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domenica 17 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/70: un mattino domenicale e le mele di Cézanne


Ecco è domenica mattina, se non ho contato male la dodicesima da che ho iniziato la clausura, ma la mente ancora non si è abituata al nuovo moto della vita ai tempi del Covid-19, quindi, come ogni domenica mattina che l’ha preceduta, scalpita tra due tensioni opposte che vogliono prevalere entrambe.

Il primo dettato della mente è “usciamo, usciamo subito, andiamo, camminiamo, osserviamo, respiriamo. Come puoi pretendere di scrivere qualcosa di nuovo se non lasci che il mondo ti raggiunga? Su, vai, esci, metti le scarpe, lascia a casa l’ombrello che tanto non piove, vedrai quanto è bello camminare per la città a quest’ora! Certo sarebbe meglio camminare in un bosco o in riva al mare a Mondello, o in Val Zebrù o sulle Dolomiti, ma basterebbe una passeggiata sui Navigli. Ma devi uscire, esci! Perché io (la mente scalpitante) devo uscire per poter scrivere”.

La mente scalpitante sa di mentire, sa che la risposta alla sua domanda “come pretendi di scrivere se non cammini?” è molto semplice: “scriverò a memoria”.

Questa prima tendenza della mente la chiamerò “la passeggiata del sognatore solitario” evocando Jean-Jacques Rousseau e le sue dieci passeggiate filosofiche, il suo ultimo scritto prima di morire. In italiano c’è una bella versione dello scrittore Beppe Sebaste che custodisco insieme a quasi tutti i suoi libri.

Ma non tutta la mente scalpita per uscire, c’è una parte di me, che in queste settimane si è fortificata, che considera la domenica mattina il momento della più profonda riflessione e solitudine.

Sono passate da molto, molto tempo, le domeniche mattina dove andare a Messa era un atto di ribellione, le mattine in cui si puliva casa e si cucinava il miglior sugo del mondo e un arrosto nel forno riempiva di aromi invitanti tutta l’aria intorno. Sono finiti i pranzi domenicali con i genitori, il fratello, poi via via fidanzati e fidanzate, e sempre i parenti, le nonne, gli zii e le zie, i cugini. Da bambina detestavo quelle occasioni tanto quanto amavo i pranzi del sabato, dove ci si trovava dopo la scuola e il lavoro del mattino, a mangiare piatti semplici, quasi sempre una bistecca fritta in un padellino d’alluminio con una grande insalata, a parlare e raccontarsi le cose che erano accadute in un’armonia, con un piacere che nessun altro pasto della settimana concedeva con quella stessa grazia.

Sono passate anche le domeniche delle fughe al lago, al mare o in montagna. Qualunque luogo pur di non stare in questa città assediata dal traffico e dal rumore. Le fughe appartengono alla tendenza “passeggiata del sognatore solitario”, mentre le soste nella quiete di un mondo che si riposava, soprattutto quando i negozi restavano chiusi e non esistevano i centri commerciali, questa dimensione, alimentata di sicuro da un temperamento solitario, appartiene alla tendenza “le mele di Cézanne”, proprio lui il pittore, che quando non aveva l’ispirazione per arrampicarsi a dipingere per la millesima volta la Sainte-Victoire, si chiudeva nel suo capanno, disponeva sul tavolo qualche mela e dipingeva quel che vedeva e anche quello che non aveva mai visto. Creare, scrivere, dipingere o scolpire, è sempre frutto di un’armonia particolare che oscilla tra la visione e il ricordo, non sempre serve avere modelli davanti a sé, basta averli nel proprio teatro interiore.

Una poesia di Charles Tomlinson si fa strada tra le mie parole:

Cézanne a Aix

E la montagna: immobile,
Ogni giorno, come frutta. E diversa, anche,
- Perché irriducibile, perché
Non partecipe del delizioso,
E quindi discutibile,
Né distratta (come chi posa)
Dalla propria posa, e quindi
Due volte discutibile: non è
In posa. È. Spontanea
Inalterabile, una testa di ponte di pietra
A ciò che tangibile
Perché prima d’ora inavvertito. Lì,
Nella gravità sgretolata
Il suo silenzio silenzia, una presenza
Che non si presenta.



