Gli occhi degli alberi sono invisibili ai nostri occhi. Sono occhi assai mobili, dimorano sulle punte dei rami e nelle foglie, nella corteccia e nei germogli, nei fiori poi. Ma non nei frutti, perché l’albero sa che il frutto è destinato al raccolto e non dovrà guardare il tragitto tra il ramo e la nostra bocca vorace. Anche il mio acero bellissimo si è riempito di germogli e in queste ultime ore di sole, così dicono le previsioni meteo, mi fermo ad ascoltare lo scorrere quieto della linfa e lascio che il calore finissimo di questo inizio di primavera mi riscaldi il viso e le mani, le uniche parti del corpo che non sono protette da strati e strati stoffa. Senza il supporto della vista mi esercito a sentire il mondo solo con l’ausilio di udito e tatto. Soprattutto l’udito mi aiuta, perché pian piano inizia a separare un rumore dall’altro, come se il suono del mondo fosse una fine tessitura che possiamo disfare e rifare ogni volta che vogliamo.
La
primavera sta nel coro delle voci
Il primo filo è il canto
di un passero. Il secondo
filo è l’usignolo, non so
quando ho imparato a
distinguerli, ma ora
so che sono due e non
uno soltanto. Riconosco
poi il vento che scuote
prima l’acero e poi
l’enorme ippocastano
che sta sull’angolo della
via, sono diversi i rami,
saranno diverse le foglie
e anche i frutti. Riconosco
il suono della campanella
e poi le voci dei bambini
che sciamano fuori dalla
scuola. Sono allegri come
api questi dirimpettai vivaci
e allegri. La voce di questa
primavera ancora fredda sta
tutta nel coro delle loro voci.
Bisognerà che ogni giorno io mi ricordi di
chiudere gli occhi per qualche istante e ogni giorno reimpari ad ascoltare il
mondo, a farmi frutto. Questa è la Cronaca 752 di mercoledì 30 marzo del terzo
anno senza Carnevale e del primo anno di guerra. Anche oggi il titolo è un verso di René Char.
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