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giovedì 7 aprile 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/760. Azzurra felicità, d’insubordinazione stupenda

 

 


Di che colore è la felicità? Sì, credo proprio che sia azzurra come suggeriscono questi versi di René Char, che ho utilizzato anche per il titolo della Cronaca:

 

"Felicità che è differita ansietà soltanto. Azzurra felicità, d’insubordinazione stupenda, che balza via dal piacere, polverizza il presente e tutte le sue istanze".

 

Un lampo azzurro, è questa la felicità in questa giornata dove nel tardo pomeriggio ho visto la mia amica Paola per farle dono di blocchi, quaderni, penne e matite per i bambini del doposcuola dove lei fa volontariato. Siamo rimaste nel mio quartiere a prendere un aperitivo e a chiacchierare di passato, presente e futuro. Ci conosciamo, io e lei, da quasi un quarto di secolo e siamo state colleghe per molti, moltissimi anni. Quanti ricordi condivisi e quante storie da raccontarsi, quante persone abbiamo conosciuto e perduto. Ma era più importante oggi parlare di tutta quella carta e cancelleria utile per i bambini che potranno disegnare, colorare, strappare e appallottolare, tutte attività che rendono la carte protagonista dell’infanzia. C’era davvero un cielo azzurro che sembrava premessa e promessa della primavera ormai arrivata, almeno per il calendario, era azzurro il nostro cielo, così azzurro. E ci ha regalata un lungo momento di quiete dove abbiamo condiviso le nostre parole. Sono proprio questi momenti colmi di dolcezza che rendono una giornata semplice, qualunque, in una giornata ben riuscita e memorabile.

Così, con questo cielo azzurro che mi abita dentro prendo commiato da giovedì 7 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra. Il tempo passa, la primavera arriva, nonostante tutto, nonostante noi. Questa Cronaca 760 lo sa, tinta di azzurro felice com’è.

mercoledì 12 gennaio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/675. Esco e incontro una foglia, la vita mi sorprende sempre

 

 


Qualunque cosa accada, la vita sempre ci sorprende, per quanto ci facciamo prendere dalla frenesia di controllare e prevedere gli avvenimenti, la vita va dove va.

Anche oggi sono riuscita a spolverare un ripiano della libreria piccola, a raggruppare i libri per autore, a decidere se ci fossero libri cui posso rinunciare. Ce ne sono, ce ne sono sempre di libri cui rinunciare, libri che non rileggerò mai più, ma anche libri che non leggerò e che è inutile che io continui a tenere imprigionati nei miei scaffali, finito anche questo lavoro, decido di andare a fare una passeggiata.

Esco e incontro una foglia, è l’ultima a essere caduta dall’albero bellissimo, la raccolgo, è piccola, sembra che stia tremando, decido di conservarla nel libro che sto leggendo. È una giornata fredda e sfolgorante, con una luce molto poco invernale, in campagna già fioriscono i fiorellini nei prati, le scuole sono aperte, la pandemia progredisce, i contagiati aumentano, le cose che accadono in questi giorni sono una ripetizione di cose che abbiamo già visto accadere, l’anno scorso e l’anno prima ancora, come se fossimo chiusi in un loop temporale infinito che non ci permette di superarlo e uscirne. Ma poi ho incontrato questa piccola foglia che non lascerò divorare dal tempo e che terrò con me in un libro molto amato che sto rileggendo, le memorie della de Beauvoir, quanto mi sta piacendo rileggerla.

 

 

Canto delle cose felici

 

Le piccole cose sono davvero

la felicità della vita. Una foglia

appena caduta, un libro amato,

una tazza di tè fumante alla

fine di una passeggiata. Sono

sublimi le piccole cose quando

incontrano la poesia, perché

smettono di essere cose e

diventano frammenti della

nostra anima strappati al

logoramento del tempo. Per

questo, anche per questo

scrivo poesie, per ricordare

che il tempo è solo un modo

per raccontare la felicità

delle piccole cose.

 

 

Sono questi attimi luminosi, questa pienezza dell’essere anche mentre ci occupiamo di piccole cose, a rendere gioiosa una giornata d’inverno che ha conosciuto poche buone notizie.

Bene, anche questo mercoledì 12 gennaio del terzo anno senza Carnevale volge alla sua conclusione e questa Cronaca 675 ha avuto la sua poesia e ne è contenta, lo so perché la sta rileggendo per la terza volta.

sabato 31 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/510. Estate e Calabria erano una sola parola, gioia di vivere e mare e sole

 



Agosto, le vacanze finalmente! Che grande rito collettivo sono state le ferie d’agosto per noi baby-boomer. E in questa comunanza ogni famiglia aveva la propria ritualità.

I preparativi: acquisto dei doni per i parenti, chili di zucchero e caffè, come se giù non ce ne fosse, stoffe, vestiti, scarpe. Zucchero e caffè ci ho messo un po’ a capirlo come regalo, ma il caffè, freddo e già pronto, o appena fatto con la caffettiera napoletana e zuccheratissimo era una cortesia per gli ospiti imprescindibile. Ho conservato io la “guantiera” – piccolo vassoio di vetro – che era a della nonna, e che girava per casa a qualunque ora.

La partenza: quasi sempre nel cuore della notte, tra le 2 e le 3 del mattino, qualche volta un po’ più tardi, prima dell’alba. Ho imparato così a conoscere l’odore della notte a Milano, un misto di umidità, erba e aria stagnante.

