Se mi fermo e ascolto il canto della città, quale sarà la prima voce che riconoscerò? I passi dei vecchi, lenti e un po’ trascinati, i passi di corsa dei bambini, ma perché i bambini corrono sempre? Passeggio per la città con la mia rete a strascico, non so mai che suoni e che immagini resteranno impigliati, so che non tutti verranno con me, sino a casa. Il rumore del traffico è proprio uno di quei suoni che lascio andare, soprattutto nei giorni in cui è la sirena delle ambulanze a fenderlo e a renderlo ancora più angosciante. Miriadi di voci restano impigliate sotto i rami dell’albero bellissimo che poi me le offrono quando mi affaccio il mattino presto o nel cuore del buio, quando sono ferma sulla soglia tra il sogno e la realtà. Raccolgo sempre con cura il rumore delle ultime foglie che danzano col vento prima di lasciarsi andare, ho imparato a riconoscere ogni albero del quartiere proprio a partire dalle sue foglie e mi piace vedere che crescono ancora questi alberi, che ancora non stanno invecchiando. O se invecchiano non lo fanno seguendo le leggi umane ma quelle celesti che li uniscono alle stelle e quelle terrestri che li uniscono in un’unica società sotterranea cui noi non abbiamo accesso. Sono molte, a dire il vero, le società che a noi umani sono precluse. Di notte sono i tetti a riunirsi, a confabulare e a decidere come filtrare la luce e la pioggia. I gatti vorrebbero tornare a passeggiare sulle tegole, ma in questa città ci sono più tegole che gatti e nessuno li lascia circolare in libertà. Eppure un tempo tutto il quartiere era abitato da gatti e uccellini, da centinaia di piccioni. È stato negli inverni dei primi anni Duemila che sono scomparsi tutti, inverni freddissimi e nevosi, almeno nei miei ricordi, nel mio tentativo di spiegare l’assenza di canti e miagolii nelle strade.
Scrivere nell’aria dopo l’ultima parola
Impariamo
a riconoscere
ogni voce
non per il suo
timbro,
ma per la sua
assenza.
È una sagoma
di
silenzio che intaglia
l’aria a
suggerire quanto
fosse
intensa o morbida
quella
voce che abbiamo
notato perché
non fa
più
parte dell’anfiteatro
dei
nostri sentimenti.
Vorrei che
almeno i sogni
portassero
indietro quelle
sillabe
amate, ma posso
solo
sperare e aspettare
che
almeno qui, nel teatro
già
vuoto, almeno qui,
potrò rivedere
il tuo sguardo,
il tuo
volto così amato, così
tanto
smarrito che mi ritrovo
a tracciarne
i confini con
la punta
delle dita nell’aria
immota e
scrivo, qui scrivo
come
faceva Tolstoj agonizzante,
sul letto
di morte.
Scrivere,
scrivere sempre, anche senza carta, anche senza penna e senza matita. Scrivere nell’aria
e nella sabbia. Presto la mia mano agli invisibili, agli assenti e a questa
Cronaca 672 di domenica 9 gennaio del terzo anno senza Carnevale.
1 commento:
Bien triste, la chronique 672 à l'aube de l'an 2022 ! Pourquoi ce pessimisme ? Est-ce parce que la Covid assaille la planète ? LES BEAUX JOURS REFLEURIRONT ... De qui est le poème ? J'écrivais il y a deux jours après la chronique où l'auteur évoquais si poétiquement les ombres, que seule une âme solaire peut aussi bien et si profondément en parler ! J'ai envoyé mon commentaire et il a disparu. J'avais respecté la procédure d'envoi, je le crois en tout cas. Mais l'époque est à la confusion ! mb
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