martedì 14 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/37: di ogni istante la mente s’innamora


Non ci importa sapere se la mente è un prodotto del cervello, come ci insegnano i neuroscienziati, non ci importa se mondo e coscienza siano in realtà un’unica cosa come ipotizza il filosofo e psicologo Riccardo Manzotti, né se davvero Proust fosse un neuroscienziato come dichiarava il titolo di un bellissimo libro di Jonah Lehrer, raffinato giornalista scientifico caduto in disgrazia per essersi inventato un’intervista con Bob Dylan, non ci interessa qui confutare l’errore di Cartesio, dove mente e corpo sono irrimediabilmente scissi e dove sul tema Antonio Damasio ha scritto un bellissimo libro. O meglio mi interessano da morire tutti questi temi, ma oggi voglio riferirmi alla mente nella sua dimensione poetica e creativa, nient’altro.

La mente si innamora di ogni istante ha scritto Attilio Bertolucci ed è proprio così. Alla mente del poeta non sfugge nulla, è come se fosse un setaccio, una calamita, un oceano profondissimo quando cattura il mondo che noi percepiamo al di fuori di noi.

La direzione contraria, quelle parole che arrivano da un altrove sconosciuto, è l’altra faccia della mente innamorata, è il canto delle Muse che scelgono il loro cantore senza prima spiegare le regole.

La mente poetica conosce già quelle regole, è stata conformata dalla lettura folle, è stata cesellata dalla scrittura nel deserto, ha vissuto con il proprio corpo tutto quelle esperienze che l’anno scolpita, ha percepito il mondo e lo ha inglobato e se non lo ha riconosciuto lo ha ricreato.

Virginia Woolf, in una bella recensione ai diari di Katherine Mansfield, contenuta nella raccolta Voltando pagina, coglie lo spettacolo di una mente sensibile:
“Nel suo diario non interessa la qualità della sua scrittura o l’ampiezza della sua fama, ma lo spettacolo di una mente – una mente terribilmente sensibile – che recepisce e registra una dopo l’altra tutte le impressioni casuali e disparate di otto anni di vita. Per la Mansfield il diario era un compagno, qualcuno con cui aveva un rapporto di tipo mistico. «Vieni amico mio invisibile, sconosciuto» dice nell'iniziare un nuovo volume. In esso annotava dei fatti: il tempo, un impegno preso; descriveva brevi scene; analizzava il suo stesso carattere; descriveva un piccione, o un sogno, o una conversazione. Niente avrebbe potuto essere più frammentario; niente più intimo. Sentiamo, leggendolo, che stiamo osservando una mente sola con se stessa; una mente che così poco pensa a un pubblico da usare un tipo di scrittura stenografica di sua invenzione e che, come è incline a fare la mente quando si chiude nella sua solitudine, si divide in due e conversa con se stessa. Katherine Mansfield parla di Katherine Mansfield”.

Per questi motivi i racconti della Mansfield ci toccano e sconquassano come uragani anche a cento anni dalla loro scrittura, per l’abilità di quella mente luminosa che in poche stagioni ha condensato tutta la bellezza, durezza e crudeltà del mondo.

Nel Catalogo della gioia Antonella Anedda annota:
“1.
Il senso vivo dell’arte e della poesia, il significato che non
può che essere vivo, stanno nel rimando, nel cortocircuito,
nel punto d’incrocio, nella visione tanto precisa quanto
imprevista e imprevedibile. Il quotidiano con la sua
modestia è anche l’unica realtà forte capace di sostenere la
rete di simboli che attraversano la mente, l’unica realtà
capace di dare radice a ciò che altrimenti sarebbe vacuo
riferimento senza sostanza. E qui la sostanza è nel continuo
rovesciamento delle parti tra l’elaborazione storico-formale 
e l’annotazione, l’appunto, l’istantanea”.

Sia con Anedda che con Mansfield torniamo all’intuizione di Bertolucci, della capacità della mente di innamorarsi di ogni istante come condizione necessaria allo sgorgare della poesia e della scrittura.

Una conversazione notturna su Facebook con Anna Simone mi ha indotta a chiedermi perché la mente cerchi rifugio nei film e nelle serie tv anziché nella lettura, tanti lettori forti stanno raccontando delle difficoltà che provano in questa fase. Forse perché la funzione immaginativa della mente è meno sollecitata guardando film e serie tv, mentre sono iper-sollecitati i neuroni specchio. Leggendo, l’immaginazione galoppa e produce i nostri scenari e paesaggi mentali quindi è più facile distrarsi dalla trama e trovare un altrove rassicurante. (Comunque sia, viva i film e le serie tv. Ho appena visto Martin Eden e la serie Netflix Unhortodox, entrambe storie della lotta dell’individuo creativo contro la società dominante).

La mente creativa dell’individuo cerca sempre di sfuggire ai luoghi comuni, alle bugie consolatorie e crea un mondo alternativo dove poter vivere e respirare.

Così spiega questa dimensione la scrittrice Anaïs Nin, caduta nel dimenticatoio come tanti e tante altri autori e autrici del passato, nella sua raccolta di saggi La mistica del sesso:

“Perché si scrive è una domanda a cui posso rispondere facilmente, dato che me lo sono chiesto così spesso. Penso che un autore scriva perché ha bisogno di creare un mondo in cui poter vivere. Io non potrei mai vivere in nessuno dei mondi che mi sono stati offerti: il mondo dei miei genitori, il mondo della guerra, il mondo della politica. Dovevo crearne uno tutto mio, come un luogo, una regione, un'atmosfera in cui poter respirare, regnare e ricrearmi quando ero spossata dalla vita. Questa, credo, è la ragione di ogni opera d'arte. L'artista è l'unico a sapere che il mondo è una creazione individuale, che c'è una scelta da fare, una selezione. É una materializzazione, un'incarnazione del suo mondo inferiore. Quindi spera di attirarvi altri. Spera di riuscire a imporre il suo modo di vedere le cose e di poterlo condividere con altri. E quando non riesce a raggiungere questa seconda fase, l'artista continua tuttavia coraggiosamente a tentare. Pochi momenti di comunicazione con il mondo valgono la pena, perché è un mondo per altri, un'eredità per altri, un dono. Ma scriviamo anche per accrescere la nostra consapevolezza della vita. Scriviamo per lusingare e incantare e consolare altri. Scriviamo per fare “serenata ai nostri amanti. Scriviamo per gustare la vita due volte, nell'istante presente e nel ricordo. Scriviamo, come Proust, per rendere tutto eterno, e per convincere noi stessi che è eterno. Scriviamo per poter trascendere la nostra vita, per arrivare al di là di essa. Scriviamo per insegnare a noi stessi a parlare con gli altri, per testimoniare il viaggio nel labirinto. Scriviamo per ampliare il nostro mondo quando ci sentiamo soffocati, o limitati, o soli. Scriviamo come gli uccelli cantano, come il selvaggio danza i suoi rituali. Se nella scrittura non respiri, se non piangi, se non canti, allora non scrivere, perché la nostra cultura non contempla alcuna utilità per la scrittura. Quando non scrivo, sento che il mio mondo si restringe. É come se fossi in prigione. Sento che ho perso il mio fuoco e il mio colore. Deve essere una necessità, come il mare ha bisogno di incresparsi, e io questo lo chiamo respirare”.

La mente innamorata dell’istante deve poi scriverne in forma poetica o narrativa.

Mi congedo con una mia poesia questa sera, dove non sono più così sicura che la mente possa riposare nelle storie soltanto e non nella poesia.


La mente riposa nelle storie
prima la luce, poi il suono
per questo preferisco la poesia
alla narrazione. Amo quella
velocità particolare che ti
attraversa la lingua e
il battito e giunge nel
fondo dell’orecchio.
Solo quando la stanchezza
di troppo tempo sulle mani
prevale, lascio che la mente
riposi nelle storie.

Elena Petrassi
Scrivere il vento

Ati editore 2016

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