Il viaggio: si partiva con due thermos, uno di caffè per i genitori e uno, più grande e largo, di polpette per tutta la famiglia. Poi pesche e pomodori, pane a fette, damigiana termica da 5 litri gialla e bianca che poi ci avrebbe accompagnato al mare ogni giorno. Di solito, quando si arrivava in Calabria era d’obbligo una sosta a Spezzano Albanese per riempirla con l’acqua buona. Ai bambini era concesso un supplemento di patatine Pai, gomme del Ponte, tavoletta di cioccolata e una buona scorta di fumetti Topolino. Il tutto veniva consumato entro le prime due ore di viaggio e poi iniziavano i litigi. Le soste ai distributori di benzina della Esso “metti un tigre nel motore” erano imprescindibili. L’odore della benzina, le code ai bagni, gli Autogrill Pavesi, un cappuccino con brioche se era ora di colazione, i giochi colorati e il cibo in abbondanza che, anno dopo anno, sembravano sempre uguali. La prima meta era Bologna, ci volevano dalle 2 alle 4 ore a seconda dell’ora e del giorno di partenza del primo fine settimana di agosto. Poi bisognava scegliere se proseguire sull’Autostrada del Sole, una vera avventura, o prendere l’Adriatica. Posso dire di aver visto quasi nascere e crescere le due principali reti autostradali d’Italia. Gli Appennini erano tutto un “Sali, Sali” e “Scendi, Scendi”, uno dei miei primi viaggi durò quasi 3 giorni, la macchina era una Prinz azzurra e ancora potevo stendermi da sola sul sedile posteriore e ronfare per quasi tutto il viaggio o giocare con la mia bambola Susanna e il bambolotto Mario, calciatore dell’Inter con la classica maglia a righe nerazzurre (a proposito, la nuova maglia pitonata, ma a chi è venuta in mente?). E poi i raccordi anulari di Roma e Napoli, la Basilicata, Lagonegro – che è davvero un lago scuro – il monte Pollino e poi Calabria e odore di gaddruzzo, cioè galletto, come diceva papà.

L’arrivo: i parenti erano tutti lì che ci aspettavano, io correvo subito dalla nonna. “Nonna, nonna! Dove sei? Siamo arrivati!” e lei mi rispondeva ridendo: “Bella!” era così che mi chiamava insieme a bell’i nanna, Ninni e Titti, si proprio come il canarino di gatto Silvestro che adoravo. E poi la cuginetta Maria, detta Mariuccia, la mia gemella e complice di tutte quelle estati. E tutti gli altri zii e zie, fratelli e sorella di papà, con i miei cuginetti e i cugini di papà e sorelle e fratello della nonna. Quanti eravamo? Mal contati direi almeno in 70. Da non crederci, davvero. E l’estate era davvero solo quella calabrese, perché luglio era il prologo al grande viaggio e settembre il mese della nostalgia dolce, che si stemperava solo con l’inizio della scuola.

La vacanza: qua e là ne ho già scritto nelle Cronache, oggi dico solo che la vacanza era sinonimo di felicità. Una felicità fatta di mare, e poi dei boschi di querce, dei fichi, dei mandorli e dei noci, dei campi di grano bruciati, dell’odore del focolare, dei peperoni verdi fritti, dei pomodori dell’orto, del tabacco steso a essiccare, del fieno, del grande oleandro bianco davanti a casa e di quelli rosa verso l’orto, del pergolato di uva fragola, del gattone tigrato e delle galline che razzolavano libere ovunque, del bucato che profumava di sapone di Marsiglia. E il rito della salsa di pomodoro che iniziava all’alba con il lavaggio delle bottiglie e finiva con la bollitura delle stesse, avvolte in sacchi di iuta in un enorme bidone che era stato abbandonato dalla Wermacht tedesca alla fine della guerra. E soprattutto della gioia di essere tutti insieme, di divertirci, di correre a piedi scalzi sulla terra come facevano i cuginetti, di cucinare le pizze nel forno a legna di zio Giacomo, di giocare interminabili partite a Scala 40, Briscola e Scopa d’Assi con i cuginetti Domenico, Luigi e Salvatore. E poi a Zorro/Luigi, di cui io ero la fidanzata – che nella serie non c’era – e il sergente Garcia/Salvatore e il servo muto Bernardo/Mariuccia – non chiedetemi perché, ma ero io che assegnavo le parti, e gli inseguimenti su e giù per la collina dello zio, e le scorribande nel granaio e poi nel pollaio a far scappare le galline e i niani, tacchini. E i fichi tiepidi mangiati appena colti dall’albero, le more dei gelsi, le nespole, merenda squisita gratis a ogni ora. E le mandorle e le noci acerbe che un’estate ci causarono un avvelenamento da tannino con febbre a 40°. E ancora i salti sul lettone di zia Maria, gli arrampicamenti sul baule della camera da letto che era sotto la finestra e saltare giù stando in piedi, così sembrava alto il doppio quel salto. E le colline che ci circondavano e il mare che era di là, oltre, ma sempre presente. Quelle erano vacanze, quella era la gioia del corpo, lo stordimento del sole, la freschezza dell’acqua.

La partenza: significava ore di pianti, abbracci, promesse per l’estate dell’anno prossimo che iniziava già da quel giorno. Si partiva con la macchina con le valigie legate sul portapacchi insieme a cassette di legno con le bottiglie di salsa che dovevano bastare a superare l’inverno, i pomodori freschi, i mazzi di basilico, i peperoni verdi da friggere e quelli secchi rossi da mangiare in inverno con i broccoli e qualche cucchiaiata di scarafuogli, cioè tutto il grasso e la carne del maiale che restavano sul fondo del pentolone dopo avere bollito le ossa. E ancora il pollo fritto con l’aglio, l’origano e le patate avvolti poi nella carta oleata, la pagnotta e le pite, le frese, i pomodori, le cipolle rosse di Tropea, i fichi maturi, le more.

L’arrivo a Milano: l’odore della pianura, il cielo grigiastro all’alba, l’ultimo Autogrill dopo Bologna, il casello di Melegnano, la tangenziale. E la gioia che diventava sogno e desiderio per l’estate che sarebbe arrivata dopo tre stagioni milanesi.

Se potessi fare un viaggio nel tempo è proprio lì che vorrei andare, in quella terra, con quelle persone, con quel sole e quei profumi, a cercare la bambina di campagna che sono stata e di tornare ad arrampicarmi sul gelso da more con Mariuccia e un vaso di Nutella sottratto a zia Maria, che per lei era nonna Maria, che ci spalmammo sulla faccia prima di mangiarla.

 

Oggi è sabato 31 luglio, l’inizio delle vacanze, la fine vera dell’anno che è ancora un anno senza Carnevale, come questa Cronaca calabrese che è la 510.

P.S. del giorno dopo: mio fratello mi ha ricordato che tra le merende del viaggio di andata c’erano anche i biscotti Togo. La memoria ha davvero anche una dimensione collettiva incredibile, per questo 1+1 fa 5.


martedì 13 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/492. Una felicità di carta e parole


 

Leggere libri crea dipendenza, comprare libri crea dipendenza. Niente di meglio da annusare di un bel libro di carta, niente di meglio che guardare i libri nelle mie librerie domestiche e nelle incerte torri accanto al letto. È vero, i libri compongono un paesaggio che non sta solo nei nostri occhi ma che ogni giorno ci aiuta a ricordare e definire chi siamo, da dove veniamo e dove vorremmo andare. A Milano hanno chiuso molte belle librerie, la Feltrinelli di via Manzoni e la libreria Utopia tra le ultime, che avrebbero potuto conferirmi la carta di platino come miglior cliente! E ogni tanto compro libri anche su Amazon – Italia, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti, perché a volte non resisto all'urgenza di avere tra le mani una novità e non voglio aspettare l’occasione di andare in libreria e perché i libri nelle altre lingue che leggo – inglese, francese e spagnolo – arrivano nel giro di pochi giorni o settimane e mi sembra inutile passare da una libreria fisica visto che a Milano, chiusa la Feltrinelli di piazza Cavour e fatto salvo per la Hoepli, proprio non saprei dove andare a procurarmeli i libri stranieri.

Grande soddisfazione mi dà comprare libri su Maremagnum che è una libreria virtuale che aggrega centinaia di librerie non solo italiane. Ho comprato decine di libri anche da loro perché il gusto di un libro di seconda mano, non somiglia a null'altro al mondo e la mia passione bibliofila si esprime proprio quando compro libri usati. A volte, quando sono molto fortunata, ci sono foglietti e annotazioni, dediche e riflessioni dei proprietari precedenti e questo rende per me quel libro ancora più prezioso. Il momento che amo più di tutti è quando mi arrivano i pacchetti e ogni volta è come se fosse la mattina di Natale quando avevo sei anni. Quando mi capita di leggere un e-book, mi manca la sensazione tattile della carta, il peso nella mano, la copertina, poter sottolineare e segnare e scrivere sui margini come faccio sempre quando leggo un libro che mi piace e scelgo citazioni per il mio blog. Mi manca il non poterli annusare e sfogliare e poi decidere se è un libro che vorrei rileggere, se non rileggerò mai ma voglio comunque tenere, o se è un libro che potrei decidere di vendere al Libraccio o regalare alla biblioteca vicino a casa. Mi piacciono le copertine dei libri di poesia, quelle bianche di Einaudi, quelle colorate di Adelphi, quelle eleganti dei libri di poesia di Crocetti Atì (editore con cui ho pubblicato gli ultimi tre libri di poesia). Prima della pandemia prendevo tutti i giorni la metropolitana per andare in ufficio e così, visto che gli e-reader non hanno copertine, quando i pochi lettori che incrociavo in metrò ogni mattina leggevano su Kindle o Kobo, il non sapere cosa stessero leggendo un po’ mi scocciava. Un giorno c’erano due uomini coi capelli grigi che leggevano libri di carta: il primo, molto più alto di me, leggeva Anna Karenina di Tolstoj e non leggeva nella mente, ma compitava con le labbra e sussurrava parola dopo parola, e non avevo fatto fatica a scoprire il titolo del volume. L’altro, più basso di me, stava leggendo i racconti di Gianrico Carofiglio Non esiste saggezza e si era un po’ seccato perché ho continuato a girargli intorno finché non sono riuscita a vedere la copertina del libro. Ero sempre contenta quando incontravo gente che leggeva in metropolitana anziché sfogliare compulsivamente i social o fare qualche giochino. Una volta ho addirittura incrociato una signora che leggeva Proust in francese e un ragazzo che leggeva il Don Chisciotte.

Anche io, come quasi tutti i lettori forti, quando scopro uno scrittore che mi piace divento un temibile lettore seriale. Devo leggere tutto quello che è stato pubblicato e se ci sono in circolazione biografie, autobiografie, epistolari, carteggi, saggi critici, devo leggere pure questi e sono in preda alla frenesia più assoluta fino a che non ho finito.

Mi era accaduto con Simone de Beauvoir e Grazia Livi, con Colette, con Sylvia Plath, con Rimbaud BaudelaireProust Marie Cardinal, con Alberto Moravia e Eugenio Montale, con Katherine MansfieldVirginia Woolf Marina Cvetaeva, tra gli altri, quando ero ragazza e via via negli anni  Anton Cechov, Tolstoj e Dostoevskij, Raymond Carver, Irène NémirovskyGianrico CarofiglioAlicia Gimenez BartlettAgota Kristof, Philip Roth, Paul Auster e Siri Hustvedt, Karen Blixen e Audrey Thomas, Andrei Makine, Alvaro Mutis e Danilo Bramati, Anne Michaels e Francesco Biamonti, Antonella Anedda e Amos Oz, Marguerite Yourcenar, Mishmima e Murakami. (E qui chiudo, per oggi, la lista perché finirei con il riscrivere la Garzantina della Letteratura).

Leggere è una delle cose che più amo al mondo, i libri sono tra i miei oggetti preferiti. E credo che il segreto di ogni lettore forte stia nella felicità fatta di carta e parole che un libro è.

È una felicità fatta dalla consapevolezza di appartenere a una vasta comunità di lettori e scrittori che conversano e crescono, maturano, amano, imparano, pensano e si divertono attraverso il tempo e lo spazio. Se il tempo è la quarta dimensione, i libri sono la quinta, ogni libro è un mondo da scoprire e condividere. Ogni libro scritto è un dono al mondo, ogni libro letto è la felicità della condivisione. I primi due libri da “grandi” di cui sono diventata proprietaria sono stati il Libro de poemas di Federico Garcia Lorca e un vocabolario Zingarelli della lingua italiana edito da Zanichelli. Le poesie le leggevo senza capire le metafore, avevo sette anni, e il vocabolario lo leggevo in ordine alfabetico. Mi piace pensare che questi due libri abbiano fatto scoccare la scintilla che mi ha spinto non solo a diventare una lettrice forte ma anche a scrivere. Ho pubblicato 5 libri di poesia sinora: Il calvario della rosa; Sillabario della luce; Figure del silenzio; Scrivere il vento; Un’estate invincibile. E anche romanzi, di cui due pubblicati sino ad ora: Frammenti del tredicesimo mese e In giornate identiche a nuvole; e poi a scrivere i profili delle scrittrici che amo per l’Enciclopedia delle donne e recensioni per varie riviste, blog e siti. 

Aveva ragione Umberto Eco quando scriveva che leggere è un’immortalità all'indietro e George R. R. Martin quando dice che leggere è vivere mille vite. Non so se riuscirò a leggere tutti i libri che ho comprato e che mi hanno regalato prima di morire. Ma non ci penso, sono troppo impegnata a leggere.

Oggi è martedì 13 luglio del secondo anno senza Carnevale e la pigna dei libri in lettura mi sta aspettando insieme a questa Cronaca 492 che legge con me.

lunedì 14 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/190: poesia della bambina con la cartella rossa

 

La scuola iniziava il primo ottobre ai miei tempi. Settembre era ancora un mese di giochi sfrenati nei cortili, di corse sugli schettini e in bicicletta, di richiami materni dal balcone per andare a comprare il pane e il latte.

La cartella nuova, a mano e che doveva durare diversi anni. Anche l’astuccio era semi-eterno e così le matite, la gomma, le biro rossa e nera. Alle elementari cinque anni di sussidiari in una classe sovraffollata, di oltre quaranta bambine. Doppi turni per tutto il ciclo elementare, medie e i primi due anni di superiori. Poi andava avanti chi ce la faceva. Della mia prima superiore, dove eravamo in trentadue, siamo arrivati agli esami di maturità in dodici e neanche tutti promossi.

La scuola era molto nozionistica, bisognava ascoltare, leggere, studiare, ripetere, dimostrare che si sapevano le cose seguendo rigidamente il programma. Bisognava saper fare i dettati, riconoscere le parole, non c’erano stimoli diversi dal piacere personale che lo studio e i libri potevano dare ai bambinetti che eravamo. Uno dei momenti clou della mia vita scolastica fu in quinta elementare quando un mio tema contro la guerra venne scelto come editoriale del neo-fondato giornalino scolastico “Scarabocchi di noi scolari”. Non era molto incoraggiante quel nome, ma nessuno ci badò e tanto meno io che venni nominata direttore, perché in italiano ero la più brava.

Alle medie ci furono almeno due professoresse che segnarono i miei studi: la professoressa di italiano Lucia Buratti, maoista-leninista-femminista. Soprattutto femminista, fu lei a farmi leggere Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, fu lei che mi appassionò alla politica e allo scambio intellettuale. Quando ci fu il referendum sul divorzio nel 1974 il mio tema scatenò un dibattito accalorato non solo in classe, ma nella scuola. Perché avevo scritto che ero favorevole al divorzio e anche i miei genitori. Quindi al referendum avrebbero votato NO e io ero orgogliosa della loro scelta. Perché chi avrebbe voluto vivere insieme a dei genitori costretti a farlo e non perché lo avevano scelto? L’altra professoressa era la sig.ra Mazzini, non ricordo più il suo nome, di educazione artistica. Con lei la bellezza dell’arte mi si dischiuse davanti anche se, invano, cercò di riuscire a farmi esprimere la mia creatività. Se non per qualche mese nel 1975, dove avevo disegnato e dipinto cose mai più ripetute, le sue esortazioni furono inutili.

