Ci sono giorni verticali, dove la vita si slancia verso il mondo e verso
le nuove esperienze, conversazioni, epifanie. Di giorni verticali è colma
soprattutto la gioventù; quando mi siedo nella falsa prospettiva del futuro che
non è ancora arrivato, ecco che vedo davanti a me la Sagrada Família di Gaudí
con le sue ardite guglie, le stratificazioni e le facciate. Non c’è niente di
lineare in quest’opera e le nostre vite sono, in fin dei conti, opera di un
architetto un po’ folle, un po’ visionario, a volte crudele. E il quadro che
associo a questa verticalità dei giorni è il Ramo di mandorlo di Van Gogh, per il suo cielo e le figure assenti.
I giorni orizzontali, invece, sono quelli dei ritorni, dei ripensamenti, dei quadri antichi cancellati con una nuova opera dipinta sopra che, solo a un esame attento, svelano la propria genesi. I giorni orizzontali hanno forma di un nido, non sono quello che sembrano e favoriscono la contemplazione. Se penso a una cattedrale da associare a questa immaginazione, trovo che il Duomo di Milano sia perfetto. Perché è vasto, maestoso e mai finito, come sappiamo dai lavori della Veneranda Fabbrica che è in funzione sin dal 1387. Il quadro dei giorni orizzontali è la Cena in Emmaus di Caravaggio per la luce e l’intimità che viene confermata quando il viandante svela la propria identità grazie a un semplice gesto.
Così nella nostra vita i giorni orizzontali sono la trama e quelli verticali l’ordito e il tessuto che andiamo tessendo è più frutto del caso che delle intenzioni o della necessità.
Non sempre ci è concesso di dare un senso a quanto abbiamo vissuto, per questo scrivere è l’atto intenzionale allo stesso tempo più rivoluzionario e più conservatore.
Rivoluzionario perché vuole opporsi al vano trascorrere del tempo e sovvertirne l’ordine, conservatore perché vuole salvare le cose proprio come sono accadute o come avremmo voluto che accadessero e, a volte, ci riesce.
La scrittura diventa quindi un ago che agisce sulle pezze di tela per congiungerle. Il progetto di un libro è come il sarto che taglia le stoffe sui cartamodelli che ha disegnato. Poi si passano le marche per rendere solido il manufatto; poi si imbastisce e i luoghi, i personaggi, le conversazioni prendono vita.
A volte l’ago cuce da solo, a chi scrive non resta che seguire il movimento della mano, arrendersi a parole che arrivano da un altrove sconosciuto anche se è la centesima poesia sulla pioggia e il vento che stiamo scrivendo.
Così mi arrendo ai giorni che tramano con me e contro di me, sfoglio a caso i libri di Yourcenar e Duras, mi preparo al grande incontro che è stato rimandato di almeno un giorno.
Le sacerdotesse raccontano che a Colorno la vita procede tranquilla, che Borges e Yourcenar parlano per ore e ore e che lei ha sostituito le novizie che trascrivevano i suoi racconti. Vanno e vengono dalla Biblioteca di Babele e si mostrano al prossimo non più nella loro estrema vecchiezza, ma nel pieno della maturità, tra i cinquanta e i sessanta anni. Scegliere il proprio aspetto e l’età in cui più ci si sente a proprio agio, sono uno dei privilegi della vita tra quelle mura. L’unica cosa cui Borges non ha rinunciato, almeno per ora, è la sua cecità. Dice che le immagini del suo teatro interiore non sono mai state così nitide e chiare come da quando ha smesso di guardare il mondo.
Guardare il mondo e poi scriverne, ricordare il mondo e poi scriverne, immaginare il mondo e poi scriverne.
Yann Andrea, il suo ultimo amore, chiese un giorno a Duras a cosa servisse scrivere, lei gli rispose con poche parole: “È tacere e parlare al contempo. Scrivere. È anche cantare, a volte”.
Quando il
sole si veste d’autunno
Così cerco tracce del suo canto e
mi fermo ad ascoltare le voci
che sussurrano tra i rami. Ripetono
storie già ascoltate, dicono storie
inaudite e io resto presa in mezzo
a queste voci e non cerco una via
di fuga. Il giorno è così strano e
inquieto, metà pioggia e metà
vento, il sole che si veste d’autunno
e nessun passante davanti alla tua
casa. Solo la mia ombra verrà
stanotte a portarti l’ultima rosa
del mio giardino. Tu starai dormendo
e il sogno ti impedirà di svegliarti,
perché dovrai continuare a prenderti
cura di tutte, di tutte le altre rose.
La bizzarria di questa Cronaca 175, scritta l’ultima
domenica di agosto, il suo trentesimo giorno, dell’anno senza Carnevale,
proviene dal tempo umbratile, dal vento, dalla lettura di Duras, dalle reminescenze
di cattedrali e dipinti che si sono affacciate sul mio quaderno, dal gusto
dolceamaro dell’ultimo giorno di vacanza.
La citazione di Marguerite Duras è tratta da C'est tout, traduzione di Donata Feroldi,
Oscar Mondadori 1996.
La poesia è un mio inedito, frutto di questo clima e
di questo tempo.
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