro che l’insieme. Ma se guarderai con me ti mostrerò molto altro. Ci sono due falchi che volano da oriente a occidente ogni mattina. Se guardi bene i sentieri che dividono le piantagioni, ti accorgerai che alcuni sono più scuri di altri. È lì che passano i contrabbandieri ogni notte tra venerdì e sabato, quando le guardie di frontiera sono già ubriache e addormentate. Se guardi a destra della piantagione di Carrero, vedrai il sentiero tra le piante che suo figlio ha tracciato per andare a trovare la figlia di donna Catalina tutte le notti. Nessuno se n’è accorto ma se ne accorgeranno presto, perché la piccola è già incinta anche se loro non lo sanno. Catalina e Carrero prima si arrabbieranno moltissimo, ma poi si ricorderanno di quando erano giovani e non avevano potuto amarsi, destinati com’erano dalle famiglie a sposare altri figli di latifondisti. E quando parleranno dei figli si renderanno conto che adesso sono vedovi tutti e due. E allora l’amore fiorirà di nuovo come succede a certi cactus che fioriscono nel deserto di Atacama. Fioriscono quando hanno passato un anno sulla terra e la seconda volta il giorno prima di morire. Ma nessuno riesce mai a prevedere questo giorno e allora non è più possibile raccogliere il succo della pianta e farne quel pisco rosato che tanto piace ai banditi. Si sposeranno anche Catalina e Carrero, e lei avrà il suo ultimo figlio, ha solo quarant’anni la donna e lui pochi di più. A quanti la vita offre una seconda possibilità? Se guardi poi verso il picco di Salar, lì ci sono le capanne dei cacciatori di frodo. Tutti in questa terra campano infrangendo la legge. Tutti fanno cose che secondo le leggi del giorno sono inaccettabili, ma ci sono tre cose che non possono sottostare a nessuna legge perché vivono delle loro proprie ragioni: l’amore, la fame e la morte. Cos’altro c’è di importante oltre queste tre realtà che tutti primo o poi sentiamo?”.

Adelina amava andare a trovare lo scrittore perché sapeva che a ogni visita, avrebbe ricevuto il dono di almeno una storia. A lui bastava guardarsi intorno perché le parole iniziassero a uscirgli dalla bocca come i vaticini di un oracolo, le venne in mente per associazione donna Lucente, la profetessa che aveva perso il dono di leggere il futuro e aveva avuto quello di capire la lingua dei morti.

“Hai mai sentito parlare di Lucente, scrittore?”.

“Quella che legge il futuro? Sì, le ho parlato diverse volte, ma sai che a me il futuro non interessa, mi piacciono le sorprese”.

“Dovresti tornare da lei allora, il futuro non lo sa leggere più, ma ha imparato a parlare con i morti. Certo, non le viene facile come prima, ma i morti sanno essere molto loquaci. Soprattutto la notte tra sabato e domenica, quando tutti si divertono prima di andare in chiesa la domenica mattina per confessarsi e poi comunicarsi”.

L’idea di parlare con un morto, al momento, non piacque allo scrittore. Ma poi pensò che forse avrebbe potuto parlare con qualche amico. Questa sì che era una buona idea.

“Che dici di accompagnarmi da Lucente nel pomeriggio? Possiamo passare prima nell’emporio di Antonio per comprarle un regalo. So che non accetta mai denaro, solo oggetti e animali vivi che poi rivende al mercato. Tranne i gatti che tiene sempre con sé”.

“Oh per questo, lei è una vera bruja, e nessuno oserebbe mai contraddirla. Anzi, non immagineresti neanche quanta gente le porta cibo per i gatti, anche se loro passano la giornata nei campi a cacciare e non hanno certo bisogno di cibo umano. Andiamoci verso le quattro, quando mi sarò svegliata dalla mia siesta. Sai che invecchiando non farei altro che dormire? Il meglio della vita sta tutto nei sogni alla mia età. Forse quando morirò diventerò una delle gatte di Lucente e potrò andarmene in giro senza dolori nelle ossa e senza uomini molesti che mi seguono, come mi succedeva quando ero giovane. E non provare neanche a sorridere, sai. Anche tu custodisci dietro quella tua pellaccia cittadina il ragazzino magro che seguiva le capre fino alle cime e correva e nuotava più veloce di chiunque altro. Chi se lo immaginava che saresti diventato uno scrittore. Però forse il tuo desiderio di allora di essere sempre in un altro luogo è lo stesso di oggi. Quando scrivi sei sempre in un altro luogo. Bene, adesso vado a dormire, ci vediamo dopo”.

