Chiedo
soccorso alla poesia anche per questa notte nuova.
Quell’unica
finestra illuminata è la mia, sono scesa in strada e ho girato l’angolo ottuso
della mia casa, ho salutato l’albero e ho guardato quella finestra illuminata,
la mia finestra, solo la mia luce e nient’altro.
La luce dei
lampioni tesse la trama della notte, gli alberi sono ancora spogli, il mondo
parla solo la lingua del vento e degli alberi, l’umanità tace ritratta nel suo cerchio
di silenzio.
Chiedo alla
mia finestra di dirmi qualcosa su quella casa, sulla persona che ci vive. La
risposta è un sussurro che mi invita al ritorno, ma ancora non sono pronta. Esploro
la via avanti e indietro, come fossi un ladro in avanscoperta. Mi appoggio a un’auto
e resto un po’ con lo sguardo rivolto all'insù.
Penso che
scrivere sia anche rubare, rubare voci, sguardi, pensieri e rinchiuderli nella
cassaforte della pagina.
L’immensità di
ogni vita è comprimibile in poche righe, dipende dall’abilità dello scrittore,
dalla sua capacità di fare economia di quanto ha visto, ascoltato, respirato
per trarne una vita moltiplicata che si rinnova nelle pagine a ogni lettura, a
ogni lettore nuovo.
Le tende
ondeggiano perché la finestra è aperta, indugio ancora, mi muovo a passi lenti.
Solo un’altra
volta mi era capitato di passeggiare in strada a notte così fonda. Era il
capodanno di un anno della preistoria, stava nevicando e io ero scappata dalla
festa che io stessa avevo organizzato, dalla mia vita, dalla mia casa. Il silenzio
sublime cesellato dalla neve, la consistenza morbida sotto i passi e poi un
ritorno senza spiegazioni, perché nessuno ebbe il coraggio di chiederne.
Ritorno a casa,
chiudo la finestra ma non le imposte, c’è ancora uno spicchio di luna che si
nasconde tra gli alberi del parco, mi affaccio alla finestra sul cortile e vedo
che nel palazzo più vicino, anche in quel palazzo, c’è una finestra illuminata
nel cuore della notte. Non mi stupisco, l’insonne che vi abita è una vecchia
conoscenza, sono anni che cerco di scoprire chi sia ma ancora non ci sono
riuscita.
Quello che
succede nelle case solo le finestre sanno dirlo, se anche potessero parlare i
muri non lo farebbero, perché l’intera casa si sgretolerebbe, mentre le
finestre hanno un doppio sguardo che ondeggia tra dentro e fuori e parlerebbero
se avessero una voce.
Penso alla mia
finestra, di nuovo l’unica finestra illuminata, la mia voce notturna.
L’insonne è
tornato a letto con un bicchiere di acqua fresca e legge Moby Dick come se non
lo avesse mai letto prima.
In strada
passa una donna come un’ombra o un fantasma e fotografa la mia finestra
illuminata.
Uno scrittore
vaga per la sua casa e oscilla tra qualche parola scritta a mano e una polaroid
da collezionare. Il soggetto è sempre il medesimo, un cane, una casa vuota, un
cuscino rosso, le piastrelle di un pavimento restaurato.
Un altro
scrittore imbandisce la tavola con tazzine antiche e diverse per ogni mattina,
ci si saluta sempre intorno alle sei, facendo quasi una gara a chi si manifesta
prima.
Mancano figura
umane in queste rappresentazioni, ma non è strano.
Il vuoto dice
molto più del pieno, l’assenza vive e abita nelle nostre case, ci rappresenta
molto più di quanto non vorremmo, ci svela ancora di più, e di fronte a questo
disvelamento tacciamo e ci osserviamo come fossimo stati immortalati su una
tela.
Scrive
Antonella Anedda nel saggio La luce della
notte:
“Forse
scrivere è l’esercizio di rinuncia che consente ai nostri brandelli di realtà
di affiorare, forse la realtà di noi stessi appare quando rinunciamo a tutto
tranne al bagliore incerto che lascia intravedere il fuoco che trascorre dalla
nostra origine alla nostra morte. Ma io – nella mia casa, nella mia notte
protetta – non ho che questo linguaggio, così impreciso, così privo di memoria.
[...] Mi chiedo cosa diventi la parola in tempi bui, quale sia il suo tempo,
quale tempo le conceda di esistere senza costringerla alla storia”.
Se scrivere è
un esercizio di rinuncia, la parola è l’estrema sottrazione di noi viventi alle
imposizioni della vita. Ma di che rinuncia si tratta? Per quanto mi riguarda è
forse la rinuncia all’ennesima ripetizione, alla ricerca di un senso attraverso
l’estensione dell’esperienza, così da potersi concentrare sulla densità e
unicità di tutto ciò che riteniamo degno di essere scritto.
La scrittura
non si muove solo in estensione però, si muove in profondità e in entrambi i
sensi, verso l’alto e verso il basso.
Il sublime del
basso conduce al paradiso della vita acquatica dei sogni e delle maree.
I sogni
vorrebbero gridare al vento di essere la vita vera, l’unica vita vera in questa
dimensione.
Le maree vorrebbero
essere capaci di resistere al richiamo della luna, ma non ce la fanno e portano
in giro i naviganti e i rottami del naufragio e a volte qualche sogno sfuggito
dalla sua trama.
Il sublime
dell’alto porta al purgatorio del fuoco e delle stelle invidiosi l’uno delle
altre.
Il fuoco
vorrebbe mutarsi in stella per rifulgere più a lungo, le stelle vorrebbero
scaldare accampamenti e dimore umane, umani focolari e silenzi millenari.
È intorno a un
fuoco che siedono un uomo e una donna senza età.
Nel buio si
assomigliano, soprattutto quando in forma di lupo scavalcano le montagne e
ululano alla luna. Ritornano nella casa prima che venga il giorno, non parlano
mai ad alta voce.
Bisbigliano,
sussurrano, leggono a bassa voce le cose che hanno scritto, si danno forza
leggendosi, per questo sono lupi che sognano di essere umani o forse sono solo
poeti che si sono arresi alla loro natura profonda e mostrano i lupi che sono.
Ora dormono,
il focolare ancora non è spento, sono abbracciati, sorridono.
Posso spegnere
la luce, girarmi su un fianco e dormire anch'io.
Tutte le luci
sono spente, l’intera città si è addormentata.
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