Sono seduta
allo stesso tavolo di ieri sera, i lupi dormono accanto al fuoco.
A cosa stai
pensando? Mi chiede il poeta.
Il re dorme,
gli rispondo e non so dire di che re io stia parlando. Mi sono svegliata con
questa frase in testa e da ore cerco una spiegazione, ma non ne trovo.
Il re dorme,
non ci sono storie da raccontargli questa sera dunque?
Ma io non
posso fare a meno di rispondere a questo richiamo che è selvaggio come
l’ululato del lupo.
Ieri amore e
scrittura hanno intessuto la narrazione serale e oggi si aggiunge il terzo
elemento che è specchio dell’amore e condizione della scrittura, la solitudine.
Matsuo Bashō ha scritto:
Cade una
foglia di paulonia -
perché non vieni
nella mia solitudine?
È vero nella solitudine si entra come fosse un luogo preciso, una stanza, un rifugio. La solitudine ha una dimensione fisica prima ancora che interiore. In queste settimane di clausura anche chi non lo sapeva lo ha imparato.
perché non vieni
nella mia solitudine?
È vero nella solitudine si entra come fosse un luogo preciso, una stanza, un rifugio. La solitudine ha una dimensione fisica prima ancora che interiore. In queste settimane di clausura anche chi non lo sapeva lo ha imparato.
Il re dorme e
nel suo sonno è sempre solo perché la solitudine può essere un mantello di
polvere grigia o una coltre di stelle cadute e fino a che non ci addormentiamo
non lo sapremo.
Veglio dunque
il sonno del re, del mio re, del re di questo reame che ancora non conosco e
che costruisco con le mie parole. Perché proprio un re poi? Io che credo nella
democrazia… ecco che l’anima razionale cerca di smontare questo gioco
innocente. Il re regna solo su se stesso, è evidente, preferirebbe anche lui
piazze affollate a questo vuoto castello. Ma per il momento dorme e io veglio scrivendo
storie che non sono solo per lui.
Vado a
cercare i versi di Gottfried Benn per fare un po’ di ordine in questo arazzo di
parole e Parole si intitola questa
sua poesia:
Solo: tu con le parole,
e questa è veramente solitudine,
non trombe né archi trionfali
sono in quest'essere.
e questa è veramente solitudine,
non trombe né archi trionfali
sono in quest'essere.
Guardi loro nell'anima
cercando il primo viso, il viso primigenio,
anni su anni - schiantati
sì di fatica, ma non troverai
cercando il primo viso, il viso primigenio,
anni su anni - schiantati
sì di fatica, ma non troverai
E di là s'accendono i lumi
in un dolce rifugio umano,
piana, da labbra umide, di rosa,
come una perla cade la parola.
in un dolce rifugio umano,
piana, da labbra umide, di rosa,
come una perla cade la parola.
Solo i tuoi anni ingialliscono
in un diverso significato,
fino nei sogni: sillabe
ma tu tacitamente passi.
in un diverso significato,
fino nei sogni: sillabe
ma tu tacitamente passi.
La solitudine
è dunque un dolce rifugio umano, è gioiosa quando la scegliamo, lugubre se ci
viene imposta come in queste settimane iniziali della pandemia di cui stentiamo
a vedere la fine. Della vasta famiglia umana solo i congiunti saranno visitabili
a breve, senza un legame di sangue o di carta, l’amicizia e l’amore non valgono
nulla per l’ottusa burocrazia.
E questo non
fa che aumentare il desiderio di fuga cui nemmeno Tolstoj poté sottrarsi. Fuggire
è un istinto primordiale dell’essere umano, mi chiedo da quale dei suoi
personaggi questo scrittore abbia cercato di fuggire, Guy Goffette tradotto da
Chiara De Luca così dipinge il suo intento:
Trascinerò
l'inverno
nella tana
del lupo
per decifrare
l'alfabeto di
cristallo
dove vivere è
un verbo di fuoco
chiamerò il
silenzio
pesante larga
patria
il viaggio
del freddo
che le case
ci rubano
chi mi
ritroverà
- neve nessun
eco
avrà gli
occhi bruciati
un grande
popolo d'uccelli
vestirà il
suo corpo
il cammino si
estenderà
fino alla
fine della sua ombra
Alla fine
della solitudine resta solo un sentiero coperto di impronte, il rifugio è vicino
e anche Tolstoj troverà la sua pace.
Mi accorgo
scrivendo che questa solitudine è molto affollata: scrittori russi per primi, perché
con Tolstoj c’è sempre Cechov; Virginia Woolf è seduta nella sua poltrona con
la sua tavola da scrittura sulle gambe, il fuoco nel camino è alto, si
svegliano i lupi e anche il re si è svegliato, non ricorda nulla, non sa di
essere il re di questo bizzarro rifugio che è la mia solitudine, una solitudine
amorosa che riverbera gioia verso l’esterno e che rallegra i lupi e li incita a
giocare sul tappeto come fossero in un prato.
Fuori è la
pioggia che prende il sopravvento, ma qui stiamo al caldo e sicuri, potrebbero
scatenarsi tutti i temporali, noi giocheremmo con le gocce di pioggia come
fossero tondi cristalli di neve.
Bisogna imparare
a stare ai margini delle stagioni, in bilico sui confini, bisogna sapere
aspettare e far rotolare minuto dopo minuto nella cesta del tempo.
Arriverà quel
giorno, il giorno in cui la solitudine sarà solo una stanza della vasta casa
del mondo, il giorno in cui potremo varcare tutte le frontiere e stupirci di
averle rispettate, e varcarle e scoprire che erano ombre dei rami proiettate
sul nostro cammino.
Perché vivere
è un verbo di fuoco e il fuoco arde sino a che non avrà compiuto il destino cui
è chiamato. Il re lo sa, per questo torna a dormire e sorride ai lupi che si
accucciano al suo fianco.
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