Tutti prima o
poi torniamo a cercare nella memoria immagini del passato, episodi, volti e
voci che ci aiutino a ricostruire e a dare un senso alla nostra storia, al
nostro passaggio su questa terra.
Nella
bizzarra tessitura che sono le mie Cronache dall'anno senza Carnevale, sto scorrazzando in compagnia dei lupi avanti e indietro nel tempo e nello spazio, mescolando ricordi, sogni e
immaginazioni.
Immagini e
oggetti concreti si mescolano, il mosaico che ne sta venendo fuori ha un grande
senso per me e vorrei che fosse il catalizzatore della ricerca di senso per voi
che mi state leggendo.
Uno dei luoghi
dove sto tornando spesso è la terra natale di mio padre dove ho trascorso le
estati dagli uno ai diciotto anni, prima che io scegliessi di fuggire verso la
Liguria e poi la Norvegia.
La mia
famiglia andava in vacanza nel mese di agosto. Un lungo viaggio verso la
Calabria dove ci aspettavano la nonna paterna, zii e zie e soprattutto un
nugolo di cugini. Il viaggio era costellato dalle soste nelle stazioni di
servizio della Esso. Quando mio padre faceva il pieno, sentivo che lo slogan
"metti un tigre nel motore" anticipava quel che sarebbe accaduto.
Saremmo ripartiti con slancio e il nastro di chilometri alle nostre spalle
sarebbe stato sempre più lungo di quello che andavamo srotolando. Adoravo
l'odore della benzina, la schiuma del cappuccino dell'Autogrill, le facce
sconvolte dal sonno dei viaggiatori che andavano alla toilette. Anche noi
partivamo nel cuore della notte per rubare la strada vuota a quelli più pigri
che aspettavano le prime luci dell'alba. Io e mio fratello dividevamo il sedile
posteriore con le nostre borse che contenevano: almeno due copie di Topolino,
qualche pacchetto della gomma del Ponte, patatine Pai, biscotti Pavesini.
Finito l'arrembaggio alle provviste, al cui consumo eravamo autorizzati solo
nella tarda mattinata, passavamo il resto del viaggio alternando litigi per il
possesso dei Topolini, ai giochi comuni con i soldatini di mio fratello o le
mie Barbie. A ogni viaggio rimpiangevo che non avremmo mangiato i panini
dell'Autogrill ma le cibarie portate da casa. Il menù standard prevedeva
polpette al sugo, conservate in un thermos cilindrico verde, pomodori, pesche,
pane casereccio a fette, thermos con acqua fresca e caffè per il guidatore.
Nelle auto non c'era aria condizionata, così sul suo sedile mio padre metteva
sempre un grande asciugamano a strisce bianche e rosse che poi avremmo usato in
spiaggia. Mia madre viaggiava con dei pantaloni a sigaretta blu scuro, una
camicetta abbottonata dietro piena di sfumature lilla, azzurre, viola, e una
borsa anni sessanta che sembrava un confetto rivestito di cotone all'uncinetto
blu zaffiro e con il manico rigido. Per un mese smettevo di essere la bambina
di città e diventavo la bambina di campagna che voleva imparare a camminare a
piedi nudi come i cuginetti e lavava i panni nel ruscello davanti alla casa
della nonna.
Durante quei giorni estivi si realizzava quella sospensione della
vita quotidiana di cui scriveva Massimo Gramellini in suo articolo di qualche
anno fa:
"Qualsiasi
viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove
per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e
riaccendere l'interruttore con la speranza che nell'attimo di buio che separa
le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci
restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati."
Ma il giorno
della partenza arrivava inesorabilmente, finite le vacanze, finite le lunghe
ore in spiaggia a correre dentro e fuori dall'acqua, finite le gare nei campi
bruciati, finiti i pic-nic all'ombra della grande quercia, finite le
chiacchierate infinite, inesauribili con mia cugina Maria, detta Mariuccia, per
distinguerla da sua nonna, che era poi mia zia, le nostre fughe sugli alberi,
il cibo rubacchiato in cucina e divorato di nascosto nell'orto. Un mondo si
richiudeva alle nostre spalle quando salivamo in auto per tornare a Milano. Ma
sapevo che quel mondo bruciato dal sole era lì ad aspettarmi e che lo avrei
ritrovato intatto l'anno successivo.
L'ansia del
ritorno veniva rimpiazzata dalla gioia di essere di nuovo a Milano. A volte
partivamo la sera tardi e viaggiavamo di notte. Era meraviglioso attraversare
la pianura dopo Bologna e riconoscere la città dall'odore dell'aria. A
Melegnano ci mettevamo in fila per pagare il pedaggio di uscita dell'Autostrada
del Sole. Ma noi il sole ce lo portavamo dentro e anche nel cibo che la nonna
ci consegnava, come se al nord si fosse in eterna carestia. Oltre al pollo
fritto nella padella di alluminio sul fuoco che era il pasto del viaggio,
pomodori crudi e in salsa, peperoni verdi buoni da friggere, peperoncini rossi
freschi e secchi, qualche soppressata e un capicollo, olio extra-vergine, origano,
aglio e cipolle rosse di Tropea.
Il cibo
teneva a bada la malinconia e la trasformava in uno struggimento dolce, in
quella nostalgia che tagliava la lingua e faceva smettere mio padre di parlare
nel dialetto nativo non appena uscivamo dall'autostrada. In casa parlavamo
italiano perché mia madre era pugliese e quindi nelle loro lingue natali con
mio padre non si sarebbero mai potuti capire. Ma io avevo imparato a decifrare
quelle lingue, anche se non a parlarle. Ogni tanto chiedevo a entrambi di
tradurmi qualcosa nel loro dialetto, forse perché volevo ritrovare l'atmosfera
delle loro infanzie vissute per intero senza conoscere la città.
Ma questa è
un'altra storia, una storia dove improvvisamente io, lui e lei ci ritroviamo
tutti bambini della stessa età.
Penso alle
vacanze perché non sappiamo se l’anno senza Carnevale diventerà anche l’anno
senza vacanze estive.
Penso al
mondo di prima che non esiste più, al mondo di dopo che è un incubo di
mascherine, guanti usa e getta, divisori di plexiglass, un mondo dove si uscirà
di casa il lunedì mattina per arrivare al lavoro il mercoledì pomeriggio visto
come stanno immaginando la fruibilità dei mezzi pubblici qui a Milano.
Penso al
mondo di adesso che è tutto in casa e tutto nei ricordi perché di tutto è
rimasto un poco.
La poesia del
congedo me l’ha letta in un pomeriggio piovoso di oltre trenta anni fa il mio
amico Mimmo che mi ha giusto scritto oggi pomeriggio.
Cosa resterà
di questi giorni che saltano dalla cronaca alla storia senza neanche una sosta,
una pausa, un’attesa?
Carlos Drummond de Andrade
traduzione di
Antonio Tabucchi
Residuo
Di tutto è
rimasto un poco,
Della mia
paura. Del tuo ribrezzo.
Dei gridi
blesi. Della rosa
è rimasto un
poco.
È rimasto un
poco di luce
captata nel
cappello.
Negli occhi
del ruffiano
è restata un
po' di tenerezza
(molto poco)
Poco è
rimasto di questa polvere
che ti coprì
le scarpe
bianche.
Pochi panni sono rimasti,
pochi veli
rotti,
poco, poco,
molto poco.
Ma d'ogni
cosa resta un poco.
Del ponte
bombardato,
delle due
foglie d'erba,
del pacchetto
- vuoto - di
sigarette, è rimasto un poco
Che di ogni
cosa resta un poco.
È rimasto un
po' del tuo mento
nel mento di
tua figlia.
Del tuo
ruvido silenzio
un poco è
rimasto, un poco
sui muri
infastiditi,
nelle foglie,
mute, che salgono.
È rimasto un
po' di tutto
nel piattino
di porcellana,
drago rotto,
fiore bianco,
di rughe
sulla tua fronte,
ritratto.
Se di tutto
resta un poco,
perché mai
non dovrebbe restare
un po' di me?
Nel treno
che porta a
nord, nella nave,
negli annunci
di giornale,
un po' di me
a Londra,
un po' di me
in qualche dove?
nella
consonante?
nel pozzo?
Un poco resta
oscillando
alla foce dei
fiumi
e i pesci non
lo evitano,
un poco: non
viene nei libri.
Di tutto
rimane un poco.
Non molto: da
un rubinetto
stilla questa
goccia assurda,
metà sale e
metà alcool,
salta questa
zampa di rana,
questo vetro
di orologio
rotto in
mille speranze,
questo collo
di cigno,
questo
segreto infantile...
Di ogni cosa
è rimasto un poco:
di me; di te;
di Abelardo.
Un capello
sulla mia manica,
di tutto è
rimasto un poco;
vento nelle
mie orecchie,
rutto
volgare, gemito
di viscere
ribelli,
e minuscoli
artefatti:
campanula,
alveolo, capsula
di
revolver... di aspirina.
Di tutto è
rimasto un poco.
E di tutto
resta un poco.
Oh, apri i
flaconi di profumo
e soffoca
l'insopportabile
lezzo della memoria.
Ma di tutto,
terribile, resta un poco,
e sotto le
onde ritmate,
e sotto le nuvole
e i venti
e sotto i
ponti e sotto i tunnel
e sotto le
fiamme e sotto il sarcasmo
e sotto il
muco e sotto il vomito
e sotto il
singhiozzo, il carcere, il dimenticato
e sotto gli
spettacoli e sotto la morte in scarlatto
e sotto le
biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti
e sotto te
stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi
e sotto i
cardini della famiglia e della classe,
rimane sempre
un poco di tutto.
A volte un
bottone. A volte un topo.
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