C’era un tempo in cui i
poeti davano parola a se stessi, in altri tempi i poeti davano parola al mondo
e in altri ancora davano parola all'umanità, alle stelle o al silenzio.
La parola poetica è la
parola detta, quella che resta incisa nella lingua e nella gola, che non
abbandona più chi l’ha scritta prima e chi l’ha pronunciata dopo.
La solida permanenza
della parola pronunciata si disperde però nelle parole di Osip Mandel'štam
quando scrive che “l'aria
del poema è l'inaspettato”.
Aria e inaspettato sono
le due parole chiave di questa enunciazione il cui ponte è costituito dalla
parola “poema”.
Mandel'štam è poeta - dei
poeti e della poesia bisogna parlare al presente, perché a ogni lettura avviene
la resurrezione di chi scrive e l’incarnazione di una parola che resta – dalle
metafore ardite, come scrive Angelo Maria Ripellino:
“accostando in misture inattese opposti campi semantici,
rendendo tangibili con virtuosistici intarsi di abbaglianti similitudini e
suoni, gli odori, le «meraviglie» dei versi altrui, dei paesaggi, di eventi
lontani e dell’ambiente giudaico della sua infanzia. Per cogliere l’identità
delle cose distanti, egli tende la vista «come un guanto di pelle di daino» (e
riesce così a percepire e ad immettere nella densissima sigla d’una metafora
tutto quello che sta fuori campo, attorno al punto focale, il contiguo), quasi
il suo sguardo, asimmetrico come gli occhi di certi pesci, potesse
simultaneamente imbricare differenti assi ottici”.
Padroneggiare le metafore è il primo segno distintivo
dei poeti-lupo, quelli che attraversano la tempesta e il bosco, la bufera di
neve e la notte più scura.
Fabio Pusterla scrive di Mandel'štam nel libro Il nervo di
Arnold:
“Lo stlanik
- cioè il pino siberiano – (…) può rappresentare
la
forza e la fragilità, la
pacifica
caparbietà della
parola poetica? Me
lo
auguro.
Tanto
più
che, in
mezzo ai boschi dove cresce
lo
stlanik, è passato davvero,
molti
anni
fa,
un
grande
poeta, Osip
Mandel'štam,
sulla via della
deportazione
che l’avrebbe
condotto
alla
morte; e allora
quando
penso allo stlanik
a me viene subito in
mente la figura
di
un altro
poeta,
Philippe
Jaccottet,
che
una volta
a
Francoforte,
leggendo appunto
le
sue
traduzioni
francesi
di alcune
poesie di Mandel'štam,
si è alzato in piedi (lui,
di solito così timido e
riservato), e con voce più
alta
del normale
ha detto che i
versi
di Mandel'štam sembrano dirci, ancora oggi: «In piedi,
alziamoci in
piedi!
Anche
nei
momenti
peggiori,
anche
nelle
peggiori
condizioni:
su, in
piedi,
camminiamo!»
Camminano, dunque, i
poeti-lupo e scrivono e le loro poesie fioriscono anche in mezzo alle
intemperie e alle avversità, forse se ne nutrono e fanno risplendere l’universo
di metafore.
Lo stesso Mandel'štam scrive
nelle sue Conversazioni su Dante:
“Quando pronunciamo, ad
esempio, la parola “sole, non liberiamo un significato bell'e pronto, ma
passiamo attraverso un ciclo tutto particolare. Ogni parola è un fascio di
significati, e un significato affiora da esso per irradiarsi in varie
direzioni, senza mai convergere in un solo punto ufficiale. Pronunciando
"sole", noi compiamo una sorta di enorme tragitto a cui siamo
talmente abituati che viaggiamo immersi nel sonno. La poesia si distingue
dal linguaggio automatico proprio in quanto ci sveglia e ci riscuote nel bel
mezzo della parola.
Questa
risulta allora molto più lunga di quanto pensassimo, e ci rammentiamo che
parlare significa essere sempre in cammino”.
Ma il cammino dei poeti-lupo
non si dispiega solo nel fango e nella neve. Spesso devono attraversare campi
di stelle e strade di sillabe.
Come collegare tutte le
lettere dell’alfabeto, tutte le sillabe, tutte le metafore e similitudini in un
Oceano di senso?
Come fanno le stelle a
parlare tra loro se hanno solo la luce e lo spazio per comunicare?
I lupi si sono seduti
accanto a me mentre rileggo queste riflessioni scritte a mano.
Sembra che capiscano,
hanno capito, conoscono la parola lupo in tutte le lingue, la abbinano alla
parola poeta, alla parola stella, alla parola oceano.
I fili invisibili della
poesia si annodano a quelli della comprensione.
Andiamo! Li esorto,
andiamo a camminare in questo tramonto di nuvole e pensiero.
Conteremo la nuova
notte ferita di nostalgie, declineremo una poesia nella lingua dei lupi, li
lasceremo ululare e poi, a bassa voce, renderemo omaggio al nostro poeta.
La stessa rosa
Come acqua oscura bevo la torbida aria,
il vomere ha arato il tempo e la rosa
fu già terra.
Osìp Mandel’stam
Se la rosa fu già
terra
e dall’aria torbida,
dal sole
rinato alla terra
ritornerà,
da quale inchiostro,
da quale
carta nacquero quelle
parole
così amate?
Come il legno genera
fumo e
cenere dopo la fiamma,
così questa attesa
divampa
nel nuovo inverno che
batte
alla mia porta: imita
il tuo
passo e scioglie il
gelo che
assedia la mia fiamma
e
la stessa rosa.
Elena Petrassi
Figure del silenzio
Atì editore 2010
Elena Petrassi
Figure del silenzio
Atì editore 2010
1 commento:
Anche io sto rileggendo Mandel'stam, e proprio quei passaggi che hai citato. Grazie, vanno al centro di una poesia possibile, oggi di nuovo.
Lo dice anche la tua, di poesia. Buon primo maggio
Posta un commento