D’estate è
facile alzarsi molto presto al mattino, la luce solare, il canto degli
uccellini, il suono dell’acqua che scorre.
Una mattina
in particolare ci si alzava molto prima dell’ora in cui iniziavano di solito i
preparativi per andare al mare.
Era la
mattina del pellegrinaggio alla Madonna del Pettoruto, il cui nome pare derivi
da petruto, cioè pietroso.
Partivamo in
gruppi abbastanza numerosi, due o tre auto alla volta, si arrivava ai piedi del
monte Montea e si poteva scegliere se proseguire in auto, arrivando abbastanza
vicino al santuario, o parcheggiare subito e fare la salita piedi.
Noi salivamo
a piedi, capeggiati da mia nonna paterna che, scalza e con il solito fazzoletto
legato in testa u’ maccaturi, si
appoggiava a un bastone. Non ricordo esattamente la durata del cammino, so che
mi sembrava lunghissimo, di sicuro non meno di un’ora, un’ora e mezza. Arrivati
in cima ci si poteva rifocillare con l’acqua freschissima che sgorgava dal
monte, con il cibo arrostito venduto alle bancarelle, carne e peperoni arrosto,
pomodori freschi, larghe fette di pane cotto nel forno a legna.
Io stavo
tutto il tempo appiccicata a mia nonna, l’unica cosa che facevo da sola era
andare a vedere la Madonna con il Bambino, riccamente vestiti e, nei giorni
della festa in settembre, anche ricoperti dei gioielli ex-voto dei fedeli. Qualcuno
mi aveva raccontato che l’apparizione della Signora non era avvenuta proprio
nel punto dove venne eretta la basilica, ma sulla montagna di fronte, il monte
Mula, dove non era possibile allargare i sentieri che solo i pastori con capre
e pecore riuscivano a percorrere.
Si mangiava,
ci si rifocillava, ci si riposava a volte anche in una delle stanze a
disposizione dei pellegrini e, prima di partire, ci si fotografava. Ogni anno
le stesse fotografie, le stesse pose, lo stesso sfondo. Di due fotografie ho
ricordi vividi che mi fanno ritornare esattamente in quei luoghi e in quei
momenti.
Soprattutto dell’estate
dei miei otto anni, dove indosso un abitino delizioso, cucito da mia madre, a
righe bianche e rosse. Ho i capelli legati in una coda di cavallo altissima e
una frangetta che mi copre tutta la fronte.
L’aria era
caldissima, la frescura della chiesa una delizia e un sollievo. Non lascio mai
la nonna e la guardo pregare sottovoce. Lei mi aveva promesso che mi avrebbe
insegnato tutte le sue preghiere e, in particolare, anche quelle che bisognava
recitare quando qualcuno era caduto preda dell’affascino,
che poteva manifestarsi soprattutto con un lancinante mal di testa. Per insegnarmi
quelle preghiere e quelle formule, però, dovevamo trascorrere insieme la notte
di Natale e andare alla Messa solenne, perché solo durante quella notte si poteva
tramandare alle fanciulle quell'antica sapienza popolare che toglieva il male.
Non ci furono
mai le condizioni perché potessimo andare insieme alla Messa di Natale e il
vuoto di quel suo insegnamento è rimasto. È a mia nonna paterna, nonna Carmela
che io chiamavo nonna Mela, che devo l’iconografia cristiana e i rituali che hanno
accompagnato la mia infanzia.
Dopo un
ultimo saluto alla Madonna si scendeva a piedi sino al parcheggio, lei non ne
voleva sapere di salire in auto e mettersi le scarpe. Quello era il gesto che
sanciva la fine del pellegrinaggio, ma solo dopo che ciascuno di noi pellegrini
aveva raccolto un bel sasso e lo aveva lanciato nel fiume Rosa, un gesto
beneaugurante che siglava il patto del ritorno, saremmo ritornati anche l’anno
successivo e la Madonna avrebbe vegliato su di noi perché ciò potesse accadere.
Oltre alle
immagini della Madonna del Pettoruto, a casa della nonna c’erano immaginette e
una statua di Sant'Antonio da Padova e di San Sebastiano trafitto dalle frecce,
un’immagine che ricordava molto il dipinto del Mantegna ma che era opera di
qualche pittore devoto e sconosciuto dell’Ottocento calabrese, di Sant'Antonio
sapevo ancora meno, però la nonna mi aveva raccontato di essere andata in pellegrinaggio
pure alla sua Basilica.
Non mi faceva
paura l’immagine del martirio, quello che mi interessava era scoprire la storia
che c’era dietro.
La storia che
c’era dietro, è questa la frase chiave, o almeno una delle più importanti,
della mia vita.
Negli anni si
sono accumulati Santi e Madonne, immaginette, visite a Chiese meravigliose e
non solo in Italia, la fede è cresciuta, si è affievolita, si è fatta dubbiosa,
è fuggita lontano da me, è ritornata con tutta la sua iconografia intatta.
Quello che ho
capito solo di recente è che cercare la storia che c’era dietro non ho mai
smesso di farlo.
Nei viaggi
visito le chiese e le case degli scrittori dove compro sempre almeno un’immagine
del luogo e di chi ci ha vissuto. Ho pianto quando mi sono affacciata alla
finestra di Leopardi a Recanati e quando ho visto un manoscritto della Woolf
alla British Library a Londra.
Vado anche a
visitare i cimiteri, e non solo quelli attigui alle chiese.
Al Père
Lachaise a Parigi ci sono andata da sola, sono andata a cercare la tomba di
Colette che è abbastanza vicina all’ingresso e poi dovevo scegliere tra Marcel Proust
e Jim Morrison e sono andata da Proust.
Al cimitero
di Montparnasse ho visitato le tombe di Baudelaire, Man Ray, Beckett e Ionesco,
Duras, Sontag, Cortazar e sono andata a piangere sulla tomba, condivisa con
Sartre, di Simone De Beauvoir.
Perché ci
emoziona così tanto, a noi lettori, visitare le case e le tombe degli scrittori
che amiamo?
In qualche
modo sento che è una forma di devozione che ha a che fare con quella per i
Santi, perché a entrambi facciamo domande, chiediamo risposte, un’indicazione,
una traccia, una via da seguire.
Non ci sono
altari né profani, né laici nella mia casa, solo molte immagini, molte
fotografie in bianco e nero, la maggior parte delle volte i soggetti ritratti non
stanno guardando l’obiettivo, mi fanno compagnia, quando li guardo so perché quelle
donne e quegli uomini se ne stanno appesi nella mia cucina.
Mi hanno dato
delle risposte, mi hanno incoraggiato a farmi altre domande.
I loro libri
sono le preghiere laiche che arricchiscono il senso della mia vita.
Purtroppo,
non sono riuscita a recuperare nessuna delle immaginette di nonna Mela, ma
proprio per la loro natura il loro ricordo se ne sta nella mia bottega delle
immagini, nella mia immaginazione, appunto.
E così sia.
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