Ricordo molto bene molti dei miei primi giorni di scuola, quasi tutti direi, un lungo elenco risulterebbe noioso, quindi non lo scriverò. L’eccitazione e la gioia non sono mai venute meno né all’inizio, né durante l’anno scolastico. La mia emancipazione di donna e di essere umano è passata attraverso lo studio e i libri. E la passione per lo studio non è ancora venuta meno, anzi, si è consolidata negli anni.

Di tutti quei primi giorni di felicità assoluta, c’è un’immagine che mi è particolarmente cara. La bambina con la cartella rossa a mano che si avvia verso la sua scuola elementare con la speranza nel cuore di ritrovare Laura, la nuova amica conosciuta al campo giochi il pomeriggio del giorno prima. Aveva una lunga coda di cavallo la bambina Elena e l’animo pieno di aspettative.

La scuola non mi ha mai deluso, è stata sempre una delle cose migliori della mia vita. È anche grazie alla scuola che ho imparato ad amare la poesia e a sentirla risuonare in me.

 

Questa Cronaca 190, scritta il quattordicesimo giorno di settembre dell’anno senza Carnevale, è forse la cronaca più cronaca e meno poetica, ma oggi mi sento solidale e in sintonia con i milioni di studenti e scolari delle scuole italiane e planetarie. E mi sento vicina alle famiglie, zie incluse, agli insegnanti e spero che la gioia che ho conosciuto si diffonda come una polverina magica nell’aria e faccia risplendere gli occhi dei bambini. Nonostante il virus che continua a diffondersi e la paura che ci accompagna.


mercoledì 8 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/31: la gioia è vicina


La gioia sta all'eternità come la felicità sta all'istante.

Non ho nessuna prova se non la mia esperienza di vita, se non la poesia, di altri e mia.

Da decenni raccolgo citazioni e poesie, mi confronto con altri poeti e scrittori nel dialogo silenzioso che è la lettura, una delle attività umane che mi rende gioiosa.

Quando scrivo sono gioiosa, e non è solo un sentimento della mente, ma è qualcosa che parte dal corpo e vi ritorna, che scorre attraverso le dita sino all'inchiostro e alla pagina e ritorna attraverso le parole e la vista, giù nel profondo del cuore.

Antonella Anedda, una delle poetesse che sta in cima al mio personale Olimpo, ha intitolato uno dei suoi libri Il catalogo della gioia e in esergo ha citato il rabbino Nachman di Breslaw “A chi gli chiedeva quale differenza ci fosse tra l’essere tristi e avere il cuore spezzato, Nachman rispose che avere il cuore spezzato non impediva la gioia”.

Siamo tutti cuori spezzati in questo periodo storico, noi stessi con le nostre vite chiuse nell'intimo delle case, siamo diventati storia vivente. Forse non è mai accaduto prima di questa pandemia che la cronaca si facesse storia condivisa giorno dopo giorno.

Ma il nostro cuore spezzato, che insegue la gioia, sa ancora riconoscerla quando la prova.

Gli amori che nascono alle finestre della nostra clausura o sui balconi, gli amori che nascono nella condivisione di parole mai pronunciate prima, gli amori che resistono alla mancanza d’aria, alla lontananza, la scoperta di avere bisogno di poco per stare bene e che quel che manca non sono le cose ma le relazioni, le persone.

La gioia si manifesta quando le idee fluiscono e si preparano a trovare casa nello studio o in una lettera, quando il mistero della poesia irrompe nei gesti della vita quotidiana e li rende eterni con poche frasi.

Scriveva la poetessa russa Marina Cvetaeva, che visse in tempi tremendi, nei suoi taccuini moscoviti:

“Alle 10 la giornata è finita. Talvolta sego e taglio legna per il giorno dopo. Alle 11 o alle 12 vado a letto. Sono felice del lumino proprio accanto al guanciale, del silenzio, del quaderno, della sigaretta, talvolta - del pane.
Scrivo malamente, in fretta. Non ho annotato né le ascensioni in soffitta - niente scala (l'hanno bruciata) - mi isso con una corda - per prendere le travi, né le continue ustioni delle braci che (impazienza? esasperazione?) afferro direttamente con le mani, né le corse su e giù per i kommissionnye (che abbiano venduto tutte le mie cose?) e per le cooperative (che distribuiscano?).
Non ho annotato la cosa più importante: l'allegria, l'acutezza di pensiero, le esplosioni di gioia ad ogni più piccolo colpo di fortuna, l'appassionata tensione di tutto l'essere - tutti i muri sono coperti di versi e di NB! per il taccuino”.

Anche Oliver Sacks, neuroscienzato e narratore impagabile scrive nella sua autobiografia In movimento”:

“(...) l'atto di scrivere, quando va bene, mi dà un piacere, una gioia, che non somiglia a nessun'altra. Mi porta in un altrove che mi assorbe interamente facendomi dimenticare tutto, ansie, preoccupazioni e persino il passare del tempo. In quel raro, paradisiaco stato della mente arrivo a scrivere senza sosta fino a che non riesco più a vedere il foglio. E solo allora scopro che è scesa la sera”.
E solo allora scopro che è scesa la sera, in questo senso la gioia si rapporta all’eternità perché il tempo cessa di esistere, mentre la felicità è quella freccia che ci trafigge e ci inchioda all’attimo presente e subito ne abbiamo nostalgia, perché è passato.

Ancora Marina Cvetaeva scriveva a Rilke nell’epistolario che ho già citato in qualche Cronaca fa:

“Ti aspetto con gioia come se tu fossi un intero paese e completamente nuovo”.

Lorenzo Gobbi, poeta e scrittore che vi ho già presentato, ha scritto un piccolo meraviglioso libro, il Lessico della gioia, di cui riporto il brano iniziale del secondo capitolo:

“La gioia è l’esito di una liberazione: è sostanza di vita liberata. In essa, la nostra vita può parlarci con infinita libertà, cioè con una sincerità disarmante. È ragionevole credere che la gioia sia un rivelarsi fulmineo del mondo e del suo senso, e che scaturisca innanzi tutto dalla prossimità dell’essere stesso che si dona a noi nel linguaggio che più gli è congeniale: immagini, bagliori e luccichìi. Ce lo conferma Hölderlin, in uno dei suoi sorprendenti colloqui con Diotìma:

Vieni, è la gioia intorno. Al bosco i rami
sono vento nel fresco della brezza
come ricci alla danza, e il cielo
è uno spirito lieto
che al suono della lira
ritma sopra la terra
pioggia e luce di sole. Sulle corde
un brulichìo molteplice di suoni,
battaglia innamorata.
Luce e ombra s’alternano melodici,
dileguano oltre i monti.
Prima il cielo sommesso tocca il fiume
fraterno d’una gocciola d’argento.
Prossimo ora agita
la preziosa pienezza del suo cuore
sul bosco e il fiume.

Una pioggia primaverile, rapida e leggera, è l’immagine stessa della gioia. Il cielo la alterna sapientemente alla luce del sole, come due aspetti di un unico dono che ne svela la “preziosa pienezza” – quella stessa che si “àgita” in prossimità delle cose, pronta a rivelarsi in questa armonia”.

La dimensione fusionale con la natura è fonte certa di gioia, così come lo sono, per quanto mi riguarda, la vicinanza dei bambini, dei gatti, le conversazioni con gli amici, anche solo al telefono, le onde del mare, le nuvole, il vento che fa cantare gli alberi, l’aria intorno che muta e si fa fiutare come fossimo lupi appena scesi dalle montagne, spesso in coppia in quella fedeltà reciproca che solo i lupi conoscono.

È fonte di gioia la mia biblioteca, i libri che ancora non ho letto, i libri che ancora non ho scritto, mi danno gioia i tanti post intelligenti e riflessivi che leggo nella mia bolla social, le fotografie che mi mostrano la bellezza del mondo in questo tempo dove non posso andare in nessun luogo.

Tornerò a scrivere della gioia, perché oggi la sento fluire in me, nonostante tutto.

Il mio congedo odierno è una poesia che ho copiato tanti anni fa sul mio taccuino ma di cui, purtroppo, non conosco il libro da cui è tratta e il traduttore.

Le prime ore

Le prime ore del mattino. Ancora non scrivi
(anzi, non provi nemmeno a scrivere) leggi solo pigramente
Tutto è fermo, tranquillo, pieno, ma
come per un regalo della musa della lentezza,
come tempo fa, nell'infanzia, in vacanza, quando a lungo
si studiava una mappa colorata prima della gita, una mappa
che prometteva così tanto, stagni profondi nel bosco
come occhi luminosi di farfalla, prati di montagna
coperti di erba pungente;
oppure un momento prima di addormentarsi, quando
ancora non ci sono sogni,
ma già si sente il loro arrivo da ogni parte del mondo,
la loro marcia, il pellegrinaggio, la loro veglia al letto del malato
(malato per davvero) e il vigore tra sculture medievali
rannicchiate in sé nell'eterna immobilità sopra la cattedrale;
le prime ore del mattino, silenzio
- ancora non scrivi,
ancora non capisci così tanto.
La gioia è vicina.

Adam Zagajewski

mercoledì 28 agosto 2019

Una geografia delle felicità possibili

Non so cos'ero venuto a cercare a Santa Cruz, quel giorno. Ma quello che trovai lì mi andò bene. La quiete. Forse perché mi era bastato chiudere gli occhi perché il paesaggio mi entrasse dentro fino a diventare mio. Allora ho capito che sarebbe rimasto in me ovunque fossi andato. Ho capito dopo, in altri porti, in altre città di questo Mediterraneo, che sarebbe stato sempre così. Che quello che avevo scoperto non era il Mediterraneo preconfezionato che ci vendono i mercanti di viaggi e di sogni facili. Quello che offriva, che mi offriva il mare non era nient’altro che una felicità possibile. Di sicuro, anche altrove sarebbe stato sempre così. E così, nel corso degli anni, mi sono creato una geografia delle felicità possibili. In questa geografia rientra Biblo. Yazid, un pescatore incontrato al porticciolo, mi aveva raccontato la leggenda di Adone. Una leggenda fenicia. Il primo giorno di primavera, Adone morì alle sorgenti del fiume che oggi porta il suo nome, fra le braccia di Astarte. Il suo sangue fece nascere gli anemoni e tinse di rosso il fiume dalle acque ferruginose. Allora le lacrime di Astarte caddero a pioggia sulla natura al risveglio, e ridiedero vita all'amante. Un tempio ai piedi della grotta di Afqua, innalzato dai fenici, le rende omaggio. Ero venuto a vedere proprio quel tempio. Un tempio dell’amore. Della fedeltà. Ero solo.

