sabato 22 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/167: la gioia non è vicina, è già arrivata

 

Ho trascorso la notte nella radura di Penelope ma non in sua compagnia. La mia compagnia della notte sono stati la tela impalpabile che le ancelle hanno disfatto in poche mosse, il grido della civetta insieme alla sua dea, la pazienza e l’attesa che pervadono questo luogo e mi invitano a riflettere sul loro senso.

La solitudine che sono venuta a cercare su quest’isola se ne sta in bilico, almeno per me, tra la pazienza che matura nella perdita e nella lontananza e l’attesa che è promessa del tempo che sarà.

La vita cresce sommando i giorni e fino a quando questo accade, pazienza e attesa non ci appartengono.

Poi, qualcosa si rompe, i giorni trascorsi non si sommano più uno sull’altro. Inizia così la lenta sottrazione dei giorni che non chiamano più il futuro ma l’eternità.

I nuovi incontri diventano ripetizione di quelli già avvenuti, le cose che ci stupiscono diminuiscono vertiginosamente e…

Ed ecco sento un uomo nella radura che dice queste parole ad alta voce, mi sveglio che è giorno fatto.

È vero che ogni incontro, ogni scoperta, ogni libro, messi in relazione con quanto abbiamo già visto, letto e incontrato può avere il gusto della ripetizione, ma solo perché ogni cosa messa in relazione a una vita lunga è un frammento ogni giorno più piccolo.

L’uomo che sta parlando è di spalle e io non voglio farmi vedere mentre mi avvicino alla casa che tanto somiglia alla Casa delle Parole.

Sulla soglia un’ancella mi dà il benvenuto e mi dice che posso fermarmi per quanto tempo desidero.

Una cosa mi colpisce non appena sono entrata. I mobili, le suppellettili, gli oggetti che arredano queste stanze io li conosco, ma non per averci vissuto insieme. Li conosco perché sono gli oggetti che non ho comprato o che ho scartato.

Anche i libri sugli scaffali sono libri che non ho letto, che avrei voluto leggere, ma che, per qualche misterioso motivo, sono rimasti al loro posto e io non so di cosa parlino.

Ogni scelta implica la decadenza delle infinite possibilità alternative, qui posso decidere di recuperare storie che non ho letto.

Sul tavolino in soggiorno ci sono alcuni album di fotografie e disegni. Sono fotografie perdute dell’infanzia di mio padre che andarono bruciate durante un incendio dopo la morte di mio nonno. Ci sono fotografie della mia infanzia che non ho mai visto, le fotografie di Celle Ligure nel 1981 con Gianfranco, Antonia, Loredana, Anna di Pavia,Paola e le altre loro amiche che non ho mai più rivisto. Ci sono le fotografie dell’agosto 1982 a Oslo dove un ingegnere petrolifero norvegese che viveva su una piattaforma, ha scattato un mucchio di fotografie mentre sguazzavo in una fontana del Vigeland Park a Oslo. Ci sono le foto perdute della prima parte del viaggio in Austria dell’agosto 1983, il monastero di Heiligenkreutz, i campi di girasole, le croci fotografate nelle stradine in mezzo ai campi. Ci sono anche i ritratti che mi aveva fatto la vecchia signore inglese sulla piazza di Orta San Giulio nel 1985. E le fotografie perdute di Losanna dell’agosto 1984, quell’intrecciarsi di vite e storie che avrei voluto scrivere ma che sono diventate il mio secondo romanzo In giornate identiche a nuvole, in maniera totalmente contraffatta, dove l’unica verità è la città di Losanna e le storie sono tutte frutto di invenzione e non di memoria.

Mi chiedo se le immagini smarrite di tanti mesi di agosto di altre vite, possano dare un senso a questi giorni di agosto dove sono venuta a cercare un senso alla solitudine.

Ma non ho risposte, non ne cerco, a dire il vero. Ripongo gli album ed esco dalla casa. Non voglio pensare, non oggi, alle scelte non fatte e alle loro implicazioni. E non voglio neanche pensare alle scelte fatte e alle altre implicazioni.

Torno alla spiaggia e mi siedo a contare le onde. Vedo sull’altra riva i miei coinquilini che mi aspettano e David il poeta che grida controvento parole che non capisco.

 

Il nuovo giorno è un gatto che si è appena svegliato

 

Il passato è sempre quel luogo

dove eravamo già stati, piacevole

tornarci, a volte, ma è pericoloso

cercare di corrispondere a chi

siamo stati, cercare di coprire

le proprie vecchie impronte con

il nuovo passo che appartiene a

questo giorno che si srotola come

un gatto al risveglio e si stira, si

allunga e acconcia il pelo con la

sua lingua ruvida. Forse dovrei

imparare da lui e dalle rondini, tornare

al mio nido solo una volta all'anno

e poi sfrecciare per i cieli smemorata

e allegra, mentre le rose e l’oleandro

si godono il sollievo di non essere

chiamati in una nuova poesia.

 

Ho preso le misure della mia solitudine, so di poter tornare all'isola ogni qual volta ne avrò desiderio. Ma adesso tornerò nella mia terra, dai miei amici e amiche, dai miei personaggi e dai miei scrittori.

L’isola vive in me, giorno dopo giorno, io sono l’isola e l’isola è me. Mi giro una volta ancora a guardare la casa, sento i colpi del telaio di Penelope e il canto delle ancelle.

Mi tuffo, nuoto a grandi bracciate, mi giro sul dorso per riposare, dopo un po’. Sulla spiaggia dell’isola ci sono ancora io, ferma, che non dico nulla, poi mi giro e torno sul sentiero.

Mentre nuoto guardo la schiena dritta e i capelli lunghi dell’altra me stessa che custodisce gioventù e desideri, so di poter stare tranquilla.

Qui, nel presente, tesso i fili del mio giorno con il tempo che viene, bracciata dopo bracciata. La riva è vicina, ancora un piccolo sforzo, esco dell’acqua e corro incontro a David.

La gioia non è vicina, è già arrivata, prima di me.

 

Questa Cronaca 167 l’ho scritta mentre sto sistemando i miei scritti di gioventù, vecchie fotografie, ritagli di giornale. La poesia è mia ed è figlia delle ore quiete del pomeriggio.

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