L’introduzione del teatro interiore come spazio della creazione placa la mente divisa e oscillante, sprofonda in questo silenzio, e mi concede proprio quella pace silenziosa che apre in me una vastità di universi ancora sconosciuti. Da questi universi, che conosciamo non perché li abbiamo visti, ma perché i loro effetti in questo mondo che chiamiamo realtà, sono esperiti e ben visibili. “Una presenza che non si presenta” mi evoca lo studioso Emile Roux che scriveva di virus e batteri come degli “êtres de raison, esseri di ragione o esseri teoretici, organismi la cui esistenza può essere desunta dai loro effetti nonostante non siano mai stati rilevati direttamente”.

Da questi universi ignoti arrivano messaggi per gli innamorati, una storia non ancora iniziata è preceduta dal suo racconto e da una benedizione, perché il tempo è circolare e gli amanti che si cercano millennio dopo millennio, finiranno sempre col trovarsi in questa o in un’altra dimensione e il loro incontro annuncerà l’alba con versi amorosi e il loro abbraccio sarà come quello del fiume che ha finalmente raggiunto l’oceano.

Anche il giorno si apre come una vasta acqua silenziosa, gli amanti dormono abbracciati, forse il segreto della domenica mattina è proprio questo sonno che è un’altra dimensione dell’esistenza. Niente Rousseau e niente Cézanne, forse domenica prossima, ma oggi abbiamo dormito a lungo, abbracciati come i lupi nella loro tana.

Il cantore del mattino domenicale per eccellenza resta Wallace Stevens, mi congedo molto presto oggi, all'inizio del pomeriggio, con una traduzione che ho rimaneggiato perché quella nel volume non mi soddisfaceva del tutto.


Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda
Caffè e arance su una sedia al sole,
la verde libertà di un pappagallo,
Su un tappeto si fondono a disperdere
Silenzi di un arcaico sacrificio.
Lei sogna un po’ e sente l’oscurità
dell’antica catastrofe, come una calma
Che si oscura tra le luci dell'acqua.
Le arance aspre e le luminose ali verdi
Sembrano cose in un corteo funebre,
che avvolge con le vaste acque, senza suono.
Il giorno è quella vasta acqua, senza suono,
Quieto al passaggio dei suoi passi sognanti
Oltre i mari, verso la silenziosa Palestina,
Regno del sangue e sepolcro.


Abbiamo rubato le arance al sole e il silenzio all’acqua. Al risveglio dovremo incamminarci verso una terra sacra che non ha dimora in questa dimensione. Mute preghiere si levano verso il cielo, abbiamo tutti paura e l’unica risposta alle nostre implorazioni è l’amore che possiamo donarci quaggiù.


Sunday Morning è nel volume Mattino domenicale e altre poesie a cura di Renato Poggioli; Einaudi 1988

Complacencies of the peignoir, and late
Coffee and oranges in a sunny chair,
And the green freedom of a cockatoo
Upon a rug mingle to dissipate
The holy hush of ancient sacrifice.
She dreams a little, and she feels the dark
Encroachment of that old catastrophe,
As a calm darkens among water-lights.
The pungent oranges and bright, green wings
Seem things in some procession of the dead,
Winding across wide water, without sound.
The day is like wide water, without sound,
Stilled for the passing of her dreaming feet
Over the seas, to silent Palestine,
Dominion of the blood and sepulchre.


Cézanne at Aix di Charles Tomlinson è nel volume Nella pienezza del tempo; a cura di Silvano Sabbadini, Garzanti 1987

And the mountain: each day
Immobile like fruit. Unlike, also
- Because irreducible, because
Neither a component of the delicious
And therefore questionable,
Nor distracted (as the sitter)
By his own pose and, therefore,
Doubly to be questioned: it is not
Posed. It is. Untaught
Unalterable, a stone bridgehead
To that which is tangible
Because unfelt before. There
In its weathered weight
Its silence silences, a presence
Which does not present itself.

La citazione di Emile Roux è tratta dal libro della giornalista scientifica Laura Spinney 1918. L’influenza spagnola; traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, Marsilio e Feltrinelli editori 2019





martedì 12 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/65: Invisibile ma chiaro, il solo amore


Chiedete a una donna di raccontarvi una storia d’amore e vi parlerà di fughe, cadute e redenzioni.

Chiedete a un uomo di parlarvi di una storia d’amore e vi parlerà di inseguimenti, fame e conquista.

