lunedì 31 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/176: ognuno di noi è un enigma, una solitudine vista in sogno

 


Ecco che all’improvviso, come portata dal vento del nord, Duras è arrivata sino alla Casa delle Parole. Dà l’idea di essere molto sofferente, disorientata e stanca. Ma il suo sguardo è comunque vivo, intenso e inizia subito a raccontare di sé.

Forse tutti gli scrittori hanno in comune soprattutto una memoria esorbitante e feroce che li costringe a ritornare sulle storie, gli avvenimenti, le immaginazioni per raccontarle ancora e ancora, cesellando, molando, raffinando.

Forse un’altra caratteristica degli scrittori è di “non essere mai guariti dall’infanzia”.

La memoria implacabile e l’infanzia inguaribile, sono state due peculiarità di Marguerite Duras, una scrittrice capace di trasformare la vita vissuta e la vita ricordata in materia incandescente della creazione e a scrivere così, alcuni tra i romanzi più intriganti e poetici del Novecento.

La piccola Marguerite/Nené ebbe un’infanzia selvaggia in Indocina, figlia di due insegnanti emigrati nelle colonie, Marie e Henri, alla ricerca di ricchezza e stima sociale. Hanoi, il Mekong, le piantagioni di riso, le strade sterrate, i contadini, una diga sul Pacifico sono tra le figure che popoleranno i futuri libri. Anche la storia d’amore con il ricco e giovane cinese, sarebbe stata immortalata nel romanzo L’amante che consegnò Duras alla fama presso il grande pubblico e alla ricchezza, ma la privò della sua invisibilità perché tutti iniziarono a fermarla per strada. Nené vive giovane per l’eternità in questa narrazione, così come anche il suo amante, ormai anziano, le dice al telefono dopo la pubblicazione della loro storia. Lei si stupì di quella telefonata perché dopo avere scritto, ogni volta, temeva sempre di essersi immaginata ogni cosa. L’infanzia indocinese è irriducibilmente altra, l’Indocina resterà il sogno infranto della Francia, ma Duras continuava a vivere in quel sogno la sua infanzia libera. La tensione tra immaginazione, inconscio e memoria e sempre fortissima in lei. Non diede ascolto, all’inizio della sua carriera letteraria, a chi le suggeriva di entrare in analisi, conobbe Lacan che dedicò uno dei suoi scritti a Lol V. Stein, lesse Freud ma restò folgorata solo da Jung, e quando decise di andare da un analista lo avrebbe fatto in segreto.

La bambina selvaggia diventerà una giovane donna borghese bellissima e inconsapevole al suo ritorno in Francia e poi una combattente della Resistenza, una militante comunista espulsa dal PCF, una scrittrice adorata dai critici, una moglie infedele, una madre ansiosa, un’amante appassionata, una regista d’avanguardia, una rivoluzionaria del maggio ‘68: Nené aveva lasciato il passo a Margot. Se queste molteplici vesti si sovrappongono nel corso di tutta la vita, oltre alla scrittrice, due sono i ruoli che non l’abbandonano mai: l’amica, e tra le sue amicizie famose vanno ricordati almeno l’attrice Jeanne Moreau e lo scrittore Elio Vittorini, ma più ancora la figlia che mai ha sentito su di sé lo sguardo amoroso della madre. Forse ogni libro scritto non è altro che una lunga lettera alla madre che non l’ammirava e che, anzi, si arrabbiava e vergognava di quei libri che riteneva offensivi per la famiglia. Non poteva capire le distorsioni letterarie alle loro vite che rendono le vite materia letteraria Marie Donnadieu. Non poteva capire che la scrittrice sarebbe stata la maschera unificante di una personalità complessa e incandescente. Lo scrittore Raymond Quenau la esortava a scrivere comunque “Scriva! Solo questo deve fare”. E scrivere è entrare nelle ombre e nelle tenebre dell’anima, perché “Non si possono conoscere le tenebre partendo dal giorno”.

Duras conobbe le tenebre della malattia e dell’alcolismo che la portò diverse volte in punto di morte. “A volte l’acqua si dimentica di gelare. Le hanno raccontato di questo fenomeno naturale, l’acqua non gela sempre a zero gradi. Se è perfettamente immobile, se è molto pulita, la temperatura deve scendere sotto lo zero, prima che geli. Come acqua che ha dimenticato di gelare, Marguerite si è dimenticata di soffrire, si è dimenticata di morire. Era stata respinta in fondo all’abisso, a contorcersi inascoltata, a urlare senza far rumore. Non aveva detto tante volte che proprio questo si fa quando si scrive? “Si urla senza produrre suono”. L’eco di queste urla attraversa tutta l’opera di Duras che, a differenza della maggior parte degli scrittori, poté vedere incarnati a teatro e al cinema i suoi personaggi. Il buio del cinema, “è come lo spazio bianco tra le parole” scriveva. Duras fu maestra nell’uso di quel bianco e di quel nero perché la sua scrittura e il suo sguardo hanno ritagliato, cesellato la parola necessaria, l’immagine indispensabile facendo sì che i due colori opposti diventassero una cornice e non il centro della sua espressività.

Chi scrive vive tutti i tempi allo stesso tempo, vive tutte le vite che non vivrà mai nella realtà. Ma cosa è mai la realtà se non un riflesso in un vetro che la scrittura coglie e ordina?