Quando la vecchia si chiuse la porta dietro le spalle, Alvaro aprì il quaderno e iniziò a scrivere.

“Quando Adelina era giovane, molto giovane e molto bella, uno straniero di passaggio rimase imprigionato nel suo sguardo e non fu più capace di ritrovare il cammino. Francisco era un avventuriero che viaggiava con una bisaccia d’oro e un revolver legati entrambi alla cintura. Adelina aveva occhi chiari e trasparenti come acqua di fonte, forse l’eredità di qualche straniero che era passato in quelle terre e fornicato con una delle sue antenate. Quegli occhi chiari prendevano il colore del cielo quando lei era in piena luce e della fiamma, quando la sera si sedeva vicino al camino a cucire. Diventavano verdi gli occhi di Adelina quando andava per campi e per boschi e Francisco iniziò a seguirla camminando sempre dieci passi indietro perché non voleva spaventarla. Dopo una settimana, gli sembrò che fosse passato abbastanza tempo e andò ad aspettarla sulla strada di casa. Lei lo guardò e capì prima che lui aprisse bocca. Gli disse solo che doveva chiedere il permesso a sua madre e a suo padre che li stavano aspettando. Tutto il paese di Santiago lo aveva visto e tutti si aspettavano che lui facesse una proposta. Quando Francisco chiese a don Isidoro se poteva avere la mano di sua figlia, l’uomo si girò a guardare la moglie donna Mariana. E lei disse solo “Dipende”, ma poi lo fecero accomodare in sala da pranzo, lo sfamarono e lui brillava come l’oro nella sua bisaccia. “Don Isidoro, ho molto viaggiato, sono un uomo abbastanza ricco da potermi fermare. E posso fermarmi solo qui dove c’è Adelina, se voi me lo permetterete”. Adelina, sorrideva tra sé, e poi lo guardò e lui alzò lo sguardo verso di lei e precipitò nei suoi occhi come si cade in un fiume in piena. Si sposarono dopo una settimana e lui non se ne andò mai più. Dopo mezzo secolo di matrimonio felice, le sue ossa riposano sotto il carrubo che c’è in fondo al giardino e Adelina va tutti i giorni a salutarlo e si ferma a chiacchierare con lui. Gli porta sempre una fiaschetta di pisco e lui sembra gradire, perché il carrubo non è mai stato così verde e forte, neanche quando era un seme finito chissà come nella sua tasca e che Adelina aveva messo nella terra sfidandola a far crescere un albero da quel seme straniero. E la terra aveva accettato la sfida e dato vita a quella pianta che dava frutti strani, ma utili. Il carrubo era vigoroso quanto Francisco che aveva fatto con Adelina cinque figli e aveva fatto in tempo anche a conoscere tredici nipoti. Il carrubo, che non era solo come sembrava, aveva lasciato andare i semi nell’aria che avevano incontrato altri semi o forse le api, e altre piante erano nate davanti alle case del paese e facevano una bella ombra quando la calura si faceva insopportabile”.

Dopo avere scritto quelle pagine iniziali di un racconto, lo scrittore andò a sdraiarsi nella sua amaca, c’era tempo prima che Adelina venisse a chiamarlo per andare da Lucente. Poteva continuare a leggere il paesaggio intorno e spremere qualche altra storia dalle nuvole e dal volo del falco. Ma si addormentò subito, allora le storie andarono a trovarlo in sogno, perché un patto è un patto e le storie vogliono essere raccontate quando hanno scelto lo scrittore che più piace loro.

 

Oggi è lunedì 6 settembre del secondo anno senza Carnevale e sono rimasta in compagnia dello scrittore Alvaro Mutis anche oggi e così la Cronaca 547 ha accolto questo nuovo racconto, molto compiaciuta dalla bella compagnia.

venerdì 3 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/544. Voglio solo stare in questa luce, in questo silenzio

 


 

 

Quanto era piccola l’isola, piccola come una mano stretta a pugno, come un fiore non ancora sbocciato, come una tazzina da caffè vuota, quanto era piccola l’isola dove ero appena sbarcata?

