lunedì 24 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/169: la visione è un’aratura azzurra nel campo della tua immaginazione

 

Riprendiamo i fili del giorno prima di questo, riprendiamo le parole e le immagini di Philippe Jaccottet:


“Rivedevo paesaggi di messi in pieno sole; e non bastava; non bisognava temere di lasciar agire il lievito della metamorfosi. Ogni spiga diventava così uno strumento d’ottone, l’intero campo un’orchestra di paglia e di polvere d’oro; ne sgorgava un lampo sonoro che avrei voluto dapprima chiamare un incendio, e poi no: non poteva essere furioso, devastante, e nemmeno selvaggio. (Neppure mi venivano in mente immagini di piacere o voluttà.) Cercavo di capire ancora meglio quella parola che, si sarebbe quasi potuto dire, giungeva sino a me da una lingua straniera, o morta): la rotondità del frutto, l’oro del grano, il giubilo di un’orchestra d’ottoni, c’era qualcosa di vero in tutto questo; ma mancava l’essenziale: la pienezza, e non solo la pienezza (che ha qualcosa di immobile, di chiuso, d’eterno), ma il ricordo o il sogno di uno spazio che, benché pieno, benché completo, non smettesse, tranquillamente, sovranamente di allargarsi, di aprirsi, simile a un tempio le cui colonne (che non sostengono ormai che l’aria, come in certe rovine) si allontanassero all’infinito l’una dall’altra, senza peraltro spezzare i loro invisibili legami; o al carro d’Elia le cui ruote si ingigantissero, adattandosi alla misura delle galassie, senza spaccare l’assale”. (continua)

 

Siamo andati a camminare accanto ai nostri campi dove le messi sono state mietute in giugno e ora le stoppie bruciate stanno per essere rivoltate nella terra che sarà pronta per una nuova semina.

Accade sempre così alla fine di agosto, il tempo accelera e la luce gronda oro già nella tarda mattinata.

Bisogna prepararsi all’avvento della nuova stagione? Sì, certo ma non ancora, non oggi. Mi ribello alla dolcezza dell’autunno incipiente e propongo di andare in spiaggia. Così ritorniamo sui nostri passi, ma poi in spiaggia non ha voglia di venirci nessuno perché è già ora di pranzo. Vado da sola, mi piace stare in spiaggia quando non c’è nessuno, fare il bagno quando l’acqua è calma e nessun altro sta facendo il bagno.

Al mio ritorno David il poeta mi propone di riprendere il sentiero per avvicinarci alle Montagne della Nebbia. Ci avviamo di nuovo in compagnia di Jaccottet:

 

Ora saliamo per sentieri di montagna,

in mezzo a prati come giacigli di strame

da cui mandrie di nubi si fossero appena rialzate

sotto il bastone del vento.

Si direbbe che forme vaste camminino nel cielo.

 

La luce acquista forza, lo spazio si accresce,

le montagne somigliano sempre meno a dei muri,

risplendono, crescono anch’esse,

i portieri maestosi vagano sopra di noi –

e la parola che traccia, lenta, la poiana,

in alto, se l’aria la sfa, non è poi quella

che pensavamo di non più poter udire?

 

Siamo giunti oltre cosa?

Una visione, pari a un’azzurra aratura?


Conserveremo per più di un istante, sopra la spalla,

l’impronta di questa mano?

 

Impronte dei nostri passi sono rimaste sul sentiero. In basso vediamo la nostra casa e il giardino, le montagne sono appena più vicine. Non arriveremo prima del tramonto, cosa sarà meglio fare?

- Vieni, mi dice David, conosco un rifugio dove possiamo passare la notte. Nello zaino ho portato pane e formaggio, più avanti troveremo cespugli di more e una fonte di acqua purissima.

- Così è qui che vieni a nasconderti quando sparisci per giorni?

- Tu hai la tua isola, io il mio rifugio, non siamo poi così diversi, non pensi?

Riprendiamo a camminare in silenzio, mi accorgo che i lupi sono dietro di noi e intorno solo l’aria, il vento.

 

Questa Cronaca 169 è stata scritta il ventiquattresimo giorno del mese di agosto.


La prosa e la poesia sono di Philippe Jaccottet, tratte da Alla luce dell’inverno. Pensieri sotto le nuvole, traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos 1993.

 

 

 

 

 

Je revoyais les paysages de moissons en plein soleil; ce n'était pas assez; il ne fallait pas avoir peur de laisser agir le levain de la métamorphose. Chaque épi devenait un instrument de cuivre, le champ un orchestre de paille et de poussière dorée; il en jaillissait un éclat sonore que j'aurais voulu dire d'abord un incendie, mais non : ce ne pouvait être furieux, dévorant, ni même sauvage. ( Il ne me venait pas non plus à l'esprit d'images de plaisir, de volupté.) J'essayais mieux encore d'entendre ce mot (dont on aurait presque dit qu'il me venait d'une langue étrangère, ou morte) : la rondeur du fruit, l'or des blés, la jubilation d'un orchestre de cuivres, il y avait du vrai dans tout cela; mais il manquait l'essentiel : la plénitude, et pas seulement la plénitude (qui a quelque chose d'immobile, de clos, d'éternel), mais le souvenir ou le rêve d'un espace qui, bien que plein, bien que complet, ne cesserait, tranquillement, souverainement, de s'élargir, de s'ouvrir, à l'image d'un temple donts les colonnes (ne portant plus que l'air ainsi qu'on le voit aux ruines) s'écarteraient à l'infini les unes des autres sans rompre leurs invisibles liens; ou du char d'Elie dont les roues grandiraient à la mesure des galaxies sans que leur essieu casse.

 

 

 

Maintenant nous montons dans ces chemins de montagne,

parmi les prés pareils à des litières

d’où le bétail des nuages viendrait de se relever

sous le bâton du vent.

On dirait que de grandes formes marchent dans le ciel.

 

La lumière se fortifie, l’espace croît,

les montagnes ressemblent de moins en moins à des murs,

elles rayonnent, elles croissent elles aussi,

les grands portiers circulent au-dessus de nous –

et le mot que la buse trace lentement, très haut,

si l’air l’efface, n’est-ce pas celui que nous pensions

ne plus pouvoir entendre?

 

Qu’avons-nous franchi là?

Une vision, pareille à un labour bleu?

 

Garderons-nous l’empreinte à l’épaule, plus d’un instant,

de cette main?

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