I frammenti vengono ricomposti, ma dietro il vetro, il caos e la passione, i segreti e i misteri restano intatti, intoccati.

Se anche delle nostre vite non “resta che il ricordo di una solitudine vista in sogno” possiamo continuare a credere nella forza della letteratura e dei libri non solo per salvare noi stessi e il mondo dall’oblio, ma per continuare il dialogo silenzioso con i lettori vicini e lontani e con gli scrittori che ci hanno preceduto.

È facile ascoltare Duras, qui alla Casa delle Parole siamo tutti incantati, per chi ha letto i suoi libri perché è bello sentire dalla viva voce di uno scrittore le parole che già si conoscono, chi non li ha letti scappa in casa a cercarne le copie disponibili per iniziare a leggere.

Io me ne sto seduta un po’ in disparte, l’invito agli scrittori e ai poeti parte da me, sanno che dopo essere stati qui potranno andare a Colorno e aggiungere i propri libri alla Biblioteca di Babele fondata da Borges e restare lì con gli altri già chiamati a parlare e scrivere per l’eternità.

Mentre ascolto Duras, si presenta alla soglia della memoria Cees Noteboom un altro poeta che ama Zagajevski e che si appresta a condividere con noi le sue poesie.

Agosto finisce con la rilettura del romanzo magico di Sandra Petrignani che ci porta in dono una vita straordinaria. Romanzo e biografia al contempo, questo libro aggiunge un prezioso tassello al mosaico della sua scrittura.

Stasera rileggerò L’amante e Scrivere e domani scriverò ancora di Duras. Gli amori letterari sono fatti dei molti ritorni che seguono la prima folgorazione. E forse rileggere è ancora più bello che leggere un autore per la prima volta.

 

Questa Cronaca 176 è stata scritta il trentunesimo e ultimo giorno del mese di agosto dell’anno senza Carnevale ed è, in parte, una rielaborazione della mia recensione, uscita sul blog di Poesia della RAI curato da Luigia Sorrentino, al romanzo di Sandra Petrignani Marguerite di Neri Pozza 2014, da cui sono anche tratte le citazioni.


domenica 30 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/175: quando il sole si veste d’autunno

 


Ci sono giorni verticali, dove la vita si slancia verso il mondo e verso le nuove esperienze, conversazioni, epifanie. Di giorni verticali è colma soprattutto la gioventù; quando mi siedo nella falsa prospettiva del futuro che non è ancora arrivato, ecco che vedo davanti a me la Sagrada Família di Gaudí con le sue ardite guglie, le stratificazioni e le facciate. Non c’è niente di lineare in quest’opera e le nostre vite sono, in fin dei conti, opera di un architetto un po’ folle, un po’ visionario, a volte crudele. E il quadro che associo a questa verticalità dei giorni è il Ramo di mandorlo di Van Gogh, per il suo cielo e le figure assenti.

I giorni orizzontali, invece, sono quelli dei ritorni, dei ripensamenti, dei quadri antichi cancellati con una nuova opera dipinta sopra che, solo a un esame attento, svelano la propria genesi. I giorni orizzontali hanno forma di un nido, non sono quello che sembrano e favoriscono la contemplazione. Se penso a una cattedrale da associare a questa immaginazione, trovo che il Duomo di Milano sia perfetto. Perché è vasto, maestoso e mai finito, come sappiamo dai lavori della Veneranda Fabbrica che è in funzione sin dal 1387. Il quadro dei giorni orizzontali è la Cena in Emmaus di Caravaggio per la luce e l’intimità che viene confermata quando il viandante svela la propria identità grazie a un semplice gesto.

Così nella nostra vita i giorni orizzontali sono la trama e quelli verticali l’ordito e il tessuto che andiamo tessendo è più frutto del caso che delle intenzioni o della necessità.

Non sempre ci è concesso di dare un senso a quanto abbiamo vissuto, per questo scrivere è l’atto intenzionale allo stesso tempo più rivoluzionario e più conservatore.

Rivoluzionario perché vuole opporsi al vano trascorrere del tempo e sovvertirne l’ordine, conservatore perché vuole salvare le cose proprio come sono accadute o come avremmo voluto che accadessero e, a volte, ci riesce.

La scrittura diventa quindi un ago che agisce sulle pezze di tela per congiungerle. Il progetto di un libro è come il sarto che taglia le stoffe sui cartamodelli che ha disegnato. Poi si passano le marche per rendere solido il manufatto; poi si imbastisce e i luoghi, i personaggi, le conversazioni prendono vita.

A volte l’ago cuce da solo, a chi scrive non resta che seguire il movimento della mano, arrendersi a parole che arrivano da un altrove sconosciuto anche se è la centesima poesia sulla pioggia e il vento che stiamo scrivendo.

Così mi arrendo ai giorni che tramano con me e contro di me, sfoglio a caso i libri di Yourcenar e Duras, mi preparo al grande incontro che è stato rimandato di almeno un giorno.

