mercoledì 15 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/38: nella notte una sola finestra illuminata


Chiedo soccorso alla poesia anche per questa notte nuova.

Quell’unica finestra illuminata è la mia, sono scesa in strada e ho girato l’angolo ottuso della mia casa, ho salutato l’albero e ho guardato quella finestra illuminata, la mia finestra, solo la mia luce e nient’altro.

La luce dei lampioni tesse la trama della notte, gli alberi sono ancora spogli, il mondo parla solo la lingua del vento e degli alberi, l’umanità tace ritratta nel suo cerchio di silenzio.

Chiedo alla mia finestra di dirmi qualcosa su quella casa, sulla persona che ci vive. La risposta è un sussurro che mi invita al ritorno, ma ancora non sono pronta. Esploro la via avanti e indietro, come fossi un ladro in avanscoperta. Mi appoggio a un’auto e resto un po’ con lo sguardo rivolto all'insù.

Penso che scrivere sia anche rubare, rubare voci, sguardi, pensieri e rinchiuderli nella cassaforte della pagina.

L’immensità di ogni vita è comprimibile in poche righe, dipende dall’abilità dello scrittore, dalla sua capacità di fare economia di quanto ha visto, ascoltato, respirato per trarne una vita moltiplicata che si rinnova nelle pagine a ogni lettura, a ogni lettore nuovo.

Le tende ondeggiano perché la finestra è aperta, indugio ancora, mi muovo a passi lenti.

Solo un’altra volta mi era capitato di passeggiare in strada a notte così fonda. Era il capodanno di un anno della preistoria, stava nevicando e io ero scappata dalla festa che io stessa avevo organizzato, dalla mia vita, dalla mia casa. Il silenzio sublime cesellato dalla neve, la consistenza morbida sotto i passi e poi un ritorno senza spiegazioni, perché nessuno ebbe il coraggio di chiederne.

Ritorno a casa, chiudo la finestra ma non le imposte, c’è ancora uno spicchio di luna che si nasconde tra gli alberi del parco, mi affaccio alla finestra sul cortile e vedo che nel palazzo più vicino, anche in quel palazzo, c’è una finestra illuminata nel cuore della notte. Non mi stupisco, l’insonne che vi abita è una vecchia conoscenza, sono anni che cerco di scoprire chi sia ma ancora non ci sono riuscita.

Quello che succede nelle case solo le finestre sanno dirlo, se anche potessero parlare i muri non lo farebbero, perché l’intera casa si sgretolerebbe, mentre le finestre hanno un doppio sguardo che ondeggia tra dentro e fuori e parlerebbero se avessero una voce.

Penso alla mia finestra, di nuovo l’unica finestra illuminata, la mia voce notturna.

L’insonne è tornato a letto con un bicchiere di acqua fresca e legge Moby Dick come se non lo avesse mai letto prima.

In strada passa una donna come un’ombra o un fantasma e fotografa la mia finestra illuminata.

Uno scrittore vaga per la sua casa e oscilla tra qualche parola scritta a mano e una polaroid da collezionare. Il soggetto è sempre il medesimo, un cane, una casa vuota, un cuscino rosso, le piastrelle di un pavimento restaurato.

Un altro scrittore imbandisce la tavola con tazzine antiche e diverse per ogni mattina, ci si saluta sempre intorno alle sei, facendo quasi una gara a chi si manifesta prima.

Mancano figura umane in queste rappresentazioni, ma non è strano.

Il vuoto dice molto più del pieno, l’assenza vive e abita nelle nostre case, ci rappresenta molto più di quanto non vorremmo, ci svela ancora di più, e di fronte a questo disvelamento tacciamo e ci osserviamo come fossimo stati immortalati su una tela.

Scrive Antonella Anedda nel saggio La luce della notte:

“Forse scrivere è l’esercizio di rinuncia che consente ai nostri brandelli di realtà di affiorare, forse la realtà di noi stessi appare quando rinunciamo a tutto tranne al bagliore incerto che lascia intravedere il fuoco che trascorre dalla nostra origine alla nostra morte. Ma io – nella mia casa, nella mia notte protetta – non ho che questo linguaggio, così impreciso, così privo di memoria. [...] Mi chiedo cosa diventi la parola in tempi bui, quale sia il suo tempo, quale tempo le conceda di esistere senza costringerla alla storia”.

Se scrivere è un esercizio di rinuncia, la parola è l’estrema sottrazione di noi viventi alle imposizioni della vita. Ma di che rinuncia si tratta? Per quanto mi riguarda è forse la rinuncia all’ennesima ripetizione, alla ricerca di un senso attraverso l’estensione dell’esperienza, così da potersi concentrare sulla densità e unicità di tutto ciò che riteniamo degno di essere scritto.

La scrittura non si muove solo in estensione però, si muove in profondità e in entrambi i sensi, verso l’alto e verso il basso.

Il sublime del basso conduce al paradiso della vita acquatica dei sogni e delle maree.

I sogni vorrebbero gridare al vento di essere la vita vera, l’unica vita vera in questa dimensione.

Le maree vorrebbero essere capaci di resistere al richiamo della luna, ma non ce la fanno e portano in giro i naviganti e i rottami del naufragio e a volte qualche sogno sfuggito dalla sua trama.

Il sublime dell’alto porta al purgatorio del fuoco e delle stelle invidiosi l’uno delle altre.

Il fuoco vorrebbe mutarsi in stella per rifulgere più a lungo, le stelle vorrebbero scaldare accampamenti e dimore umane, umani focolari e silenzi millenari.

È intorno a un fuoco che siedono un uomo e una donna senza età.

Nel buio si assomigliano, soprattutto quando in forma di lupo scavalcano le montagne e ululano alla luna. Ritornano nella casa prima che venga il giorno, non parlano mai ad alta voce.

Bisbigliano, sussurrano, leggono a bassa voce le cose che hanno scritto, si danno forza leggendosi, per questo sono lupi che sognano di essere umani o forse sono solo poeti che si sono arresi alla loro natura profonda e mostrano i lupi che sono.

Ora dormono, il focolare ancora non è spento, sono abbracciati, sorridono.

Posso spegnere la luce, girarmi su un fianco e dormire anch'io.

Tutte le luci sono spente, l’intera città si è addormentata.

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