Non sono luoghi comuni, o forse lo sono, ma affondano le radici in una storia condivisa dove le parti sembrano più occupate a recitare ruoli consolidati, noti e stanchi che avventurarsi nell’oceano sconosciuto di un amore nuovo.

Ne parlo con i lupi e il loro amore non ha bisogno di essere detto, le pellicce sono intessute di fiori e profumi, gli occhi scintillano e a ogni passo uno dei due intreccia una zampa con la zampa dell’altro, tocca il muso con il suo muso e si stringe al fianco perché due lupi innamorati sono una forza che nessun inverno può scalfire, solo la primavera sa attirarli fuori dalla loro tana e spingerli a giocare nella brughiera.

I lupi sono animali felici.

Il poeta è sempre seduto al tavolino, scrive, cancella, corregge e poi ricomincia da capo.
Scegliere l’amore come soggetto di una poesia è sin troppo facile – mi dice –, preferisco scavare nell’ombra ignota e cercare dove si è nascosta la musa che io amo. Niente è più pericoloso di una musa recalcitrante – mi dice –, meglio cercare una collaborazione e continuare a scrivere e cancellare, sino a quando non mi verrà la nausea per le mie stesse parole e allora, solo allora, quando sentirò che la matita è esausta, che il foglio non sopporterebbe un’ultima cancellatura, allora saprò che la poesia è finita e potrò lasciarla andare come una foglia nel vento. Della sua musa non mi dice il nome, dice invece che ormai dovrei saperlo e dovrei averlo imparato a memoria insieme all’ultima aubade che le ha dedicato. O almeno leggi – mi dice – il maestro indiscusso di tutte le aubade mai scritte:


Il sorgere del sole

Vecchio stolto faccendiere, sole dissennato,
perché così,
attraverso vetri e tende vieni a visitarci?
Le stagioni degli amanti devono volgere
ai tuoi movimenti?
Sfacciato dannatissimo pedante, va a strapazzare
gli scolari in ritardo, i garzoni inveleniti,
va a dire ai cacciatori: il Re vuole cavalcare,
chiama le formiche dei campi alle fatiche del raccolto,
immutabile l'amore non conosce climi e stagioni,
non giorni, mesi, e ore, del tempo solo i brandelli.

Perché pensi che i tuoi raggi
siano tanto potenti e venerandi?
Con un battito di ciglia potrei eclissarli,
obnubilarli, se non che non vorrei
non vedere lei tanto a lungo.
Se i suoi occhi non hanno accecato i tuoi,
guarda, e domani quando è tardi dimmi
se le Indie delle spezie e delle miniere
sono dove le lasciasti, o sono qui da me.
Chiedi dei Re che hai visto ieri,
ti sarà detto, che giacciono tutti qui in un letto.

Lei è tutti gli stati, io sono tutti i principi,
nient'altro esiste.
A paragone i principi non recitano che la nostra parte,
ogni onore è mimica, ogni ricchezza è alchimia.
Tu sei felice, oh sole, molto meno di noi,
in cui il mondo si è così contratto;
la tua età richiede agi, il tuo compito
è di scaldare il mondo - scaldaci, ed è fatto.
Splendi su noi e sarai dovunque,
questo letto è il tuo centro, queste pareti la tua sfera.


Il re è malinconico, sospira a sentire questa aubade perché la sua regina non è ancora arrivata. Si alza dal sofà, dove ormai vive, e va a buttare nel camino gli ultimi fogli che ha scritto. Non posso presentarle quest’ultima poesia – mi dice –, degno o non degno del suo amore io devo scintillare sulla tolda della mia nave e anche grazie alle mie parole di poesia e amore so che la regina mi riconoscerà.

La sacerdotessa è sempre la più tranquilla, lascia che la tempesta le scivoli accanto e, di nascosto, forse, scrive ancor di più del poeta e del re.
Tutti con una penna in mano in questa casa e quaderni intonsi, matite ben temperate.

So cosa stai pensando – mi dice –, la maggior parte delle persone è impegnata a vivere non certo a scrivere come si fa qui nella casa affollata. A proposito, smetti di chiamarla la casa affollata, questa dimora è degna di un nome che la contraddistingua e io ti propongo la Casa delle Parole.
Annuisco senza proferire parola, la sacerdotessa sa molto più di quanto non mi abbia raccontato e io le sono grata per la sua discreta presenza, per le preghiere e i canti che mi sta insegnando, per lo sguardo vuoto che sa riempirsi di futuro.
Le persone vivono l’amore, qualcuno lo racconta, qualcuno lo canta. È a noi assediati dai versi che i nostri simili chiedono le parole d’amore per cantare l’essere amato, la sua assenza o la lontananza. È una grande responsabilità – mi dice –, non possiamo accontentarci di parole comuni, certo le possiamo usare, ma le dobbiamo riporre nel nido della forma e soffiare quell’alito di vento che dia loro il giusto ritmo. Sei d’accordo con me – mi dice –, o frequenti altre impostazioni poetiche che non hanno seguito nel mondo delle sillabe?

La lascio a vaticinare il volo delle rondini e delle nuvole, il guerriero, o mago o viandante che aspetta prima o poi arriverà, come la regina.

Resto solo io, io da sola, la narratrice e scrivo contro il tempo, combatto l’oblio e trasformo questi istanti in parole che torneranno in vita a ogni vostra lettura. Non ho scelto di appartenere a questa schiera di insoliti scrivani, è capitato e io ho accettato la chiamata.

Per questo posso vagare nella città silenziosa allo stesso tempo che nella Casa delle Parole, e non sentire il distacco, non avere rimpianti, non cullare le disillusioni e scoprire ogni giorno nella poesia che la vita è tenace, che l’amore lo è ancora di più e sa aspettare, tessere e disfare. La poesia vive anche senza le parole dolenti e dolci degli innamorati, la città si popola anche senza desideri, la notte scende e noi viviamo in attesa di una nuova aubade, come il poeta che sa trasformare il tempo lineare e vuoto in un gorgo d’amore che illumina il giorno nuovo. La donna resta il solo mistero e il poeta se ne ammanta e si lascia bruciare.

La donna al sole

È solo che questo calore e movimento sono come
Il calore e il movimento di una donna.

Non è che ci sia un’immagine nell’aria
Né l’inizio o la fine di una forma:

C’è il vuoto. Ma una donna d’oro compatto
Ci brucia col tocco della veste.

E un’abbondanza dissociata d’essere,
Più definita per ciò che è lei -

Perché lei è disincarnata,
E porta l’odore dei campi estivi,

E confessa il taciturno e insieme indifferente,
Invisibile ma chiaro, il solo amore.


The sun rise by John Donne

Busy old fool, unruly sun,

               Why dost thou thus,
Through windows, and through curtains call on us?
Must to thy motions lovers' seasons run?
               Saucy pedantic wretch, go chide
               Late school boys and sour prentices,
         Go tell court huntsmen that the king will ride,
         Call country ants to harvest offices,
Love, all alike, no season knows nor clime,
Nor hours, days, months, which are the rags of time.

               Thy beams, so reverend and strong

               Why shouldst thou think?
I could eclipse and cloud them with a wink,
But that I would not lose her sight so long;
               If her eyes have not blinded thine,
               Look, and tomorrow late, tell me,
         Whether both th' Indias of spice and mine
         Be where thou leftst them, or lie here with me.
Ask for those kings whom thou saw'st yesterday,
And thou shalt hear, All here in one bed lay.

               She's all states, and all princes, I,

               Nothing else is.
Princes do but play us; compared to this,
All honor's mimic, all wealth alchemy.
               Thou, sun, art half as happy as we,
               In that the world's contracted thus.
         Thine age asks ease, and since thy duties be
         To warm the world, that's done in warming us.
Shine here to us, and thou art everywhere;
This bed thy center is, these walls, thy sphere.
“The Woman in Sunshine” by Wallace Stevens

It is only that this warmth and movement are like

The warmth and movement of a woman.

It is not that there is any image in the air

Nor the beginning nor end of a form:

It is empty. But a woman in threadless gold

Burns us with brushings of her dress

And a dissociated abundance of being,

More definite for what she is—

Because she is disembodied,

Bearing the odors of the summer fields,

Confessing the taciturn and yet indifferent,

Invisibly clear, the only love.


The Woman in Sunshine by Wallace Stevens è tradotta da Nadia Fusini per il volume Aurore d’autunno. Adelphi 2014


It is only that this warmth and movement are like

The warmth and movement of a woman.