Le sacerdotesse raccontano che a Colorno la vita procede tranquilla, che Borges e Yourcenar parlano per ore e ore e che lei ha sostituito le novizie che trascrivevano i suoi racconti. Vanno e vengono dalla Biblioteca di Babele e si mostrano al prossimo non più nella loro estrema vecchiezza, ma nel pieno della maturità, tra i cinquanta e i sessanta anni. Scegliere il proprio aspetto e l’età in cui più ci si sente a proprio agio, sono uno dei privilegi della vita tra quelle mura. L’unica cosa cui Borges non ha rinunciato, almeno per ora, è la sua cecità. Dice che le immagini del suo teatro interiore non sono mai state così nitide e chiare come da quando ha smesso di guardare il mondo.

Guardare il mondo e poi scriverne, ricordare il mondo e poi scriverne, immaginare il mondo e poi scriverne.

Yann Andrea, il suo ultimo amore, chiese un giorno a Duras a cosa servisse scrivere, lei gli rispose con poche parole: “È tacere e parlare al contempo. Scrivere. È anche cantare, a volte”.

 

Quando il sole si veste d’autunno

 

Così cerco tracce del suo canto e

mi fermo ad ascoltare le voci

che sussurrano tra i rami. Ripetono

storie già ascoltate, dicono storie

inaudite e io resto presa in mezzo

a queste voci e non cerco una via

di fuga. Il giorno è così strano e

inquieto, metà pioggia e metà

vento, il sole che si veste d’autunno

e nessun passante davanti alla tua

casa. Solo la mia ombra verrà

stanotte a portarti l’ultima rosa

del mio giardino. Tu starai dormendo

e il sogno ti impedirà di svegliarti,

perché dovrai continuare a prenderti

cura di tutte, di tutte le altre rose.

 

 

La bizzarria di questa Cronaca 175, scritta l’ultima domenica di agosto, il suo trentesimo giorno, dell’anno senza Carnevale, proviene dal tempo umbratile, dal vento, dalla lettura di Duras, dalle reminescenze di cattedrali e dipinti che si sono affacciate sul mio quaderno, dal gusto dolceamaro dell’ultimo giorno di vacanza.

La citazione di Marguerite Duras è tratta da C'est tout, traduzione di Donata Feroldi, Oscar Mondadori 1996.

La poesia è un mio inedito, frutto di questo clima e di questo tempo.


sabato 29 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/174: io voglio scrivere così: non voglio più raccontare una storia, ma il suo segreto

 


È troppo grande il mondo per stare in una pagina, eppure la poesia, a volte, cerca proprio di compiere questo miracolo di miniaturizzazione e, a volte, ci riesce.

Così come, a volte, la poesia, si intrufola nella prosa e impregna lo stile e il ritmo di chi scrive, come accade ad Antonella Anedda, che in un brevissimo scritto sul senso del viaggio e dell’invecchiare, chiama a testimoni Virginia Woolf, Montaigne e Matsuo Basho. Tre lingue, tre epoche, tre scrittori che solo a lei sarebbe potuto venire in mente di mettere insieme:

“A dispetto del tempo e dello spazio alcune parole volano come le molecole. Chi le scrive non le possiede, prende la forma di un corpo solo per viaggiare e un nome solo per voltarsi a un suono”.

La poesia che diventa linfa vitale della prosa è una caratteristica anche della scrittura di Sandra Petrignani, soprattutto nel romanzo Marguerite, dedicato a Marguerite Duras:

 

“Si sente uno scroscio d'acqua, cade una foglia con un rumore lieve. La luce cambia in continuazione. Ora una nuvola ha gettato un'ombra nella stanza. Nei libri invece si procede per successione, come se le cose accadessero in sequenza, ordinatamente e non insieme; mentre dentro e fuori le persone le cose si affastellano, i pensieri si mescolano. Io voglio scrivere così: non voglio più raccontare una storia, ma il suo segreto”.

 

Così, in questa prima giornata d’autunno, nubifragi e nuvole, me ne sto in compagnia di alcune tra le mie scrittrici preferite e rileggo pagine amate e sottolineate nel tempo.

L’inizio della stagione di mezzo che fa strage di foglie è sempre stata la stagione dei progetti, dei nuovi inizi, del desiderio di fiamma e d’inverno.

Oggi viviamo in una fase storica di grande incertezza e paura. Le incognite sulla riapertura delle scuole e sulla ripresa economica affliggono il mondo intero. Si riapre, si sperimenta, si richiude, si torna all’obbligo delle mascherine. Nessuno vuole rassegnarsi a questa situazione, si spera nel vaccino o nella sparizione del virus. Perché la speranza di un futuro diverso e migliore è uno dei fondamenti della nostra fede nella vita e non importa a quale credo o ideologia facciamo riferimento.

Così, da vecchio topo di biblioteca quale sono, mi rifugio nei libri, non ho risposte, ma molte domande. Non ho risposte ma ho la poesia, cioè un modo laterale di guardare al mondo e di andare al di là della superficie delle cose.

La città silenziosa vive di ritorni e riaperture, io parlo con il mio albero bellissimo e cerco nuovi segreti da raccontare. Tra poco tornerò nella terra delle Montagne della Nebbia, lì dove il tempo segue i miei capricci e l’estate continua. So che le sacerdotesse sono tornate e che Marguerite Duras è con loro, vado.

 

 

Questa Cronaca 174 è frutto di un’uggiosa e fertile giornata milanese. Le citazioni sono tratte da:


Sandra Petrignani, Marguerite, Neri Pozza 2014

 

Antonella Anedda, Il mondo fluttuante pubblicato sulla rivista online Doppiozero


venerdì 28 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/173: tutto scriveva nella casa quando scrivevo, la scrittura era ovunque

 


- Perché ti fermi a raccogliere pietre? David me lo chiedo e io mi blocco, colpevole e rea confessa.

