giovedì 6 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/151: vivo nel mio castello e ho solo il tempo per frontiera

Ero in giardino ad aspettare l’alba ed ecco, all’improvviso, tra il buio e la bruma è apparso il trio di viaggiatori che stavamo aspettando.

Le due sacerdotesse indossavano come sempre la veste del loro ordine, mentre il poeta cieco un abito di lino chiaro e un cappello che lo collocavano a Cuba prima ancora che in Argentina e soprattutto negli anni Cinquanta.

- Bene arrivate sorelle, benvenuto Luis, le casse dei tuoi manoscritti sono al sicuro, vuoi controllare prima che le spediamo al monastero di Colorno?

Luis sorrise, uno di quei sorrisi smisurati che spesso fanno i ciechi, e fece segno di no con la testa.

- Vorrei andare al mare, per cortesia. Benché io sappia riprodurne il suono e il profumo nella memoria, ecco vorrei tanto sentirli di nuovo dal vivo.

Perché diciamo dal vivo? Forse perché la memoria è un continuo riportare al presente persone, situazioni e oggetti che appartengono al passato, che nel momento in cui li pensiamo sono irrimediabilmente morti. 


Un frammento di tempo

Cerco la tua mano e poi
gli occhi, tutto appare 
così reale e io mi affido a
questa sensazione di 
averti accanto anche se 
so che è solo un sogno,
o un frammento di tempo
che mi afferra e annulla
le distanze e la nostalgia. 


Per ciascuno di noi arriva il momento in cui ogni esperienza è un déjà-vu, il momento in cui la maggior parte di quelli che amiamo appartengono a una declinazione del tempo cui possiamo accedere solo in sogno o nella memoria. 

Però l’essere non sempre si piega a questo ineluttabile destino e tanto meno il corpo che reclama ancora quella semplice gioia del respiro e dell’essere vivo.

Allora una ripetizione di qualcosa già visto, letto, mangiato, vissuto diventa un colpo di pennello che il grande pittore dell’universo ripassa su quel preciso colore per renderlo più intenso.

Così ho accompagnato Luis in spiaggia mentre le sacerdotesse sono entrate in casa per riposare un po’. Una volta arrivati ci siamo tolti le scarpe e sdraiati sulla sabbia umida. Il suo respiro era profondo, come se volesse respirare tutta la salsedine e l’odore delle alghe e imprigionare nelle orecchie il ritmo lento delle onde, poi all’improvviso inizia a recitare:


Vivo nel mio castello e ho solo il tempo per frontiera

Non c’è grazia in questa solitudine,
solo la tigre che vive nel mio
giardino conosce il tormento
di ore spezzate che non riesco
mai ad aggiustare o riporre
nel tempio delle ore smarrite,
perché sono io, sono sempre
io che colleziono coltelli e 
sassi, pergamene e antichi
mappamondi e lascio scivolare
le sillabe come i grani di un rosario
e vivo nel mio castello d’acqua e
di nostalgia e ho solo il tempo
per frontiera e le tue labbra come
confine che ogni notte dovrò
varcare ancora e ancora mentre
uno stanco bandoneón mi ricorda
il ritmo che è la mia vita: qualche
parola ogni istante e un cavallo
impazzito che vuole portarmi via.


Restiamo in spiaggia sino a che il sole non si è levato. Le tre sorelle ci hanno visto e vengono a salutarlo, ci invitano a fare colazione in veranda e mentre ci incamminiamo, vedo arrivare oltre le piccole dune le sacerdotesse e gli altri abitanti della casa. I lupi giocano tra i flutti, sì è tutto qui, il mondo che amo.


Continua anche nel sesto giorno dell’anno senza Carnevale la storia del poeta cieco e delle sacerdotesse che stanno facendo una sosta ai piedi delle Montagne della Nebbia.
Anche queste poesie apocrife sono opera mia.

Nessun commento: