venerdì 28 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/173: tutto scriveva nella casa quando scrivevo, la scrittura era ovunque

 


- Perché ti fermi a raccogliere pietre? David me lo chiedo e io mi blocco, colpevole e rea confessa.

- Perché mi piace la loro solidità, forse anche l’immutabilità. Mi piace pensare che nelle pietre resti traccia del tempo che è stato.

- Ma se tu le porti a casa non resterà altra traccia che la tua…

Mentre parliamo rimetto il sasso al suo posto e riprendiamo la discesa. Abbiamo trascorso la notte nello stesso rifugio della salita e la mattina presto qui è tutto avvolto nella bruma e pare di camminare in un sogno.

Ho delle piccole collezioni di sassi che avevo fatto per i miei nipotini: la famiglia dei sassi con l’occhio, la famiglia dei sassi castagna, la famiglia dei sassi con la striscia. Ho inventato storie, lucidato i sassi, conservato il piacere della ricerca in spiaggia, arrivano tutti dallo stesso luogo, insieme sono belli, mi piace guardarli, quando sarò molto vecchia li porterò alla spiaggia dove li ho raccolti e così qualcun altro potrà farne collezione. Ho anche altri sassi belli, dai colori e dalle forme particolari ma non ne scriverò qui, adesso.

Un sasso è parte di qualcosa che c’era e non è più, un frammento, un’immagine, un ricordo che non svanisce.

Mi piacciono i frammenti, le collezioni incomplete, le cose incompiute, le cose rovinate, la patina del tempo che dona alle cose quella dolcezza che l’essere nuovi non conosce.

Mentre cerco di argomentare le mie motivazioni poetiche e sentimentali che possano, almeno in parte, giustificare le mie collezioni che sono un’altra forma delle liste, siamo arrivati a valle e quando mi giro a guardare il nostro Monte Ventoso, mi stupisco di quanto la vetta sia lontana.

Il clima è cambiato anche quaggiù, il cielo è basso e grigio e folate decise di vento sono foriere di un temporale che si scatenerà prima di sera. Vado a passeggio sino al mare e passo a salutare le tre sorelle che sono in veranda a scrivere. Mi offrono un tè, mi raccontano delle loro ultime letture, in particolare dei racconti di Marguerite Duras a partire da L’uomo atlantico. Ho letto e riletto parecchi libri della Duras, ma non questi. Mi faccio prestare il libro e loro mi dicono che posso tenerlo, ne hanno altre due copie e, molto spesso, quando un libro interessa a tutte ne comprano tre per evitare di disputarselo e dopo averlo letto decidono se tenerle tutte e o se metterle nello scaffale dei libri belli da regalare. Mi dicono che questi Testi segreti tradotti dalla bravissima scrittrice Rosella Postorino, sono da tenere, quindi ne compreranno una copia nuova nei prossimi giorni.

Me ne torno verso casa soddisfatta del dono, della conversazione e della passeggiata. Visto il tempo, in giardino non c’è nessuno, così io pure mi rifugio nella mia stanza-studio e leggo la Duras, una scrittrice monumentale che amo moltissimo. Ma prima di iniziare queste storie che non conosco, vado a recuperare alcune sue citazioni.

 

“La solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora.

Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri. È una solitudine, la solitudine dell’autore, quella dello scritto. Tanto per cominciare, ti chiedi che cos’era quel silenzio intorno a te e praticamente a ogni passo che fai in una casa, a ogni ora del giorno, sotto tutte le luci, quella di fuori o quella delle lampade accese anche durante il giorno. La solitudine reale del corpo diventa quella, inviolabile, dello scritto.

Trovarsi in un buco, in fondo al buco, in una solitudine quasi totale e scoprire che soltanto la scrittura ci salverà. Essere senza alcun argomento di libro, senza alcuna idea di libro significa trovarsi, ritrovarsi, davanti a un libro. Un’immensità vuota, un libro eventuale. Davanti a niente. Davanti a una scrittura viva e spoglia, in un certo senso terribile, terribile da sormontare. Credo che la persona che scrive non abbia nessuna idea di libro, ha le mani vuote, la testa vuota e conosce dell’avventura del libro soltanto la scrittura asciutta e nuda, senza futuro, senza eco, remota, con le sue regole auree elementari: ortografia, senso.