Sapevo da anni che un giorno sarei ritornata, lo sapevo dal giorno stesso in cui ero stata costretta ad allontanarmi. Quanto è lungo un anno? Tanto o poco, uno dopo l’altro erano passati gli anni, ed erano quaranta, tanti quanto la traversata del deserto. L’isola non era mai veramente uscita dal mio orizzonte, la vedevo apparire e sparire al centro del lago d’Orta, appariva e spariva in qualunque mare io stessi nuotando, ma sapevo che non ci sarei mai arrivata all’epoca, non in barca e non a nuoto, non nel tempo in cui più avevo desiderato di poterci andare. La prima volta che mi ci sono trovata è stato per caso, un’estate di tanti anni, tanti fa dove ho letto in sequenza e con la voracità tipica della giovinezza Anais Nin, Marie Cardinal, Virginia Woolf, Simone de Beauvoir, Hermann Hesse, Manuel Scorza, Gabriel Garcia Marquez, Roland Barthes, J. L. Borges, Thomas Mann, Franz Kafka, Albert Camus, Jean-Paul Sartre, Marcel Proust, Henry James, Jules Verne, Primo Levi, Luigi Pirandello, Dino Buzzati, John Steinbeck, George Orwell. E ho capito, ammirando l’arcipelago intorno a me, che quelle isole volevo esplorarle tutte e che un giorno avrei trovato la mia isola.

Ora che sono arrivata, scopro di conoscerla come la mia casa, questa piccola isola, ma di non conoscerla davvero fino in fondo. Perché è impossibile conoscere qualcuno o qualcosa fino in fondo. E l’isola muta di continuo il suo profilo, si confonde nella nebbia dell’alba, mi acceca nel riverbero del sole che tramonta. Ci sono raggi verdi che attraversano il fitto bosco e colpiscono questa casa, che è la casa di tutte le case, di tutti i libri e di tutte le librerie. Conosco la fonte di quest’isola, perché per quarant’anni mi ci sono dissetata, conosco la biblioteca, perché ho portato libri in questo luogo per poter preparare il mio ritorno, sempre divisa tra l’altra vita e questa vita monastica che tanto mi aveva attirato sin dall’infanzia. Amare il mondo rinchiuso tra pareti, cercare ristoro nei paesaggi intorno, camminare a piedi, viaggiare, ma poi sempre ritornare tra queste mura, ai quaderni e ai libri.

 

 

Conversazione con un’isola

 

L’isola era sempre uguale, mi

pareva, forse mi stava aspettando,

forse si era dimenticata di me. Io

di certo non di quel luogo protetto

cui davo del tu. Perché rispondono

le isole, anche nella distanza, ho

sempre saputo che questo tavolo,

la penna e il taccuino, mi stavano

aspettando. Mi ha salutato la mia

isola, io le ho risposto in questa

assenza di riferimenti tangibili,

cose e promesse. Qui dovevo

arrivare, qui resto.

 

 

Non è distante dalla terraferma questa piccola isola, ma ora voglio solo stare in questa luce, in questo silenzio che nutrono le parole che arriveranno. È miele questo silenzio e le parole sono le api operose che si preparano per la stagione fredda che già si annuncia mattina dopo mattina.

Oggi è venerdì 3 settembre 2021, il secondo anno senza Carnevale, il secondo anno incerto, vago, difficile e questa è la Cronaca 544, monastica e insulare.

mercoledì 1 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/542. Da qualche parte saremo seduti insieme, in silenzio

 


 

 

“C'è una casetta da qualche parte, circondata da verdi rami di cedro, dove stiamo mangiando biscotti d'avena con miele, intingendoli tre volte nel nostro tè per buon auspicio. Da qualche parte sono seduta con te in silenzio”.

