La voce si è sparsa, altri stanno arrivando, sappiamo che sono già in viaggio, ci mandano un messaggio in forma di poesia.
Il poeta è più un nomade o un viaggiatore? Jean-Claude Izzo diceva di essere figlio dell’erranza e forse è vero che tutti i poeti lo sono anche se si muovono poco dal loro tavolo, dalla stessa stanza giorno dopo giorno uguale a se stessa. E l’unico paesaggio è un pioppo o un tiglio, un piccolo giardino e una gatta che dorme al sole.
Ecco la prima poesia, un frammento di mondo che brilla per un istante.
Il viandante
Entro in sala d’aspetto alla
stazione,
manca l’aria.
In tasca ho un libro,
poesie altrui, tracce d’ispirazione.
Accanto, sulle panche, due vagabondi e un ubriaco
(oppure due ubriachi e un vagabondo).
Al lato opposto della sala, lo sguardo volto altrove,
in alto, verso l’Italia e il cielo,
siede un’elegante coppia anziana.
Fummo sempre divisi. L’umanità, i popoli,
le sale d’aspetto.
Mi fermo un attimo, incerto a quale sofferenza
unirmi.
Infine mi siedo al centro,
leggo. Sono solo, ma non mi sento tale.
Un viandante che non viaggia.
Svanisce
la visione. Montagne di respiri, soffocanti
pianure. La divisione perdura.
La
poesia è un moto dell’anima prima di tutto e non vuole dare lezioni, essere
politically correct e riscrivere la storia. La poesia non costruisce modelli di
umanità e realtà e poi cerca, così come fanno tutti quelli mossi da ideologie e
buoni propositi, di spingere ciò che di immenso c’è in ogni essere umano in una
forma prestabilita.
Forse anche i filosofi amano questo gioco di voler piegare l’essere a una loro idea. Ma per fortuna c’è sempre un poeta che interviene e spariglia le carte, calpesta le orme troppo profonde, parte all’improvviso e altrettanto all’improvviso torna e scopre che Dio si nasconde in forme impensate.
Kierkegaard su Hegel
Kierkegaard diceva di
Hegel: ricorda qualcuno
che erige un enorme castello, ma vive
in una semplice capanna, lì nei pressi.
Così l'intelligenza abita in una modesta
stanza del cranio, e quegli stati meravigliosi
che ci furono promessi sono ricoperti
di ragnatele, per ora dobbiamo accontentarci
di un'angusta cella, del canto del carcerato,
del buonumore del doganiere, del pugno del poliziotto.
Abitiamo nella nostalgia, nei sogni si aprono
serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio
in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme
di papavero più piccolo al mondo.
Scoppia di grandezza.
Il secondo messaggio
di Adam è arrivato e io l’ho letto ad alta voce a François e Alexandre, ben
sapendo che avrei lanciato loro una piccola sfida. Ma non aspetto una reazione
e leggo quasi senza respiro la terza poesia del nuovo amico che sto per
presentargli.
Il fuoco, il fuoco
Il fuoco di Cartesio, il fuoco di Pascal,
cenere,
scintilla.
La
notte arde un bivacco invisibile,
un
fuoco che consumandosi non distrugge
ma
crea, come se in un attimo
volesse
restituire ciò che le fiamme
hanno
sottratto in vari continenti:
la
biblioteca di Alessandria,
la
fede dei Romani e la paura di una bimba
della
Nuova Zelanda.
Il fuoco, come le armate
dei Mongoli, svuota e brucia le città
di legno e pietra, e poi innalza
case
lievi e palazzi invisibili,
ordina
a Cartesio
di
demolire la filosofia ed erigerne un’altra,
si
trasforma nel roveto ardente,
sveglia
Pascal, suona le campane
e
le fonde per eccesso di zelo.
Avete
visto come legge
i
libri? Pagina dopo pagina, lentamente,
come
chi ha appena imparato
a
sillabare.
Il fuoco, il fuoco eterno,
il
fuoco di Eraclito, l’avido messaggero,
un
ragazzo dalle labbra nere di bacche.
Anche
il re e la sua regina arrivano, sono curiosi quanto tutti noi altri.
Dal
fondo del sentiero un uomo pensoso con barba corta e capelli radi avanza, tra
poco gli parleremo, mentre le cicale smettono di colpo il loro canto e noi le
sentiamo, mentre il primo grillo inizia la sua litania e introduce quel che
accadrà e che saprete domani.
Questa Cronaca 156 l’ho scritta in questo undicesimo giorno del mese di agosto nell’anno senza Carnevale.
Le
poesie sono di Adam Zagajewski, Dalla
vita degli oggetti, a cura di Krystyna Jaworska, Adelphi 2012
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