giovedì 27 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/172: un pensiero che dai luoghi mi porta ai tempi


 

Siamo creature della terra e lo sappiamo. Ma non riusciamo a sfuggire al richiamo dell’aria che avvolge le cime più alte, né tanto meno al richiamo del mare e delle sue profondità, e che dire delle stelle e della loro vicinanza alle creature celesti che accompagnano le nostre vite quaggiù?

Cammino, salgo, mi inerpico e mi arrampico, seguendo le orme di chi prima di me, di noi, ha sentito l’urgenza di arrivare in cima a un monte dove sentirsi accanto all’Eterno e alle sue infinite possibilità.

I rumori sono rarefatti vicino a questa cima facile, da principianti. David mi spiega che è la prima delle Montagne della Nebbia e che l’ha chiamata da subito Monte Ventoso perché pare che qui il vento abbia una fissa dimora e dai rami di alberi antichi più della nostra memoria, scende a valle come un lupo a scompigliare ogni cosa.

Dalla mia bisaccia estraggo il libro che avevo scelto pensando proprio al Monte Ventoso. David dice di avermi vista mentre lo leggevo qualche tempo fa e di avere deciso proprio per questo di portarmi a passeggiare sin quassù.

Così ci sediamo sui massi e io leggo la lettera di Petrarca a Dionigi scandendo bene le parole:


“Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi.

(…)

Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo.

(…)

Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava.

(…)

Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere: «Ciò che hai tante volte provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo sono invisibili ed occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio. Tutti vogliono giungervi, ma come dice Ovidio, «volere è poco; occorre volere con ardore per raggiungere lo scopo». Tu certo, se non ti sbagli anche in questo come in tante altre cose, non solo vuoi, ma vuoi con ardore. Cosa dunque ti trattiene?

(…)

C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il «Figliuolo»; perché non so dirti; se non fosse per antifrasi, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo letto ed udito di essi. Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma rompendone, come dicono, le rocce con l’aceto, mi parvero, pur così lontane, vicine.

(…)

Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava. I Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola debolezza della nostra vista; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte, lontani alcuni giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato, io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi».

(…)”

 

Molti anni fa sono salita sul Monte Ventoso in Francia - ne ho raccontato nella Cronaca 110: la luce nell’aria e tutto intorno a me – e questa nuova ascesa mi riportava alla mente la mia esperienza e quella di Petrarca ed ero contenta di poterne parlare con David. Che era salito sul Mont Ventoux con in tasca le lettere di Petrarca e le Confessioni di Agostino.

Dopo un po’ smettiamo di parlare e guardiamo il panorama dove si confondono le vallate francesi con il nostro Altipiano della Luna. Non siamo solo noi seduti su questi massi, le ombre di Agostino e Petrarca si stagliano sulle pietre. Perché ogni qual volta leggiamo un autore che appartiene a un altro tempo, cioè a uno spazio dove noi non potremo mai andare, ecco che il suo spirito può staccarsi da quel luogo e venire a noi attraverso le parole che stiamo leggendo.

È questo senso di vicinanza che ci fa comprendere l’appartenenza alla nostra lingua e a una tradizione, un paesaggio.

E se siamo molto fortunati, allora le ombre torneranno a popolare questo luogo e questo spazio, il nostro.

E il tempo non sarà che, di nuovo, quel bambino distratto, che si incanta ad ascoltare le storie, così che noi riusciamo ad aggirarlo e ad attraversarlo a nostro piacimento.

La discesa sarà lunga, mi alzo e porgo la mano a David. Scendiamo ciascuno con due ombre, non so fino a quando, ma è una compagnia piacevole in questo giorno che declina.

 

 

Questa Cronaca 172 è stata scritta il ventisettesimo giorno di agosto dell’anno senza Carnevale.

La lettera di Petrarca a Dionigi da San Sepolcro, nota come Ascesa al Monte Ventoso, fa parte delle sue lettere ed è disponibile su diversi siti. Il titolo della Cronaca è una citazione da una parte della lettera che non ho trascritto.

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