- Perché mi piace la loro solidità, forse anche l’immutabilità. Mi piace pensare che nelle pietre resti traccia del tempo che è stato.

- Ma se tu le porti a casa non resterà altra traccia che la tua…

Mentre parliamo rimetto il sasso al suo posto e riprendiamo la discesa. Abbiamo trascorso la notte nello stesso rifugio della salita e la mattina presto qui è tutto avvolto nella bruma e pare di camminare in un sogno.

Ho delle piccole collezioni di sassi che avevo fatto per i miei nipotini: la famiglia dei sassi con l’occhio, la famiglia dei sassi castagna, la famiglia dei sassi con la striscia. Ho inventato storie, lucidato i sassi, conservato il piacere della ricerca in spiaggia, arrivano tutti dallo stesso luogo, insieme sono belli, mi piace guardarli, quando sarò molto vecchia li porterò alla spiaggia dove li ho raccolti e così qualcun altro potrà farne collezione. Ho anche altri sassi belli, dai colori e dalle forme particolari ma non ne scriverò qui, adesso.

Un sasso è parte di qualcosa che c’era e non è più, un frammento, un’immagine, un ricordo che non svanisce.

Mi piacciono i frammenti, le collezioni incomplete, le cose incompiute, le cose rovinate, la patina del tempo che dona alle cose quella dolcezza che l’essere nuovi non conosce.

Mentre cerco di argomentare le mie motivazioni poetiche e sentimentali che possano, almeno in parte, giustificare le mie collezioni che sono un’altra forma delle liste, siamo arrivati a valle e quando mi giro a guardare il nostro Monte Ventoso, mi stupisco di quanto la vetta sia lontana.

Il clima è cambiato anche quaggiù, il cielo è basso e grigio e folate decise di vento sono foriere di un temporale che si scatenerà prima di sera. Vado a passeggio sino al mare e passo a salutare le tre sorelle che sono in veranda a scrivere. Mi offrono un tè, mi raccontano delle loro ultime letture, in particolare dei racconti di Marguerite Duras a partire da L’uomo atlantico. Ho letto e riletto parecchi libri della Duras, ma non questi. Mi faccio prestare il libro e loro mi dicono che posso tenerlo, ne hanno altre due copie e, molto spesso, quando un libro interessa a tutte ne comprano tre per evitare di disputarselo e dopo averlo letto decidono se tenerle tutte e o se metterle nello scaffale dei libri belli da regalare. Mi dicono che questi Testi segreti tradotti dalla bravissima scrittrice Rosella Postorino, sono da tenere, quindi ne compreranno una copia nuova nei prossimi giorni.

Me ne torno verso casa soddisfatta del dono, della conversazione e della passeggiata. Visto il tempo, in giardino non c’è nessuno, così io pure mi rifugio nella mia stanza-studio e leggo la Duras, una scrittrice monumentale che amo moltissimo. Ma prima di iniziare queste storie che non conosco, vado a recuperare alcune sue citazioni.

 

“La solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora.

Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri. È una solitudine, la solitudine dell’autore, quella dello scritto. Tanto per cominciare, ti chiedi che cos’era quel silenzio intorno a te e praticamente a ogni passo che fai in una casa, a ogni ora del giorno, sotto tutte le luci, quella di fuori o quella delle lampade accese anche durante il giorno. La solitudine reale del corpo diventa quella, inviolabile, dello scritto.

Trovarsi in un buco, in fondo al buco, in una solitudine quasi totale e scoprire che soltanto la scrittura ci salverà. Essere senza alcun argomento di libro, senza alcuna idea di libro significa trovarsi, ritrovarsi, davanti a un libro. Un’immensità vuota, un libro eventuale. Davanti a niente. Davanti a una scrittura viva e spoglia, in un certo senso terribile, terribile da sormontare. Credo che la persona che scrive non abbia nessuna idea di libro, ha le mani vuote, la testa vuota e conosce dell’avventura del libro soltanto la scrittura asciutta e nuda, senza futuro, senza eco, remota, con le sue regole auree elementari: ortografia, senso.

Nella vita viene un momento, credo sia fatale, cui non si può sfuggire, in cui si mette tutto in dubbio: il matrimonio, gli amici, soprattutto gli amici della coppia. Non il figlio. Il figlio non è mai messo in dubbio. E il dubbio ci cresce intorno. Questo dubbio è solo, è il dubbio della solitudine, nato dalla solitudine. Si può già dire la parola. Credo che molti non potrebbero sopportare quello che dico, scapperebbero. Forse per questo ogni uomo non è uno scrittore. Ecco la differenza, ecco la verità, nient’altro. Il dubbio, è scrivere. Dunque è anche lo scrittore. E con lo scrittore tutti scrivono, lo si è sempre saputo.

Finché c’è il libro che esige di essere terminato, si scrive. Si è costretti a mettersi dalla sua parte. È impossibile buttare un libro per sempre prima che sia completamente scritto, vale a dire: solo e libero da te, che lo hai scritto. È intollerabile quanto un delitto. Non credo a quelli che dicono: “Ho strappato il manoscritto, l’ho gettato”. Non ci credo. O per gli altri non esisteva, ciò che era scritto, o non era un libro. Quando non è un libro, si sa, sempre. Quando non sarà mai un libro, no, non si sa. Mai.

