mercoledì 22 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/45: un cielo fatto di cieli


Mi fermo a prendere fiato, il sentiero è ancora in salita, il bosco di conifere è ancora fitto intorno a noi. I lupi mi aspettano poco più avanti, non sono stanchi, non hanno paura, nemmeno io ho paura quando siamo insieme.

Riprendiamo il cammino, il bosco finisce, si apre un prato immenso davanti a noi, vedo un ruscello i lupi corrono a bere, li seguo con il mio passo che non sente più la fatica.

Sono sullo stesso sentiero ma è inverno, la pelliccia dei lupi è quasi bianca, sempre mi precedono e mi aspettano se rallento. La cascata è una fontana di ghiaccio che scintilla al sole come tutta la neve intorno. Sono accecata da tutto quel biancore, mi proteggo gli occhi, respiro, la luce entra in me e si ferma, mi pulisce i polmoni, com'è fredda quest’aria, com'è scintillante la vita che dorme sotto la coltre di neve.

I prati estivi verdi e assolati si confondono con quelli invernali, i colori prevalenti sono due, i lupi corrono e giocano, saltano dall'estate all'inverno a loro piacimento, mutano il mantello come se bastasse solo il desiderio a rendere reale il loro gioco amoroso. Questa valle, la Val Zebrù, è un luogo incantato che vive in me in tutte le stagioni dell’anno anche se adesso non posso ritornare, non posso vederla e camminare.

Cammino, di nuovo, con i lupi poco davanti a me. Il bosco è ancora più fitto, i passi si confondono con passi che ancora non sono stati. Cammino nella Foresta Umbra, la foresta cupa, ombrosa nel parco nazionale del Gargano, c’è con me mia cugina Silvana, ci siamo allontanate dalle famiglie che stanno allestendo i tavoli per la scampagnata, non mi interessa tornare indietro, a ogni svolta del sentiero la incito a continuare, non torneremo che dopo diverse ore, dopo che tutti ci stavano cercando. I lupi non mi hanno mai abbandonata, quel sentiero nel bosco è ritornato anni dopo in una poesia

Il poeta seduto

Erano due le bambine,
imboccarono il sentiero
non vollero fermarsi
non si girarono a
nessuna svolta.

Dopo tanti anni
la maggiore ancora
cammina attraverso
la notte, incontro al
poeta seduto
dall'altro lato del
tavolo.

Non sto ferma cammino, il sentiero è tutto in salita, ma il Cirque de Gavarnie abbraccia questo angolo di mondo, questo cielo di Francia, tutto per noi. I lupi sono tornati a casa, fiutano l’aria, giocano e si rotolano nei prati. Io arrivo fino al rifugio di pietra grigia, non c’è nessuno, solo io e i lupi. Mi sdraio tra l’erba, guardo il cielo, un cielo fatto di cieli, tesso insieme questo cielo che guardo e i cieli della Lombardia e della Puglia, come si assomigliano i cieli se li guardi con occhio distratto. Qui l’aria è più fine, respiro, l’aria è verde, mi tonifica, cuce insieme i ritagli di tempo, sono i lupi a dirmi che bisogna tornare.

Cammino tra abeti altissimi siamo sulla montagna di Fagnano Castello in Calabria, Fagnano che forse deriva dall’ebraico hanan, nebbia, nube. Non si capisce infatti se siano nuvole basse o una nebbiolina leggera ad avvolgere il nostro cammino. Arriviamo alla nostra meta, una radura chiamata Occhi di lupo. E i lupi lo sanno di essere a casa, ho diciotto anni da poco, in quella radura li avrò per sempre, i ciclamini selvatici sono rossi come le fragoline di bosco, li vedo quando la nebbia si dirada dispersa dal sole che cerca di farsi strada tra i rami.

La montagna appartiene alla famiglia Antonucci, dei cugini di non so più quale grado, in qualche modo si è tutti imparentati in questo scorcio di mondo, mi sembra impossibile che la montagna o il cielo possano appartenere a qualcuno, loro sono allegri, gentili e cordiali, il cibo e il vino vengono disposti su larghe tovaglie nel prato, è una festa, una festa grande per tutti noi che siamo arrivati lassù.  Il profumo della resina è inebriante, sono stanca, mi sdraio a contare le lame di luce che attraversano i rami fitti degli abeti, tesso anche questi fili di cielo nel mio cielo fatto di cieli.

Capisco solo ora, all'improvviso, cosa hanno in comune questi cieli che mi assediano gli occhi, in nessuno, nessuno di loro, c’è la minima traccia di una nuvola.

Io che amo le nuvole, amo anche la loro assenza.

Il cielo non è mai vuoto, è attraversato dal ricordo di ogni volo, dalle nuvole scanzonate, dal vento che gioca, dal vento che scherza con una nuvola o con la sua assenza.

Ora mi fermo davvero, resto, ferma, in silenzio e scrivo.

Scrivo nel vento, scrivo il vento.


A chi porterò il silenzio?

Il giardino chiama il mare attraverso
il vento e risponde il mare anche
nelle giornate più lunghe e chiare
della nostra primavera. A chi porterò
il silenzio? Si chiede il giardino.
A chi risponderò? Portami le onde,
lascia che l’acqua sfiori le mie rive
e non bruci le più tenere foglie che
il sole mi contende.
Il mare ascolta e un po’ sorride,
come solo la spuma sa fare, un po’
beffarda, un po’ nostalgica: scegli
ti dice, scegli e non guardare
indietro.


Il tempo della scelta è davvero arrivato, lo sanno i lupi che sono tornati nel loro rifugio, io scelgo, ti scelgo e non mi guardo indietro.


* le poesie sono mie: la prima è tratta da Il calvario della rosa, Moretti&Vitali 2004; la seconda da Scrivere il vento, Atì editore 2016

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