venerdì 14 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/159: nel silenzio canta ciò che tace


Poi faremo altro, torneremo ai ritmi piani della vita che ricordiamo, spezzata dalla pandemia. Ci manca quella vita? Ci mancano i giorni dove il futuro era un progettare continuo, dove saremmo cambiati in meglio. Senza le progressive sorti dell’umanità lanciata verso un futuro migliore, ricco e prospero, giusto e soprattutto giusto, cade uno dei miti fondanti della nostra civiltà. Imperfetta, crudele, spietata, sì certo. Ma così ricca di bellezza e di grazia. La poesia nasce in questa atmosfera e forse nasce proprio grazie all’andamento ipnotico delle onde del mare. Chi sarà stato il primo poeta a guardare quel moto e a sentire il proprio orecchio interiore che ne veniva rapito?

 


Il mare

 

Rilucente tra le rocce, a mezzogiorno blu,

minaccioso quando lo chiama il vento d’occidente,

ma a sera quieto, incline alla concordia.


Instancabile nelle piccole baie, possiede

infinite schiere di granchi che avanzano di lato

come umidi veterani delle guerre puniche.

 

A mezzanotte dal porto partono i pescherecci, la luce

intensa dell’unico riflettore squarcia il buio,

fremono i motori.

 

Sulla spiaggia di Cefalù, in Sicilia, abbiamo visto

innumerevoli rifiuti, cassette, preservativi,

cartoni del latte e un’asse su cui sbiadiva il nome Antonio.

 

Innamorato della terra, tende sempre alla riva,

invia onda su onda - e ciascuna muore

esausta, come un messo greco.

 

Al crepuscolo si fa sentire frusciando,

con lo spesso bisbiglio delle pietre gettate sulla ghiaia

(s’odono fin sulla piazzetta dei pescatori).

 

Il mare Mediterraneo, in cui nuotavano gli dèi,

e il freddo Baltico, dove mi immergevo

tremando dal freddo, magra anguilla dodicenne.

 

Innamorato della terra, entra nelle città, a Stoccolma

e a Venezia, ascolta le conversazioni, le risa dei turisti,

poi torna al suo principio immobile e oscuro.

 

Il tuo Atlantico, indaffarato a innalzare fantasmi bianchi

e il timido Pacifico, che si nasconde negli abissi.

 

I gabbiani dalle ali lievi.

Gli ultimi velieri sui quali si gonfia

una bianca tela crocefissa.

 

Su strette canoe navigano vigili cacciatori

e nel silenzio assoluto si va levando il sole.

 

II grigio Baltico,

il Mar Glaciale Artico, muto,

il mare Jonio, l’inizio e la fine del mondo.

 

 

Ma non è solo il mare a far nascere la poesia, non è solo Afrodite che sorge dalle acque. Perché a ogni bellezza corrisponde la sua privazione, a ogni parola corrisponde un silenzio, a ogni sguardo il mondo che si oscura.

 



Là, dove il respiro


Sta sulla scena
senza alcuno strumento.

Appoggia le mani sul petto,
là dove nasce il respiro
e dove si spegne.

Non sono le mani a cantare
e nemmeno il petto.
Canta ciò che tace.

 

 

Continuano le lunghe conversazioni con Adam il poeta e questa giornata è bella e il mare dolce. Respiriamo all’unisono, dopo la festa di ieri sera, dopo le parole accese nel cuore della notte, una nuova intimità è nata tra noi. Anche nella città silenziosa le voci si spengono una dopo l’altra. La gente parte, si allontana, cerca altrove quiete e bellezza, sperando che il virus scompaia, che l’autunno possa dare tregua al mondo ferito e spaventato. Voci mescolate a voci ci arrivano da tutti i luoghi e un’altra poesia raccoglie l’umanità come se fossimo gocce di pioggia e lei potesse congiungere le mani a coppa e tenerci tutti.

 

Vacanze

 

Sono scuri i capelli dell’estate.

E le foglie dei faggi tese

come corde di violini per bimbi.

La pioggia si perde nelle lunghe grondaie

della chiesa di campagna e piange.

Il giovane Rembrandt, ancora altero,

ci osserva da una cartolina.

Il mare infuriato s’infrange sulle rocce

e qualcuno sussurra: ci sarà la guerra.

Il sole di ieri si raffredda nei mattoni.

Nascosti da rigide mantelle

due ciclisti attraversano il ponte.

Nel giardino rilucono i lampi verdi delle cince.

L’asfalto caldo evapora umile,

come se un barbiere vi avesse poggiato

le ciotole per la rasatura.

Respiri sollevato: sono solo stanchi

pellegrini che ritornano a casa

portando il dolce pane dell’oblio, la felicità,

il silenzio.

 

Non per tutti ci saranno oblio e silenzio, nelle nostre teste il tempo è un vortice e la pace solo un desiderio.

Dopo la guerra siamo nati noi delle generazioni fortunate. Vent’anni per riempire il mondo, esplorarlo, crearlo, abbattere i padri e i baluardi delle generazioni precedenti. Noi, gli invincibili, noi gli immortali.

Ma poi, piegati dal dubbio, dalla paura, noi abbiamo scoperto la nostra fragilità, ci siamo scoperti mortali e con il tempo sempre più sottile, un ventaglio che si chiude, i petali della rosa che cadono sul tavolo.

 

Si je range l'impossible salut au magasin des accessoires, que reste-t-il? Tout un homme, fait de tous les hommes et qui les vaut tous et que vaut n'importe qui.

Se ripongo l’impossibile salvezza nel ripostiglio degli attrezzi, cosa resta? Tutto un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque lo vale.

 

Si chiude con la frase finale del libro autobiografico di J.P. Sartre Le parole questa Cronaca 159, scritta nel quattordicesimo giorno del mese di agosto dell’anno senza Carnevale.

Le poesie sono di Adam Zagajewski, Dalla vita degli oggetti, a cura di Krystyna Jaworska, Adelphi 2012.

La traduzione italiana di Sartre è di Luigi De Nardis, Il Saggiatore 2020.

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