Tutto scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque.

Scrivere comunque, nonostante la disperazione. No: con la disperazione. Quale disperazione, non so darle un nome. Scrivere senza imboccare subito la via che porta allo scritto è pur sempre lavorarlo. E tuttavia si deve accettare questo: lavorare lo “scarto” significa tornare indietro verso un altro libro, verso un altro possibile di quello stesso libro.

«Quando un libro è terminato, un libro che hai scritto, intendo, non puoi più dire, leggendolo, che è un libro che hai scritto, né quali cose vi siano state scritte, né con quale disperazione o quale felicità, quella di una trovata oppure di un fallimento di tutta te stessa. Perché, alla fine, nel libro non si può vedere niente di simile. La scrittura è in certo qual modo uniforme, placata. Non succede più niente in un libro terminato e distribuito. Esso raggiunge l’innocenza indecifrabile della sua venuta al mondo».

Esser soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta. Significa tentare di non morirne.

Non so che cos'è un libro. Nessuno lo sa, ma si sa quando ce n’è uno. E quando non c’è, si sa, come si sa che si è, non ancora morti”.

  

Sento le sue parole scorrermi lungo le vene, emergere sulla pelle delle braccia, raggiungere le mie mani e condurle verso la forma chiusa che occorre per scrivere.

Scendo a preparare un’altra tazza di tè, David è seduto accanto al camino che ha accesso, i lupi sonnecchiano, il vento fuori ulula ancora più forte, arrivano anche Alexandre e François, avvolti di salsedine e sabbia perché sono rimasti ore a camminare in riva al mare.

Ci salutiamo con calore, io torno nella mia stanza a scrivere. Domani arrivano Roxanne e Héloïse, avremo molto da raccontarci. Da qualche tempo non ho notizie del re e della regina e della poetessa. Ma David mi rassicura e mi dice che sono tutti affaccendati e che domani saranno a casa con noi.

Scrivere è vivere sempre nell’attesa di un sogno, di un ritorno o di una rivelazione. Apro il taccuino e scelgo le prime parole: “Perché ti fermi a raccogliere pietre?”.

 

Questa Cronaca 173 è stata scritta nel ventottesimo giorno dell’anno senza Carnevale. Al tavolo della mia immaginazione è arrivata anche Marguerite Duras, si fermerà qualche tempo e poi raggiungerà Borges e Yourcenar nella Biblioteca di Babele.

Il suo libro Scrivere, è stato tradotto da Leonella Prato Caruso, Feltrinelli 1994.

giovedì 27 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/172: un pensiero che dai luoghi mi porta ai tempi


 

Siamo creature della terra e lo sappiamo. Ma non riusciamo a sfuggire al richiamo dell’aria che avvolge le cime più alte, né tanto meno al richiamo del mare e delle sue profondità, e che dire delle stelle e della loro vicinanza alle creature celesti che accompagnano le nostre vite quaggiù?

Cammino, salgo, mi inerpico e mi arrampico, seguendo le orme di chi prima di me, di noi, ha sentito l’urgenza di arrivare in cima a un monte dove sentirsi accanto all’Eterno e alle sue infinite possibilità.

I rumori sono rarefatti vicino a questa cima facile, da principianti. David mi spiega che è la prima delle Montagne della Nebbia e che l’ha chiamata da subito Monte Ventoso perché pare che qui il vento abbia una fissa dimora e dai rami di alberi antichi più della nostra memoria, scende a valle come un lupo a scompigliare ogni cosa.

Dalla mia bisaccia estraggo il libro che avevo scelto pensando proprio al Monte Ventoso. David dice di avermi vista mentre lo leggevo qualche tempo fa e di avere deciso proprio per questo di portarmi a passeggiare sin quassù.

Così ci sediamo sui massi e io leggo la lettera di Petrarca a Dionigi scandendo bene le parole:


“Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi.

(…)

Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo.

(…)

Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava.

(…)

Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere: «Ciò che hai tante volte provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo sono invisibili ed occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio. Tutti vogliono giungervi, ma come dice Ovidio, «volere è poco; occorre volere con ardore per raggiungere lo scopo». Tu certo, se non ti sbagli anche in questo come in tante altre cose, non solo vuoi, ma vuoi con ardore. Cosa dunque ti trattiene?

(…)

C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il «Figliuolo»; perché non so dirti; se non fosse per antifrasi, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo letto ed udito di essi. Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma rompendone, come dicono, le rocce con l’aceto, mi parvero, pur così lontane, vicine.

(…)

Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava. I Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola debolezza della nostra vista; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte, lontani alcuni giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato, io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi».

(…)”

 

Molti anni fa sono salita sul Monte Ventoso in Francia - ne ho raccontato nella Cronaca 110: la luce nell’aria e tutto intorno a me – e questa nuova ascesa mi riportava alla mente la mia esperienza e quella di Petrarca ed ero contenta di poterne parlare con David. Che era salito sul Mont Ventoux con in tasca le lettere di Petrarca e le Confessioni di Agostino.