 

Questa piccola casa è in riva a un lago, ci siamo arrivati ognuno da una strada diversa. Non è importante da quanto tempo la casa fosse vuota, forse non ci siamo mai stati, forse l’abbiamo solo sognata. Tu hai portato i biscotti, io il miele e il tè nero che tanto ti piaceva. Il lago è silenzioso, ancora non sono esplosi i colori d’autunno, le poche foglie che non muteranno colore, sono quelle del cedro che ombreggia la veranda della casa. Se fuori la temperatura è ancora piacevole, la casa è rimasta chiusa e all’ombra per troppo tempo. Faccio cambiare l’aria nelle tre stanze, metto il bollitore sulla stufa e accendo il camino. La luce intorno alla casa è dello stesso colore del miele. Il sentore del fumo, il profumo del tè, l’aroma del miele, le ombre dei bambini che corrono nel prato tra la casa e l’acqua, tutto grida nostalgia in queste ore. Ma è una nostalgia dolce che cerca il silenzio, non la nostalgia dell’assenza, quella che ci divora e non lascia scampo al futuro. Ti guardo mentre sei girato verso una delle finestre, sì sei proprio tu, riconosco il tuo profilo, la linea del collo e quella del naso, la barba che adesso porti più corta. Mentre metto i biscotti su un piattino decorato con fiori blu, tu prepari il tè e lo versi nelle tazze che avevamo lasciato qui millenni fa, l’ultima volta che ci siamo stati. Sono due tazze spaiate, una è decorata con un gatto nero seduto, l’altra con un tralcio di rose barocche. Nessuno deve averle usate, ci sono altri servizi di porcellana che non abbiamo mai visto. Prendiamo il primo biscotto e lo intingiamo tre volte nel tè scuro e bollente, come abbiamo imparato a fare da bambini. Vorrei dirti tante cose, spiegarti perché non sono mai tornata, ma sento che tu sai già tutto e che non cerchi spiegazioni e scuse. E neanche io voglio spiegazioni o scuse da te. Il tempo passato è passato, lontani siamo stati, come due nuvole che sono state portate via da venti diversi. Ma ora che i nostri passi hanno trovato la strada, possiamo stare vicini e non parlare. Ci guardiamo negli occhi e tutto il tempo scivola nel fondo delle tue pupille. Siamo ritornati, sempre ritorneremo. Da qualche parte sarò seduta con te in silenzio, da qualche parte ci saranno altre case, altre tazze e altre mani che serviranno il tè. Ma in questo luogo dove forse siamo davvero stati, o che abbiamo solo sognato, in questo luogo, noi saremo per sempre insieme, in bilico sulla stagione che muta, sulla soglia del freddo che cerca nuovi miracoli e nuovi prodigi, molto diversi da quelli che abbiamo già visto. Ritorna quando vuoi, ritorna se puoi. La Casa delle Parole la trovi anche in riva al mare, nel cuore della notte, sulla soglia del giorno nuovo, sulla soglia di un desiderio. Da qualche parte sarò seduta con te in silenzio, sorrideremo.

 

Questa cronaca 542 di mercoledì 1° settembre nasce dalla lettura di un frammento di Phoebe Wahl che ho letto su Facebook nella pagina di Robyn Gordon, che posta parole e immagini meravigliose. Di seguito il testo originale.

 

 

"There is a little house somewhere, surrounded by green cedar boughs, where we are eating oatcakes with honey, dipping them in our tea three times for good luck. Somewhere I am sitting with you in stillness".

lunedì 9 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/519. Tutto il campo del tempo era tinto di rosso fino alla linea dell’orizzonte

 



 

È freddo oggi, non ho mai avuto freddo qui in città nel mese di agosto. Non voglio certo lamentarmi ma agosto era il mese del solleone, dei campi bruciati dal sole e non solo dal fuoco dell’uomo. E oggi fa freddo, il mondo è rovesciato, stiamo per cadere tutti quanti a testa in giù.

S. sentì la donna che pronunciava queste parole mentre camminava avanti e indietro per il campo, doveva essere una povera pazza, ma non aveva voglia di uscire a guardare chi fosse. Stava così bene nel suo cantuccio, era tiepido tutto intorno e c’era acqua a sufficienza, non era il suo tempo, non ancora. Stava così bene che dimenticò la donna e tutto quel che accadeva sopra. Poi arrivarono le piogge, tranquille e l’acqua scese in profondità nelle rogge sino a raggiungere quegli strati di terra argillosa che la trattenevano e garantivano l’irrigazione di quel pezzo di mondo.

Poi arrivarono le macchine e S. venne catapultato anche a lui a testa in giù e si ricordò le parole di quella donna. Poi fu di nuovo sopra e poi sotto e poi sopra, ma troppo in alto ed ebbe paura quando scese la notte e le stelle apparvero nel buio e avevano la sua stessa forma rotonda. Si chiese se le stelle fossero semi di luce o semi di cielo, ma faceva freddo e si addormentò guardandole.

Poi fu di nuovo sotto, sempre più sotto e vide la ragazza che era ritornata, era scontenta come ogni autunno, aveva messo il broncio e Ade avrebbe dovuto penare per farle tornare il sorriso. Di solito bastavano un po’ di scherzi e poi i melograni maturi di cui era golosa. Sentì che di nuovo la terra veniva smossa intorno e poi ci fu meno spazio e c’erano altri semi molto più grandi e chiari di quanto non lo fosse lui. Almeno non si sarebbe annoiato con loro, così sperava. Tra la ragazza che conosceva tutte le stagioni e gli occhi della terra che erano i semi di grano, sarebbe stato bello trascorrere con loro la stagione invernale.

Poi fu neve e freddo ancora più acuto, poi fu notte sempre prima e il ghiaccio che stringeva tutti nella sua morsa. Tornò anche la pazza che parlava da sola a lamentarsi dell’inverno troppo freddo e che lei non era certo cresciuta al Polo Nord per meritarsi tutto quel gelo. Intorno ai campi, i paesi si accendevano di luci anche sugli alberi, forse le stelle erano cadute?

Ma passò anche il tempo delle luci e giorni e notti di buio e freddo erano l’unica storia che conoscessero. Ciascuno aveva già raccontato la propria storia e le storie che aveva ascoltato lassù.

Poi non ebbero più voglia di raccontare e se ne rimasero in silenzio e dormirono quasi tutto il tempo. E il tempo passò, sino a quando il disgelo non strappò anche le acque al loro sonno millenario e tutti lì sotto sentivano una spinta dal basso e S. si chiedeva se non fosse la ragazza a spingerlo, e poi anche qualcosa che li tirava fuori. Erano filamenti di luce che arrivavano e li solleticavano. I primi a spingersi fuori furono gli steli verdi del grano, erano splendidi anche nei campi di periferia della grande città. S. era curioso di vedere cosa stesse accadendo lì sopra.

 

Poi fu anche il suo tempo e da piccolo, nero e tondo si trovò a essere slanciato, lungo e con foglie e boccioli che si sarebbero aperti. Allora era questa la fioritura, S. aveva sentito gli altri che ne parlavano e ne aveva il ricordo anche se era fiorito per la prima volta quel giorno. Poi capì che era il ricordo del fiore rosso da cui era caduto, non il suo, e c’erano anche i ricordi di altri fiori venuti prima, talmente prima che tutto il campo del tempo era tinto di rosso fino alla linea dell’orizzonte. Le spighe del grano erano sempre più dorate ed erano nati anche i fiori blu mescolati con i rossi papaveri. Come si stava bene sotto quel sole, com’era bello non essere più un seme e basta. Nelle capsule dei suoi fiori altri semi si stavano preparando.

Poi tornò la donna che parlava da sola e si chinò per raccoglierlo perché voleva metterlo in un libro, disse. Poi un volo di rondini la distrasse e andò oltre e fu un altro il papavero che rapì per rinchiuderlo in quella cosa spessa che teneva in mano. P. allungò il collo sentì che nel libro c’erano le voci di alberi che erano stati sotto quello stesso sole. Gli sarebbe piaciuto andare con loro, ma non quel giorno.

Poi le capsule esplosero e i semi nuovi caddero nella terra e grandi macchine passarono a mietere il grano e il papavero capì perché la donna aveva detto che la morte era la grande mietitrice. Cadde con le sue spighe intorno e gli altri papaveri e i fiordalisi, ma fece in tempo a vedere ancora le stelle prima di non essere più lui, solo, chiuso in quella forma. Ma solo non lo sarebbe mai stato. Era sparpagliato nei semi che dormivano poco sotto il primo strato di terra e li rassicurò.

Poi sarebbero accadute cose meravigliose, avrebbero conosciuto la ragazza e visto il mondo di sotto.

Poi…

Oggi è lunedì 9 agosto del secondo anno senza Carnevale, una giornata insolitamente fresca che ho comunque trascorso nell’ombra del mio giardino e leggendo ho trovato un papavero che avevo raccolto sul crinale di una collina tanti anni fa, in un paesello che si chiama Golferenzo. Questa Cronaca è la 519 e rosseggia come un campo di papaveri, infinito, sotto l’infinita azzurrità del cielo.

mercoledì 28 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/507. Nell’ombra di una rosa troverai l’uscita

 


Storie dall’arcipelago del tempo/2


Fino a che avremmo avuto cibo e acqua e una certa sicurezza, avremmo potuto continuare a vivere così come avevamo scelto? Ce lo chiedevamo tutti i giorni, era il nostro argomento di conversazione principale e pensavamo di essere stati fortunati a ritrovarci in così tanti nel territorio che un tempo era l’amena località di Bellagio. Proprio sulla biforcazione dei due rami del lago di Como avevamo insediato la nostra comunità. Utilizzammo tutte le case ancora agibili, iniziammo a coltivare i giardini per farne orti, ma cercando di preservare fiori e cespugli che davano grazia al luogo. La fitta rete di canali, fiumiciattoli e stagni era molto pescosa e dopo un primo inverno dove eravamo sopravvissuti grazie al cibo in scatola recuperato dalle case svuotate dai loro abitanti, gli ortaggi e il pesce fresco andarono a costituire la nostra dieta. A tutti mancavano gli agi della vita di “prima”, ma avevamo imparato a non lamentarci, eravamo vivi, eravamo stati in grado di dare vita a una piccola comunità di gente che sentiva e parlava. All’inizio eravamo circa un migliaio, non fu difficile scegliere di organizzarci in una forma di democrazia diretta dove tutti i maggiorenni si esprimevano per alzata di mano. E non fu neanche difficile scegliere le nostre guide, i nostri “portavoce”, come suggerì qualcuno che aveva studiato antropologia e le popolazioni della foresta amazzonica. Certo, non potevamo poetizzare quanto ci stava accadendo, ma eravamo vivi e in buona salute. Molti tra noi erano sopravvissuti a una delle tante pandemie che avevano colpito il pianeta, alcuni neanche si erano ammalati. Tra questi, i discendenti di una donna che aveva diciotto anni quando era scoppiata la pandemia di Spagnola nel lontanissimo 1918 e che non si era neanche ammalata, come tutta la sua famiglia, mentre nel paesello dove viveva prima di emigrare a Milano, più di metà della popolazione si era ammalata e non aveva superato la malattia. La donna aveva raccontato a una delle nipoti questa storia e lei aveva fatto altrettanto. Fu dopo averla ascoltata, che decidemmo di raccogliere le testimonianze e i racconti di noi sopravvissuti. La decisione venne presa all’unanimità dopo che il Consiglio dei cinque Portavoce si fu insediato. Era composta da tre donne: Anna, medico chirurgo; Silvia, fito-biologa; Elisabetta, ingegnere e architetto. I due uomini erano Davide, un informatico convertito all’agricoltura ben prima dell’ultima catastrofe, e Giovanni, geologo e ingegnere delle acque. I loro titoli accademici non valevano più nulla, ma l’esperienza e la competenza che avevano maturato nelle loro vite precedenti, nessuno aveva meno di quaranta anni, furono decisive per far diventare la nostra nuova casa un luogo dove poter vivere. A partire dalla bonifica dell’acquitrino fangoso che era diventato il grande lago.

 

Poi arrivò il giorno in cui la Rete smise di funzionare e così smettemmo di angosciarci per eventi su cui non avevamo alcun controllo e di perdere tempo a scrivere arguti commenti sui social che nessuno mai avrebbe letto. Fino a che riuscimmo a far funzionare le auto elettriche con le scorte di energia, i coraggiosi e i forti andavano esplorando il territorio e recuperavano tutto quello che ci poteva servire per vivere: cibo, acqua, vestiti, mobili, medicine. I palazzi in miglior stato diventarono i nostri magazzini gestiti da Raffaella che dirigeva un centro commerciale un tempo, insieme a una dozzina di altre persone che avevano lavorato come commessi. Cercammo, almeno all’inizio, di non dare più valore alla forza, all’età, all’intelligenza, ma trovammo il modo di far sì che a ciascuno fosse data la possibilità di avere ciò di cui aveva bisogno e di dare ciò di cui era capace. Non credo che il sistema funzionasse perché noi fossimo buoni o migliori, funzionava perché eravamo spaventati, perché eravamo quasi tutti ben oltre la trentina. I giovani, gli adolescenti e i bambini non erano che una cinquantina, così come gli anziani. I virus avevano decimato prima gli anziani in ogni ondata, ma poi avevano iniziato a morire anche i bambini e nessun medico o virologo riusciva a capire perché. Per questo tenevamo in grande considerazione questa parte di popolazione e riuscimmo a organizzare anche una scuola aperta a chiunque volesse apprendere. La priorità venne data alle arti manuali, chi sapeva cucinare, cucire, scolpire, assemblare, coltivare, insegnava ai giovani. Tra noi c’era anche una violinista di mezza età che aveva salvato il suo violino durante la grande fuga da Milano. Iniziò a insegnare musica e gli strumenti via via recuperati nelle case e nelle scuole abbandonate, le permisero di avere un discreto numero di allievi.

Tra i grandi vecchi c’era anche un anzianissimo poeta che aveva scritto centinaia di poesie e i cui libri avevamo trovato nella biblioteca comunale del paese. Aveva confessato di essere proprio lui dopo che, durante une delle serate dedicate alle arti, uno dei ragazzi aveva letto tutto uno dei suoi libri. Quando il ragazzo stava per leggere le ultime poesie, il vecchio poeta si era alzato e ne aveva recitata una guardandoci a turno:

 

 

Fuga

 

Quando sei nel labirinto

il filo della fuga si aggroviglia

ma nell’ombra di una rosa

troverai l’uscita.

 

 

Noi, non solo eravamo nel labirinto, noi eravamo il labirinto stesso. Bisognava solo capire a quale rosa si riferisse e in quale ombra dovevamo cercare l’uscita. Ma quelli che arrivavano da un altro tempo la trovarono prima di noi.

 

 

Un altro mondo sta emergendo, lo lascio affiorare, lascio che prenda casa in queste Cronache e che mi guidi in uno degli altrove dove la mia immaginazione si nutre, pesce e mare allo stesso tempo. Ringrazio Danilo Bramati per avermi fatto utilizzare una delle sue poesie della raccolta Una ruggine nel sangue, che uscirà subito dopo l’estate.

Oggi è mercoledì 28 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 507 è ancora smarrita nel giardino delle rose.

martedì 27 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/506. Quando il tempo si moltiplica nei tempi infiniti

 


Storie dall’arcipelago del tempo/1


Quando le cose iniziarono a cambiare nessuno se ne accorse e quando il mondo capì, non c’erano parole per dire come erano diventate le stagioni. In mezzo all’estate più torrida, appariva uno squarcio improvviso di primavera, piovosa, assediata dalla voglia di ricominciare. E in primavera accadeva che fosse l’inverno a irrompere tra i germogli e i boccioli appena aperti, e che tutto gelasse e la promessa di rinnovamento finisse in cristalli di ghiaccio. In autunno le foglie resistevano aggrappate ai frutti tardivi e profumati come nel colmo della stagione bella. Così l’estate si salvava apparendo a Natale e scaldando gli alberi che germogliavano e poi morivano. Non erano più quattro le stagioni, ma infinite come le combinazioni di alberi, fiori, frutti e germogli.

Fu poi la volta della luce, che arrivava troppo presto, o il buio che cadeva nel pieno mezzogiorno, ed era come se un’eclissi infinita del sole si fosse impadronita del cielo.

All’inizio erano fenomeni che duravano pochi secondi, così era difficile rendersene conto, e il cervello ricomponeva il buio come se fosse stata solo un’ombra e la luce, la luce era più difficile, ma c’erano pur sempre le scie delle stelle cadenti che illuminavano l’oscurità.