It is not that there is any image in the air

Nor the beginning nor end of a form:

It is empty. But a woman in threadless gold

Burns us with brushings of her dress

And a dissociated abundance of being,

More definite for what she is—

Because she is disembodied,

Bearing the odors of the summer fields,

Confessing the taciturn and yet indifferent,

Invisibly clear, the only love.





mercoledì 2 gennaio 2019

Bisogna avere una mente d'inverno

Il pupazzo di neve
Bisogna avere una mente di inverno
Per ammirare il gelo e i rami
Dei pini incrostati di neve;
E aver avuto freddo a lungo
Per osservare i ginepri arruffati di ghiaccio,
Gli abeti ispidi al luccichio distante
Del sole in gennaio; e non trovare
Sofferente il suono del vento,
Il suono di poche foglie,
Che è il suono della terra
Piena dello stesso vento
Che sta soffiando sullo stesso posto spoglio
Per chi ascolta, chi ascolta nella neve,
E, lui stesso niente, non osserva
Niente che non ci sia e osserva il niente che c’è.
Wallace Stevens
traduzione inedita di Daniele Zinni pubblicata il 4 dicembre 2013 su Nuovi Argomenti

domenica 30 novembre 2014

Alla fine esausta di novembre

Parafrasi Lunare


La luna è madre di pietà e di pathos.

Quando alla fine esausta di novembre
La sua antica luce si muove lungo i rami,
Flebile, lenta, e si sostiene ad essi;
Quando il corpo di Cristo, umanamente
Vicino, pende appeso nel pallore e toccata
Dalla brina, la figura di Maria si ritira
In un riparo di foglie cadute e marcite;
Quando un’illusione dorata riconduce
Sulle case una lontana stagione di calma
E sogni confortanti a chi dorme nel buio –

La luna è madre di pietà e di pathos.


Wallace Stevens

da Collected Poetry & Prose, 89-90
traduzione di Francesco Dalessandro
Library of America 1997

dal blog Poesie senza pari



mercoledì 13 agosto 2014

In una segretezza di parole

II
Lettera a
Lei voleva una vacanza
Con qualcuno che parlasse la sua dolce lingua nativa,
Nelle ombre di un bosco…
Ombre, boschi…e loro due in conversazione,
In una segretezza di parole
Apertasi entro una segretezza di luogo,
Non concernente l’amore.
Una terra l’avrebbe presa fra le braccia quel giorno
O qualcosa di molto simile a una terra.
Il cerchio non sarebbe più stato rotto ma chiuso.
Le miglia di distanza lontano
Da tutto sarebbero finite. Tutto si sarebbe incontrato.
Wallace Stevens
Il mondo come meditazione
a cura di Massimo Bacigalupo
Guanda 1998

martedì 29 luglio 2014

In cima a ogni nuvola per tutti i cieli

Due lettere
I
Lettera da
Anche se vi fosse stata una luna crescente
In cima a ogni nuvola per tutti i cieli,
Che inondasse la sera di luce cristallina,
Si sarebbe desiderato dell’altro, altro, altro:
Qualche interno fedele a cui ritornare,
Una casa contro il proprio io, un’oscurità,
Un agio in cui vivere la vita di un momento,
Il momento di amore e fortuna di una vita,
Libero da tutto il resto, libero soprattutto dal pensiero.
Sarebbe stato come accendere una candela,
Come appoggiarsi a un tavolo, proteggendosi gli occhi
E ascoltando un racconto che si desiderava intensamente ascoltare,
Come se fossimo tutti seduti di nuovo insieme
E uno di noi parlasse e tutti credessimo
A quel che ascoltassimo e la luce, pur poca, bastasse.
Wallace Stevens
Il mondo come meditazione
a cura di Massimo Bacigalupo
Guanda 1998

domenica 19 gennaio 2014

La luce nella stanza quasi un’ aria nevosa

Le poesie del nostro clima

I.
Acqua trasparente in un vaso brillante,
garofani rosa e bianchi. La luce
nella stanza quasi un’ aria nevosa,
riflette neve. Una neve appena caduta
a fine inverno quando tornano i pomeriggi.
Garofani rosa e bianchi… si desidera
tanto, tanto di più. Il giorno stesso
si semplifica: un vaso di bianco,
freddo, una porcellana fredda, bassa e tonda,
con nient’altro che i garofani dentro.