Dopo un po’ smettiamo di parlare e guardiamo il panorama dove si confondono le vallate francesi con il nostro Altipiano della Luna. Non siamo solo noi seduti su questi massi, le ombre di Agostino e Petrarca si stagliano sulle pietre. Perché ogni qual volta leggiamo un autore che appartiene a un altro tempo, cioè a uno spazio dove noi non potremo mai andare, ecco che il suo spirito può staccarsi da quel luogo e venire a noi attraverso le parole che stiamo leggendo.

È questo senso di vicinanza che ci fa comprendere l’appartenenza alla nostra lingua e a una tradizione, un paesaggio.

E se siamo molto fortunati, allora le ombre torneranno a popolare questo luogo e questo spazio, il nostro.

E il tempo non sarà che, di nuovo, quel bambino distratto, che si incanta ad ascoltare le storie, così che noi riusciamo ad aggirarlo e ad attraversarlo a nostro piacimento.

La discesa sarà lunga, mi alzo e porgo la mano a David. Scendiamo ciascuno con due ombre, non so fino a quando, ma è una compagnia piacevole in questo giorno che declina.

 

 

Questa Cronaca 172 è stata scritta il ventisettesimo giorno di agosto dell’anno senza Carnevale.

La lettera di Petrarca a Dionigi da San Sepolcro, nota come Ascesa al Monte Ventoso, fa parte delle sue lettere ed è disponibile su diversi siti. Il titolo della Cronaca è una citazione da una parte della lettera che non ho trascritto.

mercoledì 26 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/171: nella cattedrale dove le colonne sono d’aria e il tempo è un bambino distratto

 


Ogni giorno ci sono cose interessantissime da fare, cose molto più interessanti della scrittura.

Lo annuncio ogni mattina come se la mia affermazione fosse una scoperta capitale e in casa annuiscono tutti mentre stanno già scrivendo.

Io no, prima devo passare in rassegna tutto il mondo che ho intorno, esplorare il giardino, scendere fino al mare, fare il bagno, guardare l’isola che emerge dalle acque, contare le onde, salutare i delfini, raccogliere una conchiglia.

La vertigine delle liste mi assale sempre, comincio a elencare tutte le cose belle che vedo, quelle che ho visto ieri. Nessuna lista finisce prima di avere evocato qualcosa di molto simile che ho già visto in passato o che mi è accaduto o che ho incontrato.

Mondo, mondo che mi chiami, non chiamarmi a voce troppo alta che devo scrivere!

Quando mi siedo al mio tavolo da lavoro, sfoglio sempre qualche libro, apro a caso i volumi di poesia, annoto qualche parola. Tanto so che poi i versi arriveranno, che le frasi non tarderanno a comporsi nella mia mente.

È molto difficile osservare se stessi dall’esterno, molto più facile costruire cattedrali con colonne fatte d’aria e un bambino distratto che ci corre intorno e mentre lo fa, capisco che è il tempo che si sta prendendo gioco di me.

Così gli propongo l’ennesimo scambio, so che solo l’apparenza è infantile, che sembra un bambino perché non vuole impaurirci. È come se avesse bevuto alla fonte dell’eterna giovinezza, come se fosse padrone del mondo.

 

 

La materia del tempo che non conosco

 

Il tempo è il signore di un castello

costruito sulle nuvole, intorno

volano le rondini della tua immaginazione,

le fondamenta sono radici che affondano

nel tuo sguardo e io cerco come entrare

perché voglio conoscerti meglio.” Ti darò

la chiave”, mi dici nel sogno e mi porgi

un foglio dove hai scritto una poesia che

poi mi leggi e io mi stupisco, perché

tu mi conosci come il marinaio la barca

che ha costruito, perché conosceva

il legno e prima ancora l’albero.

Il tempo è re del vento, soffia su ogni

creatura vivente e sulle creature di

pietra che accompagnano il viandante.

Mi accomodo nella sua bisaccia e vado

con lui, sono tranquilla. Scoprirò il suo

segreto? Te lo chiedo e tu mi sorridi

mentre apri la porta della tua casa.

 

 

Ogni Cronaca che scrivo è una sfida alla durata e alla memoria, al senso e all’immaginazione.

David annuisce, sa di cosa sto parlando.

Così possiamo continuare la nostra ascesa verso le Montagne della Nebbia.

Quassù si sentono solo i lupi che ululano alla luna e il nostro respiro che il tempo contende alla vita terrestre. Le stelle ci soccorrono, conoscono i suoi trucchi, ci sussurrano all’orecchio cosa è meglio fare. Le ascolteremo? Cosa ne sanno le stelle dall’alto della loro vita celeste di noi creature che neanche sappiamo volare? Ridono ora le stelle, perché sono nate il primo giorno della creazione e già sapevano che ci saremmo incontrati.

 

 

Questa Cronaca 171 è stata scritta il 26 agosto dell’anno senza Carnevale. La poesia è mia, scritta in parte in sogno, in parte in veglia.

martedì 25 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/170: un giorno profumato di basilico e limone

 

Alcuni giorni assomigliano alla seta, sono lucidi, morbidi, leggeri. Questo giorno è proprio così, è iniziato poco dopo l’alba e si è espanso per la casa seguendo la luce del sole. Tutto si è illuminato per il tempo necessario a che io potessi riconoscere oggetto dopo oggetto e dirgli “Buongiorno!”. A metà mattina mi ha cercato mio fratello Alessandro per prendere un caffè insieme, così ho lasciato per qualche ora le terre ai piedi delle Montagne della Nebbia e sono tornata nella città silenziosa. La luce era morbida e setosa come nel mio regno immaginario, era piacevole stare seduti a chiacchierare accarezzati da un vento leggero, lì e altrove nello stesso momento e godere del piacere della reciproca compagnia. Il giorno di seta è proseguito alla ricerca di un nuovo libro da leggere, cioè da aggiungere alla pila di libri in lettura che tengo accanto al letto. Dalle imposte accostate, dopo mezzogiorno, filtrava quella luce che tanto amo e che invita a guardarla danzare sul soffitto dopo che ha attraversato l’aria e le tende. Il bello di un giorno di vacanza è anche questo potersene stare naso all’insù e non avere altro che pensieri morbidi.

Ci sono poi altri giorni che sono di lino, un po’ ruvido, chiaro e fresco. Il lino appartiene all’estate, ai racconti di viaggio, a Hemingway perso tra Parigi e l’Havana, al desiderio di fuga e di vagabondaggio, alla nostalgia di un mondo che era troppo grande per stare tutto in un cuore solo. I giorni di lino non sono lucidi come quelli di seta, ma hanno senso pratico, progetti e ventilatori accesi per poter scrivere senza soccombere al caldo. Sono giorni che iniziano su una spiaggia greca e finiscono in una piazza di Barcellona, sono giorni vagabondi, accompagnati da zaini e bisacce, da una macchina da scrivere portatile. Vestiti di lino non si può stare chiusi in casa, l’unico lino casalingo ammesso è quello della lenzuola che invitano al riposo e all’ozio.

I giorni di cotone sono anch’essi giorni estivi, sono giorni ordinari, delle cose che vanno fatte, del lavoro che aspetta, dei libri da spolverare e non solo sfogliare, della cucina da riordinare, della spesa per rimpinguare un po’ il mio frigorifero, della lunga passeggiata in via Washington per andare e tornare dall’Esselunga ed ecco che tra i palazzi antichi sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale e gli alberi i cui rami nascondono portoni e finestre, ho sempre l’impressione di stare camminando per Parigi, mi sento spaesata e in attesa, come se a ogni incrocio dovesse accadere qualcosa di imprevisto e speciale. Al ritorno la casa è fresca, profuma di limone e basilico, le tende, anch’esse di cotone, svolazzano con questo venticello e la frenesia del fare si placa nella lettura di qualche rivista.

Mentre il lino è uguale a se stesso, seta e cotone si possono declinare in altri tessuti più leggeri o più pesanti dai nomi che evocano altre epoche e mani febbrili prese dalla tessitura: tulle, georgette, crepe, chiffon, organza, mussola, shantung e taffetà. La mia passione per le liste gongola ogni qual volta riesco a farne una. Ogni nome porta con sé un’esperienza tattile, un ricordo preciso delle prime volte in cui mia madre ha iniziato a insegnarmi a riconoscere le stoffe e il miglior uso che se ne poteva fare.

Così sono i giorni, all’apparenza uguali, ma come non c’è mai una stoffa uguale a un’altra – un rotolo, una pezza – così i giorni si assomigliano ma la loro grana e il colore non sono mai uguali tra loro.

Questo è un giorno di seta che per la sera diventa ancora più leggero e trasparente, con questo abito appena cucito vado a passeggiare in spiaggia, a guardare i delfini che giocano poco lontano dalla riva.

A casa oleandri e rose si disputano il privilegio di diventare puro colore e affondare nel mastello dove una pezza di organza è raggomitolata a pensare cosa diventerà domani.

È un pensiero puro quello rivolto al domani, è fiducia nella vita che, nonostante tutto, si rinnova e respira e noi stiamo nel vento e nel profumo del giardino.

Basta così poco a spezzare il fragile equilibrio dei giorni, l’inaspettato non si nasconde solo agli incroci, ma la gioia lo contrasta e ci dà la forza di continuare.


Questa Cronaca 170, una delle poche non intessute di poesia, è stata scritta nel venticinquesimo giorno di agosto dell’anno senza Carnevale, un giorno di luce morbida e di venticello.


lunedì 24 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/169: la visione è un’aratura azzurra nel campo della tua immaginazione

 

Riprendiamo i fili del giorno prima di questo, riprendiamo le parole e le immagini di Philippe Jaccottet:


“Rivedevo paesaggi di messi in pieno sole; e non bastava; non bisognava temere di lasciar agire il lievito della metamorfosi. Ogni spiga diventava così uno strumento d’ottone, l’intero campo un’orchestra di paglia e di polvere d’oro; ne sgorgava un lampo sonoro che avrei voluto dapprima chiamare un incendio, e poi no: non poteva essere furioso, devastante, e nemmeno selvaggio. (Neppure mi venivano in mente immagini di piacere o voluttà.) Cercavo di capire ancora meglio quella parola che, si sarebbe quasi potuto dire, giungeva sino a me da una lingua straniera, o morta): la rotondità del frutto, l’oro del grano, il giubilo di un’orchestra d’ottoni, c’era qualcosa di vero in tutto questo; ma mancava l’essenziale: la pienezza, e non solo la pienezza (che ha qualcosa di immobile, di chiuso, d’eterno), ma il ricordo o il sogno di uno spazio che, benché pieno, benché completo, non smettesse, tranquillamente, sovranamente di allargarsi, di aprirsi, simile a un tempio le cui colonne (che non sostengono ormai che l’aria, come in certe rovine) si allontanassero all’infinito l’una dall’altra, senza peraltro spezzare i loro invisibili legami; o al carro d’Elia le cui ruote si ingigantissero, adattandosi alla misura delle galassie, senza spaccare l’assale”. (continua)

 

Siamo andati a camminare accanto ai nostri campi dove le messi sono state mietute in giugno e ora le stoppie bruciate stanno per essere rivoltate nella terra che sarà pronta per una nuova semina.

