sabato 4 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/27: conoscersi è luce improvvisa


Caterina aprì la finestra, ci pensava da tanti giorni ormai, ed era venuto il momento. Le rondini non erano ancora arrivate, la stagione era indietro ma le gemme già stavano lasciando spazio alle nuove foglie. 

La giornata era luminosa e fredda, perfetta per uscire da quell'isolamento che non aveva scelto. Le visioni si erano moltiplicate, si erano fatte pressanti, la facevano incantare durante il giorno e svegliare di soprassalto nel cuore della notte. Succedeva così anche quando era bambina, poi la disciplina imparata a scuola, lo studio accanito, i libri letti come se ognuno potesse essere una porta verso quel regno cui anelava, avevano ricondotto le visioni ai sogni notturni e alla poesia. 

Quando scriveva poesie sapeva che il confine tra i regni delle ombre e della luce si confondevano, che anche quelli del passato e del futuro vivevano nell’attimo presente, sapeva che la lingua sconosciuta della poesia avrebbe sbriciolato quei poveri confini e avrebbe cesellato ogni forma, dipinto ogni immagine, suonato ogni musica e creato le metafore che avrebbero detto la verità che ciascuno poteva sentire imprigionata nel fondo del cuore.

Mentre pensava alla fatica di tutte le immagini che non trovavano spazio nel mondo che chiamiamo realtà, si era seduta sul davanzale e aveva lasciato scivolare le gambe oltre il cornicione. Non soffriva di vertigini, nessuno passava da quella strada da molti, molti giorni ormai, il cuore le batteva, ma doveva farlo, tolse il maglione, l’aria frizzante la fece rabbrividire, si chiese se sarebbe stato meglio saltare o scivolare, scivolò. Presto la linea dell’orizzonte scese, l’asfalto si fece più vicino ma prima che i piedi potessero toccare il suolo, le ali si dispiegarono e furono colpite dal vento e dai raggi di sole. Con un colpo di reni soltanto superò la cima degli aceri che popolavano la sua strada. Le ali ancora un po’ incerte le fecero ricordare le due farfalle blu che aveva sognato e che erano cadute in una fontana, aveva cercato di salvarle ma solo una era sopravvissuta. Aveva aspettato a lungo che la compagna annegata si riprendesse, ma poi aveva seguito la propria natura ed era tornata a cercare i fiori gialli che si intravedevano dall’altro lato della strada. 

Si girò a guardare le sue stesse ali, erano lucenti, simili a carta di riso, sembravano fragili ma erano forti come la più vigorosa delle querce. 

La casa era ormai solo un tetto circondato da altri tetti, la città, che aveva visto nella nuda bellezza dovuta all’assenza degli umani, era ancora più bella di quanto si potesse apprezzare dal volo dei droni.

Il volo si stabilì a un’altezza che le permetteva di sbirciare di tanto in tanto nelle case degli altri. Immancabilmente, come quando viaggiava in treno e si chiedeva chi fossero e come vivessero le persone che abitavano a ridosso dei binari.

Poteva scegliere di compiere la strada più breve, ma così non avrebbe avuto i doni da portare nel luogo dove stava andando, perché non voleva arrivare a mani vuote. La giornata era ancora lunga e il volo veloce, il lungo viaggio era iniziato.

Raccolse delle pietre d’alba in riva al mare a Sestri Levante e a Camogli, le ripose nella sacca che aveva legato alla cintura dove già c’era una foglia dell’albero bellissimo che ombreggiava le sue finestre. Raccolse neve fresca sulla cima del Monte Bianco e il Mistral provenzale che al suo tocco si era raggomitolato come un gatto tra le sue mani. Chiamò a raccolta le nuvole e ne scelse di molte forme e colori. Altri venti arrivarono a reclamare il proprio spazio e uno in particolare, aveva anticipato il suo arrivo spegnendo l’ultima sigaretta e raffreddando il caffè su una scrivania dove ancora non si era mai seduta. La pioggia rimbalzava sull'asfalto di Parigi e non fu difficile catturarla, ne prese anche dai verdi prati d’Irlanda e le nuvole fecero spazio alle gocce esauste e ognuno stava al suo posto e presto un canto si levò da quegli elementi che ruotavano intatti ognuno nel proprio tempo e nel proprio spazio.

Il canto vibrava nelle sfere celesti e attrasse il silenzio che ancora non aveva evocato. Non il silenzio delle voci umani, non quella voce di tutto ciò che umano non è, ma il silenzio originale, quello che conteneva tutti i silenzi e lasciava alla poesia la possibilità di infrangerlo e farne parola.

Tornò a cercare la terra fertile che aveva nutrito le generazioni dei suoi avi, terra ai piedi dei mandorli in fiore e agli ulivi, terra secca da arare. Terra più grassa e ubertosa ai piedi delle querce e dei fichi, là dove i bambini giocavano ancora a rincorrersi nelle lame di luce di quelle estati ormai estinte.

Mancava soltanto il fuoco, ne prese dal focolare dove la nonna cucinava anche d’estate, ne prese dal forno dove cuoceva il pane. Ne prese dal focolare di sua madre insieme a qualche scampolo di tessuto, ripose nella sacca un libro di poesie di uno dei poeti più amati. 

Ma il fuoco domestico non bastava, si avventurò là dove infuriava una tempesta e chiese al fulmine gentile di cedere al suo richiamo e anche il fulmine la seguì docile, chiese soltanto di poterle cingere la vita per proteggere la sacca misteriosa e i doni che conteneva.

Ora la meta era vicina, intravide prima la città, poi il tetto, la casa, il giardino e i gatti che dormivano al sole.

Lui era seduto alla sua scrivania, una tazza con il caffè ormai freddo, più parole in testa di quante ne avesse scritte, più il nome di lei snocciolato sulle labbra come una litania che il suono della sua voce.

Non l’aveva sentita entrare dalla finestra, ma vide il fulmine srotolarsi sul pavimento e aspettare. 

Si girò mentre lei apriva la sacca e i doni presero posto in quell'universo che stavano creando già prima con le loro parole.

Conoscersi è luce improvvisa, tutte le albe e i tramonti furono quell'unica luce e la prime parole presero posto nell'aria.

Eccomi, sono arrivata.

Nessun commento: