sabato 25 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/48: la Storia è in noi, anche se non lo sappiamo


Nelle mie famiglie d’origine, dove vissero i miei genitori bambini in Calabria e in Puglia, non c’è una memoria diretta della Resistenza.

Ma io sono nata e cresciuta a Milano e la Storia mi ha raggiunta comunque molto presto in racconti che ho ascoltato a partire dalle scuole elementari. 

Già, la mia scuola è intitolata ai Fratelli Cervi e sin dalla prima elementare ho imparato la loro tragica storia. Poi ci sono state le testimonianze dei partigiani, le commemorazioni, i racconti dei nonni di alcune compagne di scuola.
Il ricordo della guerra era vivido, palpitante, mia madre per tutta la vita ha avuto paura dei nazisti e dei cani-lupo, sentir parlare in tedesco la faceva sussultare.

Io non perdevo un solo film dedicato alla Seconda Guerra Mondiale e leggevo libri presi dalla biblioteca paterna, libri di divulgazione dedicati a Hiroshima, allo sbarco in Normandia, al processo di Norimberga.
Poi alle scuole medie la professoressa Lucia Buratti ci diede da leggere due libri fondamentali della mia vita Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti e L’Agnese va a morire di Renata Viganò. A undici anni ero già femminista e consapevole della forza delle donne.

Ho sempre festeggiato la Liberazione, spesso sono andata alla sfilata del 25 Aprile, che qui a Milano è un momento di grande forza collettiva.

Oggi ho cantato Bella ciao come se fossi stata in piazza e mi sono commossa.
Per chiudere questa giornata, la cui icona è il Presidente Mattarella che da solo e con la mascherina visita l’Altare della Patria a Roma, voglio ricordare un partigiano che ho conosciuto in età adulta, Federico Arkel, padre dello scrittore Dario che così ne scrive nel romanzo Compendio.

“Alla parete la stampa del Quarto Stato e la vecchia fotografia del suo distaccamento partigiano, lui con i capelli lunghi e lo sten a tracolla. Si rigirava nervoso e sudato sulla sedia non troppo comoda, la macchina da scrivere con il foglio inserito sul quale spiccava la frase non dimenticare mai. Era a corto di ispirazione. Si accese una sigaretta e si mise a guardare svagatamene oltre il rettangolo della finestra. La sua vista che ancora l’anno precedente coglieva ben oltre l’ippocastano e le coppiette sulla panchina, ora inquadrava solo un’imprecisa macchia di colore. Stava invecchiando. Emise un sospiro e tornò a riflettere sul testo da comporre (…)

Poi il mio vecchio raccontò l’episodio di un partigiano morto e riportato al paese su un carretto tirato da un mulo.
“Seguivamo il carro sul quale stava la bara, una specie di cassa di semplici travi di legno. Eravamo una ventina. Raggiunto un paesino in festa per la Liberazione, il conducente si fermò. Delle ragazze vennero da noi e ci presero per mano. Dapprima titubanti, poi sempre più convinti, ci lasciammo trascinare nella mischia dei balli. Le ragazze erano piene di vita, e l’orchestrina impazzava con la fisarmonica. I balli divennero sempre più coinvolgenti e sfrenati. A un certo punto il mulo si spaventò e si drizzò sulle zampe posteriori. La cassa scivolò giù, senza che nessuno ci badasse. Quando, più tardi, avremmo dovuto riprendere il cammino, trovammo il nostro compagno steso a terra, il fazzoletto tricolore al collo e il corpo avvolto nella bandiera rossa. Ridevamo ancora, accaldati per le danze. Fu come un rintocco macabro, un ritorno alla realtà, eh… sì, anche di queste storie, siamo fatti…”.

“Non fa ridere” disse lo zio “non è buona cosa trattare così i morti”. “I morti sono morti. Se si fosse potuto risvegliare, il compagno avrebbe ballato con noi”. “Sì, la danza macabra!” scherzò lo zio, un po’ tirato. “Ma immaginati la scena. Un contrasto tra vita e morte, l’epitaffio più gradito che si possa ottenere” fece mio padre. “Va bene” dissi a mia volta “certe cose ci possono anche stare, in fondo non è successo niente di male. Partigiani che si divertono a guerra finita e un morto presente, come dire, un non-morto, un testimone, un monito che pare sostenere: badate che non c’è solo la vita, anche la morte fa parte dell’esistenza”.

Il congedo di questa sera è doppio, la musica di Ernest Bloch Schelomo: Rhapsodie Hébraïque e la poesia che ho scritto per il partigiano Arkel quando è morto nel novembre del 2010.

Riposa nelle nuvole
a Federico Arkel, partigiano

Ho conosciuto solo il tuo
volto vecchio, la voce incrinata
e il passo malfermo.
Ora il bambino, quel
“lui era un picchiatore”
sta tutto nella tua memoria
e la morte della madre
si è ripetuta in una giornata
di gelo e malattia.
Ma io posso vederti combattere
a diciotto anni e con il tuo
coraggio aprire il futuro
all'uomo che hai generato
e che è maestro di ogni
storia. Lui scrive e tu
sarai sempre lo specchio sicuro
il braccio saldo che tiene
lontana ogni paura.
Ora vivi nelle sue parole
eterno, lui scrive come
respira e continuerà a
sussurrare storie al tuo
orecchio. Riposa nelle
nuvole vecchio combattente
di certo hai amato come hai
solcato il secolo breve
e mai sei tornato indietro.
Anche noi ricorderemo.

Elena Petrassi
Scrivere il vento
Atì editore 2016

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