Accade sempre così alla fine di agosto, il tempo accelera e la luce gronda oro già nella tarda mattinata.

Bisogna prepararsi all’avvento della nuova stagione? Sì, certo ma non ancora, non oggi. Mi ribello alla dolcezza dell’autunno incipiente e propongo di andare in spiaggia. Così ritorniamo sui nostri passi, ma poi in spiaggia non ha voglia di venirci nessuno perché è già ora di pranzo. Vado da sola, mi piace stare in spiaggia quando non c’è nessuno, fare il bagno quando l’acqua è calma e nessun altro sta facendo il bagno.

Al mio ritorno David il poeta mi propone di riprendere il sentiero per avvicinarci alle Montagne della Nebbia. Ci avviamo di nuovo in compagnia di Jaccottet:

 

Ora saliamo per sentieri di montagna,

in mezzo a prati come giacigli di strame

da cui mandrie di nubi si fossero appena rialzate

sotto il bastone del vento.

Si direbbe che forme vaste camminino nel cielo.

 

La luce acquista forza, lo spazio si accresce,

le montagne somigliano sempre meno a dei muri,

risplendono, crescono anch’esse,

i portieri maestosi vagano sopra di noi –

e la parola che traccia, lenta, la poiana,

in alto, se l’aria la sfa, non è poi quella

che pensavamo di non più poter udire?

 

Siamo giunti oltre cosa?

Una visione, pari a un’azzurra aratura?


Conserveremo per più di un istante, sopra la spalla,

l’impronta di questa mano?

 

Impronte dei nostri passi sono rimaste sul sentiero. In basso vediamo la nostra casa e il giardino, le montagne sono appena più vicine. Non arriveremo prima del tramonto, cosa sarà meglio fare?

- Vieni, mi dice David, conosco un rifugio dove possiamo passare la notte. Nello zaino ho portato pane e formaggio, più avanti troveremo cespugli di more e una fonte di acqua purissima.

- Così è qui che vieni a nasconderti quando sparisci per giorni?

- Tu hai la tua isola, io il mio rifugio, non siamo poi così diversi, non pensi?

Riprendiamo a camminare in silenzio, mi accorgo che i lupi sono dietro di noi e intorno solo l’aria, il vento.

 

Questa Cronaca 169 è stata scritta il ventiquattresimo giorno del mese di agosto.


La prosa e la poesia sono di Philippe Jaccottet, tratte da Alla luce dell’inverno. Pensieri sotto le nuvole, traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos 1993.

 

 

 

 

 

Je revoyais les paysages de moissons en plein soleil; ce n'était pas assez; il ne fallait pas avoir peur de laisser agir le levain de la métamorphose. Chaque épi devenait un instrument de cuivre, le champ un orchestre de paille et de poussière dorée; il en jaillissait un éclat sonore que j'aurais voulu dire d'abord un incendie, mais non : ce ne pouvait être furieux, dévorant, ni même sauvage. ( Il ne me venait pas non plus à l'esprit d'images de plaisir, de volupté.) J'essayais mieux encore d'entendre ce mot (dont on aurait presque dit qu'il me venait d'une langue étrangère, ou morte) : la rondeur du fruit, l'or des blés, la jubilation d'un orchestre de cuivres, il y avait du vrai dans tout cela; mais il manquait l'essentiel : la plénitude, et pas seulement la plénitude (qui a quelque chose d'immobile, de clos, d'éternel), mais le souvenir ou le rêve d'un espace qui, bien que plein, bien que complet, ne cesserait, tranquillement, souverainement, de s'élargir, de s'ouvrir, à l'image d'un temple donts les colonnes (ne portant plus que l'air ainsi qu'on le voit aux ruines) s'écarteraient à l'infini les unes des autres sans rompre leurs invisibles liens; ou du char d'Elie dont les roues grandiraient à la mesure des galaxies sans que leur essieu casse.

 

 

 

Maintenant nous montons dans ces chemins de montagne,

parmi les prés pareils à des litières

d’où le bétail des nuages viendrait de se relever

sous le bâton du vent.

On dirait que de grandes formes marchent dans le ciel.

 

La lumière se fortifie, l’espace croît,

les montagnes ressemblent de moins en moins à des murs,

elles rayonnent, elles croissent elles aussi,

les grands portiers circulent au-dessus de nous –

et le mot que la buse trace lentement, très haut,

si l’air l’efface, n’est-ce pas celui que nous pensions

ne plus pouvoir entendre?

 

Qu’avons-nous franchi là?

Une vision, pareille à un labour bleu?

 

Garderons-nous l’empreinte à l’épaule, plus d’un instant,

de cette main?