Nelle mie immaginazioni pomeridiane, sono a loro a cercarmi
ogni giorno dopo le diciotto, continuo a chiedermi quale città vorrei poter
visitare in assenza dei suoi abitanti. Stasera ho finalmente deciso che quella
città è Venezia. Ci sono stata tante volte e le immagini si sovrappongono, così
mi fermo a pensare alla prima volta che ci sono andata, ero già adulta, reduce
dalla rottura di una relazione importante. Così avevo deciso di iniziare a fare
tutte le cose che nei lunghi anni di quel sodalizio avevo sempre fatto in
coppia. Viaggiare era in cima alla lista e così, una mattina di un caldo ma non
afoso luglio, sono partita dalla Stazione Centrale di Milano alle 7 circa. Nella
fretta della partenza ho dimenticato il libro che stavo leggendo, La via del mare di Ursula K. Le Guin una
delle scrittrici che adoro, sul bancone della biglietteria e che non sono mai
più riuscita a leggere, come se il libro fosse rimasto imprigionato in quell’istante.
Senza niente da leggere, avevo trascorso il lungo viaggio,
che all’epoca durava oltre cinque ore, guardando fuori dal finestrino e
scrivendo. Quando uscii dalla stazione due dei miei sensi furono colpiti d’impatto.
La mancanza del rumore delle auto spiazzò il mio udito e la qualità della luce
la mia vista. Presi il traghetto per Piazza San Marco e andai a vedere due
mostre che mi interessavano. La prima era dedicata a Giorgione, la seconda ai
Normanni. Mi ero data due ore in tutto, come faccio sempre scelgo su cosa
fermarmi, salto molte cose, evito le visite guidate e razzolo per i percorsi
seguendo l’istinto. Furono due visiti felici e, forse, inadeguate alla bellezza
delle opere esposte, ma ero contenta anche perché imparai molte cose sui Normanni
che avevano dominato per secoli il paese natio di mio padre, San Marco
Argentano e dove si trovano ancora la torre a pianta circolare, una delle
uniche due intatte nel nostro meridione, le rovine del castello e la Fonte normanna
di Sikelgaita. Il quartiere ai piedi della Torre del Guiscardo era il ghetto
ebraico detto La Giudecca. C’era infatti
una fiorente comunità in loco, che si dedicava all’allevamento dei bachi da
seta, alla filatura e al commercio della seta, e l’antica sinagoga è da decenni
una residenza privata.
Con quella visita avevo vissuto un po’ del passato di
famiglia e con gli occhi pieni di bellezza, avevo deciso di lasciarmi
trascinare dalla città senza seguire nessun suggerimento della guida che pure
avevo portato con me.
Non molto tempo dopo ero passata davanti a una trattoria
dove pranzavano alcuni gondolieri. Mi fermai anch'io e il gusto di quel pranzo,
spaghetti con le vongole e un fritto misto indimenticabili, lo sento ancora
sulle mie papille gustative. Avevo bevuto anche un paio di bicchieri di vino
bianco fresco e leggero e il momento rasentava la perfezione. L’acqua del
canale su cui si affacciava la trattoria era verde e silenziosa, i gondolieri
ridevano e seminavano la loro allegria intorno. In un taccuino riposto in non
so più quale cassetto, scrivevo via via i nomi delle calli e delle rive, delle
fondamenta e dei campielli che si aprivano davanti a me come una mutevole e
affascinante quinta teatrale.
Il mio treno sarebbe partito alle 20.30, così a un certo
punto avevo iniziato a seguire le indicazioni dipinte sulle facciate delle case
e, non molto tempo prima della partenza, ero arrivata sul piazzale della
stazione e mi ero fermata a spigolare tra le bancarelle dei libri dove avevo
ricomprato i racconti di Katherine
Mansfield e una vecchia edizione del Viaggio
in Italia di Ruskin. Riempii molte altre pagine di quel taccuino che ho
deciso di non consultare oggi, e a memoria ricordo di avere pensato che i veri
abitanti di Venezia sono i palazzi prima ancora che gli abitanti.
Le emozioni di quella prima visita le ho provate tutte le
volte e ho deciso di tornarci non appena potremo uscire. L’ultima volta che
sono andata a Venezia è stato tre anni fa per un workshop di lavoro, ho ancora
negli occhi l’acqua e il cielo bianchi, presi in unico abbraccio dalla nebbia
con un sole tondo e netto che pareva un fermaglio rosso appuntato su un
mantello di velluto.
Questa sera vi saluto con una doppia citazione, cullata da
quelle acque e dai sussurri dei palazzi.
Prima un’impressione di Venezia.
“Eravamo a Venezia in aprile, e io ero ebbra di luce
acquamarina. È una luce impalpabile, che gioca con le superfici mobili e scure
dei canali, che luccica sulla pietra e sul marmo fondendoli insieme con
molteplici sfumature, sempre acquamarina. Sperimentavo una bizzarra sensazione.
Ogni volta che chiudevo gli occhi - e lo facevo sempre più spesso,
deliberatamente - vedevo un verde molto inglese, molto più giallo, un’amalgama
di luce scintillante su prati rasati e di pastosa luce verde dei boschi
inglesi, una luce che svanisce dentro tronchi nodosi, guizzando tra le ombre di
strati di foglie estive”.
Antonia S. Byatt
Fortuny
sulla rivista Gondola days
traduzione di Maria Nadotti
E poi una poesia
Strofe veneziane
VIII
Scrivo questi versi, seduto all'aperto
su una sedia bianca,
d'inverno, con la sola giacca addosso,
dopo molti bicchieri, allargando gli zigomi
con frasi in madrelingua.
Nella tazza si raffredda il caffè.
Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi
la torbida pupilla con l'ansia di fissare nel ricordo
questo paesaggio, capace di fare a meno di me.
Iosif Brodskij
Poesie italiane
traduzione di Giovanni Buttafava e Serena Vitale
Adelphi 1996
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