La realtà intorno a noi non era più quella che avevamo imparato a conoscere, cercavamo disperati di capire se potevamo fare qualcosa, ma non c’era modo di tornare a quei tempi che erano rimasti solo nella nostra memoria. Almeno così credevamo all’inizio, perché poi qualcuno riuscì ad andare indietro e a ritornare e tutti volevano farlo perché nessuno amava il presente. Tutti insieme stavamo cercando di ritrovare l’infanzia e la giovinezza, almeno chi ne aveva ricordi felici, e chi non aveva un’età mitica a cui ritornare, cercava anche solo quell’unico istante che aveva reso la vita degna di essere vissuta.

Poi in molti iniziarono a non ritornare e il mondo così si divise tra quelli che erano ritornati e quelli che non erano ancora partiti.

Mentre i ghiacci si scioglievano, mentre il livello delle acque saliva in tutti i mari e oceani, intere città furono sommerse in entrambi gli emisferi, ma chi aveva il tempo di ricordare Venezia o New York? Si poteva tornare indietro, perché limitarsi a conservare quello che era stato costruito secoli prima?

Il mondo come lo conoscevamo non esisteva più, caddero le nazioni, si estinsero altre centinaia di specie animali, ma quelli che potevano continuavano a pagare per tornare indietro, viaggiavano. Gli altri, le masse, le moltitudini, si arrabattavano e arrancavano, storditi dagli smartphone e dalle immagini che stavano soppiantando ogni lingua parlata. Si comunicava solo con gli emoticon e con versi simili a grugniti. Solo chi conosceva la lingua dei segni si salvò da questa decadenza. Furono proprio loro, i sordi o i minorati sensoriali dell’udito, come si preferiva dire in quell’epoca di politicamente corretto, che si unirono e andarono a costituire la nuova casta dei governanti insieme ai fisici quantistici che garantivano la possibilità di viaggiare avanti e indietro nel tempo a se stessi e a chi poteva permettersi di pagare le cifre a tre zeri per poter andare in un angolo qualunque dello spazio tempo. Le moltitudini stordite vennero poi sterminate da una sequenza di altri corona-virus che si succedevano come un tempo la stagione dei raffreddori. Così cambiava il mondo che avevamo conosciuto, così rimanemmo in poche migliaia a parlare alla vecchia maniera, a decidere di non tornare indietro. Come gli uomini libro di Fahrenheit 451, avevamo scelto di vivere lontani dalle grandi città e di coltivare le piante di cui ci saremmo nutriti e di allevare pecore e capre per la lana, il latte e il formaggio. Il villaggio dove vivevamo quando tutto iniziò, non era lontano da quello che un tempo era stato uno dei grandi laghi lombardi e che era ridotto più a un acquitrino fangoso che a un laghetto. Ci eravamo adattati e non ci allontanavamo mai oltre il necessario per portare al pascolo gli animali. Eravamo sempre meno nel mondo e lo sentivamo anche senza andare a cercare le notizie, scarse e incomplete, che la Rete continuava a portare come fa la marea con i relitti di un naufragio. Forse eravamo davvero come dei naufraghi. Ma poi accadde che in quel tempo, nel nostro tempo malato, iniziarono ad arrivare viaggiatori che arrivavano non solo da altre epoche, ma anche da altre realtà. Il tempo era davvero uscito dai cardini, a qualcuno toccò di ritrovarsi bambino e di vivere il paradosso di non conoscere il proprio passato. Questo era il nostro mondo, a metà di quello che era stato chiamato XXI° secolo, ma che era solo un’isola in un arcipelago di istanti che non riuscivamo più a tenere insieme.

 

Ecco l’inizio di una nuova storia che forse scriverò, una storia di fantascienza, come quelle che leggevo nelle estati dell’adolescenza. In questi giorni questa pioggia così poco estiva mi ha fatto venire voglia di rileggere alcuni di quegli autori. E intanto di scrivere l’incipit di una storia senza punti di riferimento. Cosa ne verrà fuori in questo secondo anno senza Carnevale? Oggi è martedì 27 luglio e questa è la Cronaca 506, ancora sdraiata in giardino a leggere Ray Bradbury.