Nelle mie famiglie d’origine, dove vissero i miei genitori bambini in Calabria e in Puglia, non c’è una memoria diretta della Resistenza.
Ma io sono
nata e cresciuta a Milano e la Storia mi ha raggiunta comunque molto presto in
racconti che ho ascoltato a partire dalle scuole elementari.
Già, la mia scuola
è intitolata ai Fratelli Cervi e sin dalla prima elementare ho imparato la loro
tragica storia. Poi ci sono state le testimonianze dei partigiani, le
commemorazioni, i racconti dei nonni di alcune compagne di scuola.
Il ricordo
della guerra era vivido, palpitante, mia madre per tutta la vita ha avuto paura
dei nazisti e dei cani-lupo, sentir parlare in tedesco la faceva sussultare.
Io non
perdevo un solo film dedicato alla Seconda Guerra Mondiale e leggevo libri
presi dalla biblioteca paterna, libri di divulgazione dedicati a Hiroshima,
allo sbarco in Normandia, al processo di Norimberga.
Poi alle
scuole medie la professoressa Lucia Buratti ci diede da leggere due libri
fondamentali della mia vita Dalla parte
delle bambine di Elena Gianini Belotti e L’Agnese va a morire di Renata Viganò. A undici anni ero già
femminista e consapevole della forza delle donne.
Ho sempre
festeggiato la Liberazione, spesso sono andata alla sfilata del 25 Aprile, che
qui a Milano è un momento di grande forza collettiva.
Oggi ho
cantato Bella ciao come se fossi
stata in piazza e mi sono commossa.
Per chiudere
questa giornata, la cui icona è il Presidente Mattarella che da solo e con la
mascherina visita l’Altare della Patria a Roma, voglio ricordare un partigiano
che ho conosciuto in età adulta, Federico Arkel, padre dello scrittore Dario che
così ne scrive nel romanzo Compendio.
“Alla parete
la stampa del Quarto Stato e la vecchia fotografia del suo distaccamento partigiano,
lui con i capelli lunghi e lo sten a tracolla. Si rigirava nervoso e sudato
sulla sedia non troppo comoda, la macchina da scrivere con il foglio inserito
sul quale spiccava la frase non dimenticare mai. Era a corto di ispirazione. Si
accese una sigaretta e si mise a guardare svagatamene oltre il rettangolo della
finestra. La sua vista che ancora l’anno precedente coglieva ben oltre
l’ippocastano e le coppiette sulla panchina, ora inquadrava solo un’imprecisa
macchia di colore. Stava invecchiando. Emise un sospiro e tornò a riflettere
sul testo da comporre (…)
Poi il mio
vecchio raccontò l’episodio di un partigiano morto e riportato al paese su un
carretto tirato da un mulo.
“Seguivamo il
carro sul quale stava la bara, una specie di cassa di semplici travi di legno. Eravamo
una ventina. Raggiunto un paesino in festa per la Liberazione, il conducente si
fermò. Delle ragazze vennero da noi e ci presero per mano. Dapprima titubanti,
poi sempre più convinti, ci lasciammo trascinare nella mischia dei balli. Le
ragazze erano piene di vita, e l’orchestrina impazzava con la fisarmonica. I
balli divennero sempre più coinvolgenti e sfrenati. A un certo punto il mulo si
spaventò e si drizzò sulle zampe posteriori. La cassa scivolò giù, senza che
nessuno ci badasse. Quando, più tardi, avremmo dovuto riprendere il cammino,
trovammo il nostro compagno steso a terra, il fazzoletto tricolore al collo e
il corpo avvolto nella bandiera rossa. Ridevamo ancora, accaldati per le danze.
Fu come un rintocco macabro, un ritorno alla realtà, eh… sì, anche di queste
storie, siamo fatti…”.
“Non fa
ridere” disse lo zio “non è buona cosa trattare così i morti”. “I morti sono
morti. Se si fosse potuto risvegliare, il compagno avrebbe ballato con noi”. “Sì,
la danza macabra!” scherzò lo zio, un po’ tirato. “Ma immaginati la scena. Un
contrasto tra vita e morte, l’epitaffio più gradito che si possa ottenere” fece
mio padre. “Va bene” dissi a mia volta “certe cose ci possono anche stare, in
fondo non è successo niente di male. Partigiani che si divertono a guerra
finita e un morto presente, come dire, un non-morto, un testimone, un monito
che pare sostenere: badate che non c’è solo la vita, anche la morte fa parte
dell’esistenza”.
Il congedo di
questa sera è doppio, la musica di Ernest Bloch Schelomo: Rhapsodie Hébraïque e la poesia che ho scritto per il
partigiano Arkel quando è morto nel novembre del 2010.
Riposa nelle nuvole
a Federico Arkel, partigiano
Ho conosciuto
solo il tuo
volto
vecchio, la voce incrinata
e il passo
malfermo.
Ora il
bambino, quel
“lui era un
picchiatore”
sta tutto
nella tua memoria
e la morte
della madre
si è ripetuta
in una giornata
di gelo e
malattia.
Ma io posso
vederti combattere
a diciotto
anni e con il tuo
coraggio
aprire il futuro
all'uomo che
hai generato
e che è
maestro di ogni
storia. Lui
scrive e tu
sarai sempre
lo specchio sicuro
il braccio
saldo che tiene
lontana ogni
paura.
Ora vivi
nelle sue parole
eterno, lui
scrive come
respira e
continuerà a
sussurrare
storie al tuo
orecchio.
Riposa nelle
nuvole
vecchio combattente
di certo hai
amato come hai
solcato il
secolo breve
e mai sei
tornato indietro.
Anche noi
ricorderemo.
Elena Petrassi
Scrivere il
vento
Atì editore
2016
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