Jean-Claude Izzo 
Aglio, menta e basilico
traduzione di Gaia Panfili
e/o 2012

sabato 6 gennaio 2018

per l’eternità di un pomeriggio

Nelle città straniere  


                                            A Zbigniew Herbert 


Nelle città straniere c’è una gioia sconosciuta, 
la fredda felicità di un nuovo sguardo. 
Gli intonaci gialli delle case, sui quali il sole 
si arrampica come un agile ragno, esistono 
ma non per me. Non per me furono costruiti 
il municipio, il porto, il tribunale, la prigione. 
Il mare scorre per la città con una marea 
salata e allaga le verande e le cantine. 
Al mercato i prismi delle mele, piramidi 
che svettano per l’eternità di un pomeriggio. 
E pure la sofferenza non è poi così 
mia: il matto locale farfuglia 
in una lingua straniera, e la disperazione 
di una ragazza sola in un caffè è come 
il frammento di una tela in un cupo museo. 
Le grandi bandiere degli alberi si agitano 
al vento così come nei luoghi 
a noi noti, e lo stesso piombo fu cucito 
negli orli di lenzuola, di sogni, 
dell’immaginazione folle e senza casa

Adam Zagajewski

Dalla vita degli oggetti
poesie 1983-2005 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

sabato 22 ottobre 2016

azzurro ceruleo, blu cobalto, azzurro oltremare, indaco

Testamento

Lascio ai miei amici
Un azzurro ceruleo per volare in alto
Un blu cobalto per la felicità
Un azzurro oltremare per stimolare lo spirito
Un vermiglio per fare circolare il sangue allegramente
Un verde muschio per calmare l’inquietudine
Un giallo oro: ricchezza
Un violetto di cobalto per la rêverie
Una lacca di garanza che fa udire il violoncello
Un giallo cadmio: fantascienza, brillio, splendore
Un giallo ocra per accettare la terra
Un verde Veronese per ricordo della primavera
Un indaco per accordare lo spirito al temporale
Un arancione per suscitare la vista di un albero di limoni in lontananza
Un giallo limone per la grazia
Un bianco puro: purezza
Terra di Siena naturale: tramutazione dell’oro
Un nero sontuoso per vedere Tiziano
Una terra d’ombra naturale per accettare meglio la nera malinconia
Una terra di Siena bruciata per il sentimento di durata

Maria Helena Vieira da Silva
traduzione di Antonio Tabucchi
grazie a Luca Rosati per la segnalazione

Estuaire bleu, 1974


Eu lego aos meus amigos
Um azul cerúleo para voar alto.
Um azul cobalto para a felicidade.
Um azul ultramarino para estimular o espírito.
Um vermelhão para o sangue circular alegremente.
Um verde musgo para apaziguar os nervos.
Um amarelo ouro: riqueza.
Um violeta cobalto para o sonho.
Um garança para deixar ouvir o violoncelo.
Um amarelo barife: ficção científica e brilho; resplendor.
Um ocre amarelo para aceitar a terra.
Um verde veronese para a memória da primavera.
Um anil para poder afinar o espírito com a tempestade.
Um laranja para exercitar a visão de um limoeiro ao longe.
Um amarelo limão para o encanto.
Um branco puro: pureza.
Terra de siena natural: a transmutação do ouro.
Um preto sumptuoso para ver Ticiano.
Um terra de sombra natural para aceitar melhor a melancolia negra.
Um terra de siena queimada para o sentimento de duração.

mercoledì 24 agosto 2016

Le cose che davano un senso alle sue giornate

Provò a mettere in fila le cose che davano un senso alle sue giornate. Gliene vennero in mente poche. Guardare un buon fiml, al cinema da solo, di pomeriggio. Leggere sulla poltrona di pelle dello studio, rannicchiato sotto una coperta. Ascoltare la musica, un po' di striscio, mentre era impegnato a guardare nulla. A volte cucinare. A volte accarezzare quel gatto selvatico. A volte pensare che avrebbe incontrato una donna di cui si sarebbe innamorato per sempre.

Francesco Carofiglio
Una specie di felicità
Piemme 2016

venerdì 1 luglio 2016

Dev'essere un dolore intollerabile sentir cessare la felicità

Preghiera al caso

«Possa tutto mutare e non mutarci;
che i nostri cambiamenti siano identici,
le nostre morti simultanee».

Dev'essere un dolore intollerabile
sentir cessare la felicità.

J. Rodolfo Wilcock
Poesie
Adelphi 1980

mercoledì 25 maggio 2016

Vorrei andare con te in un giorno di primavera dove vaga la poesia

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
Gli inviti superflui

martedì 24 maggio 2016

Io invece sono immaginaria, incredibilmente immaginaria

Accanto a un bicchiere di vino

Con uno sguardo mi ha resa più bella,
e io questa bellezza l’ho fatta mia.
Felice, ho ingoiato una stella.

Ho lasciato che mi immaginasse
a somiglianza del mio riflesso
nei suoi occhi. Io ballo, io ballo
in uno sciame di ali improvvise.