Nella vita viene un momento, credo sia fatale, cui non si può sfuggire, in cui si mette tutto in dubbio: il matrimonio, gli amici, soprattutto gli amici della coppia. Non il figlio. Il figlio non è mai messo in dubbio. E il dubbio ci cresce intorno. Questo dubbio è solo, è il dubbio della solitudine, nato dalla solitudine. Si può già dire la parola. Credo che molti non potrebbero sopportare quello che dico, scapperebbero. Forse per questo ogni uomo non è uno scrittore. Ecco la differenza, ecco la verità, nient’altro. Il dubbio, è scrivere. Dunque è anche lo scrittore. E con lo scrittore tutti scrivono, lo si è sempre saputo.

Finché c’è il libro che esige di essere terminato, si scrive. Si è costretti a mettersi dalla sua parte. È impossibile buttare un libro per sempre prima che sia completamente scritto, vale a dire: solo e libero da te, che lo hai scritto. È intollerabile quanto un delitto. Non credo a quelli che dicono: “Ho strappato il manoscritto, l’ho gettato”. Non ci credo. O per gli altri non esisteva, ciò che era scritto, o non era un libro. Quando non è un libro, si sa, sempre. Quando non sarà mai un libro, no, non si sa. Mai.

Tutto scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque.

Scrivere comunque, nonostante la disperazione. No: con la disperazione. Quale disperazione, non so darle un nome. Scrivere senza imboccare subito la via che porta allo scritto è pur sempre lavorarlo. E tuttavia si deve accettare questo: lavorare lo “scarto” significa tornare indietro verso un altro libro, verso un altro possibile di quello stesso libro.

«Quando un libro è terminato, un libro che hai scritto, intendo, non puoi più dire, leggendolo, che è un libro che hai scritto, né quali cose vi siano state scritte, né con quale disperazione o quale felicità, quella di una trovata oppure di un fallimento di tutta te stessa. Perché, alla fine, nel libro non si può vedere niente di simile. La scrittura è in certo qual modo uniforme, placata. Non succede più niente in un libro terminato e distribuito. Esso raggiunge l’innocenza indecifrabile della sua venuta al mondo».

Esser soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta. Significa tentare di non morirne.

Non so che cos'è un libro. Nessuno lo sa, ma si sa quando ce n’è uno. E quando non c’è, si sa, come si sa che si è, non ancora morti”.

  

Sento le sue parole scorrermi lungo le vene, emergere sulla pelle delle braccia, raggiungere le mie mani e condurle verso la forma chiusa che occorre per scrivere.

Scendo a preparare un’altra tazza di tè, David è seduto accanto al camino che ha accesso, i lupi sonnecchiano, il vento fuori ulula ancora più forte, arrivano anche Alexandre e François, avvolti di salsedine e sabbia perché sono rimasti ore a camminare in riva al mare.

Ci salutiamo con calore, io torno nella mia stanza a scrivere. Domani arrivano Roxanne e Héloïse, avremo molto da raccontarci. Da qualche tempo non ho notizie del re e della regina e della poetessa. Ma David mi rassicura e mi dice che sono tutti affaccendati e che domani saranno a casa con noi.

Scrivere è vivere sempre nell’attesa di un sogno, di un ritorno o di una rivelazione. Apro il taccuino e scelgo le prime parole: “Perché ti fermi a raccogliere pietre?”.

 

Questa Cronaca 173 è stata scritta nel ventottesimo giorno dell’anno senza Carnevale. Al tavolo della mia immaginazione è arrivata anche Marguerite Duras, si fermerà qualche tempo e poi raggiungerà Borges e Yourcenar nella Biblioteca di Babele.

Il suo libro Scrivere, è stato tradotto da Leonella Prato Caruso, Feltrinelli 1994.

Nessun commento: