domenica 9 gennaio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/672. Trattato sulle voci della città e dell’attesa notturna del silenzio

 



Se mi fermo e ascolto il canto della città, quale sarà la prima voce che riconoscerò? I passi dei vecchi, lenti e un po’ trascinati, i passi di corsa dei bambini, ma perché i bambini corrono sempre? Passeggio per la città con la mia rete a strascico, non so mai che suoni e che immagini resteranno impigliati, so che non tutti verranno con me, sino a casa. Il rumore del traffico è proprio uno di quei suoni che lascio andare, soprattutto nei giorni in cui è la sirena delle ambulanze a fenderlo e a renderlo ancora più angosciante. Miriadi di voci restano impigliate sotto i rami dell’albero bellissimo che poi me le offrono quando mi affaccio il mattino presto o nel cuore del buio, quando sono ferma sulla soglia tra il sogno e la realtà. Raccolgo sempre con cura il rumore delle ultime foglie che danzano col vento prima di lasciarsi andare, ho imparato a riconoscere ogni albero del quartiere proprio a partire dalle sue foglie e mi piace vedere che crescono ancora questi alberi, che ancora non stanno invecchiando. O se invecchiano non lo fanno seguendo le leggi umane ma quelle celesti che li uniscono alle stelle e quelle terrestri che li uniscono in un’unica società sotterranea cui noi non abbiamo accesso. Sono molte, a dire il vero, le società che a noi umani sono precluse. Di notte sono i tetti a riunirsi, a confabulare e a decidere come filtrare la luce e la pioggia. I gatti vorrebbero tornare a passeggiare sulle tegole, ma in questa città ci sono più tegole che gatti e nessuno li lascia circolare in libertà. Eppure un tempo tutto il quartiere era abitato da gatti e uccellini, da centinaia di piccioni. È stato negli inverni dei primi anni Duemila che sono scomparsi tutti, inverni freddissimi e nevosi, almeno nei miei ricordi, nel mio tentativo di spiegare l’assenza di canti e miagolii nelle strade.

  

Scrivere nell’aria dopo l’ultima parola

 

Impariamo a riconoscere

ogni voce non per il suo

timbro, ma per la sua

assenza. È una sagoma

di silenzio che intaglia

l’aria a suggerire quanto

fosse intensa o morbida

quella voce che abbiamo

notato perché non fa

più parte dell’anfiteatro

dei nostri sentimenti.

Vorrei che almeno i sogni

portassero indietro quelle

sillabe amate, ma posso

solo sperare e aspettare

che almeno qui, nel teatro

già vuoto, almeno qui,

potrò rivedere il tuo sguardo,

il tuo volto così amato, così

tanto smarrito che mi ritrovo

a tracciarne i confini con

la punta delle dita nell’aria

immota e scrivo, qui scrivo

come faceva Tolstoj agonizzante,

sul letto di morte.

 

 

Scrivere, scrivere sempre, anche senza carta, anche senza penna e senza matita. Scrivere nell’aria e nella sabbia. Presto la mia mano agli invisibili, agli assenti e a questa Cronaca 672 di domenica 9 gennaio del terzo anno senza Carnevale.

1 commento:

Michel BARBOT ha detto...

Bien triste, la chronique 672 à l'aube de l'an 2022 ! Pourquoi ce pessimisme ? Est-ce parce que la Covid assaille la planète ? LES BEAUX JOURS REFLEURIRONT ... De qui est le poème ? J'écrivais il y a deux jours après la chronique où l'auteur évoquais si poétiquement les ombres, que seule une âme solaire peut aussi bien et si profondément en parler ! J'ai envoyé mon commentaire et il a disparu. J'avais respecté la procédure d'envoi, je le crois en tout cas. Mais l'époque est à la confusion ! mb