II.
Mettiamo che questa semplicità completa
ci spogliasse di ogni nostro tormento, celasse
l’io vitale, malvagiamente assommato,
e lo facesse fresco in un mondo di bianco,
un mondo di acqua trasparente, dai bordi brillanti:
pure si vorrebbe, si avrebbe bisogno di più,
più di un mondo di bianco e profumi di neve.

III.
Resterebbe pur sempre la mente inappagata,
cosi che si vorrebbe fuggire, tornare
a quello che era stato tanto a lungo composto.
L’imperfetto è il nostro paradiso.
Notare che in questa amarezza la gioia,
poiché l’imperfetto ci brucia tanto dentro,
sta in parole rotte e suoni ostinati.


Wallace Stevens
da Parti di un mondo
Harmonium
Poesie 1915-1955
traduzione e cura di Massimo Bacigalupo
Einaudi 1994


The Poems of Our Climate

I.
Clear water in a brilliant bowl,
Pink and white carnations. The light
In the room more like a snowy air,
Reflecting snow. A newly-fallen snow
At the end of winter when afternoons return,
Pink and white carnations – one desires
So much more than that. The day itself
Is simplified: a bowl of white,
Cold, a cold porcelain, low and round,
With nothing more than the carnations there.

II.
Say even that this complete simplicity
Stripped one of all one’s torments, concealed
The evilly compounded, vital I
And made it fresh in a world of white,
A world of clear water, brilliant-edged,
Still one would want more, one would need more,
More than a world of white and snowy scents.

III.
There would still remain the never~resting mind,
So that one would want to escape, come back
To what had been so long composed.
The imperfect is our paradise.
Note that, in this bitterness, delight,
Since the imperfect is so hot in us,
Lies in flawed words and stubborn sounds.


sabato 18 gennaio 2014

E la nuvola, l’albero usato e l’usata nuvola

Finché la terra usata e il cielo, e l’albero
E la nuvola, l’albero usato e l’usata nuvola,
Perdono i vecchi usi che si facevano di loro,
Ed essi: questi uomini, e la terra e il cielo,
Si comunicano l’un l’altro comunicazioni precise,
Precise, libere conoscenze, secrete fin’allora,
Rotture di ciò che li teneva stretti. E come
Se la poesia centrale diventasse il mondo

Wallace Stevens
Aurore d’autunno
cura, prefazione e traduzione di Nadia Fusini
Garzanti 1992

Until the used-to earth and sky, and the tree
And cloud, the used-to tree and used-to cloud,
Lose the old uses that they made of them,
And they: these men, and earth and sky, inform
Each other by sharp informations, sharp,
Free knowledges, secreted until then,
Breaches of that which held them fast. It is

As if the central poem became the world

venerdì 17 gennaio 2014

La mente è la grande poesia dell’inverno

Uomo e bottiglia
La mente è la grande poesia dell’inverno, l’uomo,
che per trovare quanto possa bastare
distrugge dimore romantiche
di rosa e ghiaccio
nella terra della guerra. Più che l’uomo, è
un uomo con la furia d’una razza d’uomini,
una luce al centro di molte luci,
un uomo al centro di uomini.
Deve soddisfare la ragione sull’essenza della guerra,
deve persuadere che la guerra è parte di se stessa,
una maniera di pensare, un modo di
distruggere, come la mente distrugge,
un distogliere, come una delusione antica volge
le spalle al mondo, una vecchia tresca con il sole,
un’aberrazione impossibile con la luna,
una volgarità di pace.
Non è la neve che è pagina, penna.
La poesia sferza più feroce del vento,
mentre la mente, per trovare quanto possa bastare,
distrugge dimore romantiche di rosa e ghiaccio.

Wallace Stevens
traduzione di Damiano Abeni

Man and Bottle
The mind is the great poem of winter, the man,
Who, to find what will suffice,
Destroys romantic tenements
Of rose and ice
In the land of war. More than the man, it is
A man with the fury of a race of men,
A light at the centre of many lights,
A man at the centre of men.
It has to content the reason concerning war,
It has to persuade that war is part of itself,
A manner of thinking, a mode
Of destroying, as the mind destroys,
An aversion, as the world is averted
From an old delusion, an old affair with the sun,
An impossible aberration with the moon,
A grossness of peace.
It is not the snow that is the quill, the page.
The poem lashes more fiercely than the wind,
As the mind, to find what will suffice, destroys
Romantic tenements of rose and ice.