Il tavolo è tavolo, il vino è vino
nel bicchiere che è un bicchiere
e sta lì dritto sul tavolo.
Io invece sono immaginaria,
incredibilmente immaginaria,
immaginaria fino all'osso.

Gli parlo di tutto ciò che vuole:
delle formiche morenti d’amore
sotto la costellazione del soffione.
Gli giuro che una rosa bianca,
se viene spruzzata di vino, canta.

Mi metto a ridere, inclino il capo
con prudenza, come per controllare
un’invenzione. E ballo, ballo
nella pelle stupita, nell’abbraccio
che mi crea.

Eva dalla costola, Venere dall'onda,
Minerva dalla testa di Giove
erano più reali.

Quando lui non mi guarda,
cerco la mia immagine
sul muro. E vedo solo
un chiodo, senza più il quadro.


Wislawa Szymborska
Taccuino d'amore
a cura di Pietro Marchesani
Libri Scheiwiller 2002

mercoledì 30 marzo 2016

quegli istanti di felicità che si ritrovano nelle poesie

Ci sarebbero delle cose che abitano le parole
più volentieri, e che si accordano con loro
- quegli istanti di felicità che si ritrovano nelle poesie
con felicità, una luce che oltrepassa le parole
cancellandole quasi - e poi altre cose
che si impennano contro di loro, le sconvolgono, che le distruggono:

come se la parola gettasse indietro la morte,
o piuttosto, come se la morte putrefacesse
persino le parole?

Philippe Jaccottet
Alla luce d'inverno
Pensieri sotto le nuvole
traduzione di Fabio Pusterla
Marcos y Marcos 1997


Y aurait-il des choses qui habitent les mots 
plus volontiers, et qui s’accordent avec eux 
– ces moments de bonheur qu’on retrouve dans les poèmes 
avec bonheur, une lumière qui franchit les mots 
comme en les effaçant – et d’autres choses 
qui se cabrent contre eux, les altèrent, qui les détruisent : 

comme si la parole rejetait la mort, 
ou plutôt, que la mort fît pourrir 
même les mots ?  

L’Encre serait de l’ombre, notes, proses et poèmes (1946-2008)

giovedì 14 gennaio 2016

Un giorno così felice, dove vedevo il mare azzurro e vele

Dono

Un giorno così felice.
La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino.
I colibrì si posavano sui fiori del quadrifoglio.
Non c'era cosa sulla terra che desiderassi avere.
Non conoscevo nessuno che valesse la pena d'invidiare.
II male accadutomi, l'avevo dimenticato.
Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono.
Nessun dolore nel mio corpo.
Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e vele.
Berkeley, 1971

Czeslaw Milosz
Poesie 
a cura di Pietro Marchesani
Adelphi 1983

martedì 12 gennaio 2016

La felicità delle parole

Non c'è bisogno di aver vissuto le stesse sofferenze del poeta per cogliere la felicità delle sue parole - una felicità che vince anche la tragedia.

Gaston Bachelard

lunedì 14 dicembre 2015

Una lista della felicità

Elenco. Felicità

Cosa mi fa felice
     

  1.       Aggiornare questo elenco almeno una volta al mese. Cancellare cose poco), modificarle (a volte), aggiungerne (quando posso).
  2.       I dialoghi di Casablanca.
  3.       L’acqua del mare. Il mare.
  4.       Pippi Calzelunghe.
  5.       Die Winterreise di Schubert.
  6.       Le balene. Las ballenas jorobadas. Le balene con la gobba.
  7.       Le case sugli alberi.
  8.       La Sierra Nevada.
  9.       Luis.
  10.       I libri per bambini, quando sono belli (quasi tutti).
  11.       Il vino rosso, quando è buono.
  12.       Camminare in montagna, in salita. Il movimento. L’aria addosso.
  13.       Certe parole. Certi modi di dire. “Se la rempamplinflan”, per esempio.  Non gli danno importanza, sarebbe.
  14.       Il bosco quando il sole filtra poco.
  15.       Gli scarabocchi dei bambini sui fogli dei grandi, e anche sulle pareti.
  16.       Mia nonna.
  17.       Andare al cinema.
  18.       La compassione e il pudore. Insieme, meglio.
  19.       Vera, la mamma di David.
  20.       Sognare Alessia e Livia, sempre.
  21.       La voce di Luis, anche senza Luis.
  22.       Fare felice qualcuno.
  23.       Sorridere a uno sconosciuto per strada e vedere l’effetto che fa.
  24.       Scoprire una musica che non conoscevo, bella.
  25.       Dormire quando sono stanca. Dormire tutta la notte
  26.       Scrivere, leggere. Scrivere di quello che ho letto agli amici.
  27.       Gli amici. 
  28.       Un bacio all'improvviso, quando non lo vedi arrivare e un po’ fa anche         paura, all'inizio.
  29.       Ascoltare qualcuno che si indigna e ha ragione.
  30.       Correre in bici da corsa, volare.
  31.       Lavorare a un progetto insieme a qualcuno. Realizzare, insieme.
  32.       Louise Bourgeois con una scultura sottobraccio. Quella foto, quella scultura.

questa lista della felicità è di Irina Lucidi, una donna fuori dal comune, il libro che racconta la sua storia è di

Conchita De Gregorio
Mi sa che fuori è primavera
Feltrinelli 2015