giovedì 23 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/46: sotto le nuvole e i venti, di tutto è rimasto un poco


Tutti prima o poi torniamo a cercare nella memoria immagini del passato, episodi, volti e voci che ci aiutino a ricostruire e a dare un senso alla nostra storia, al nostro passaggio su questa terra.

Nella bizzarra tessitura che sono le mie Cronache dall'anno senza Carnevale, sto scorrazzando in compagnia dei lupi avanti e indietro nel tempo e nello spazio, mescolando ricordi, sogni e immaginazioni.

Immagini e oggetti concreti si mescolano, il mosaico che ne sta venendo fuori ha un grande senso per me e vorrei che fosse il catalizzatore della ricerca di senso per voi che mi state leggendo.

Uno dei luoghi dove sto tornando spesso è la terra natale di mio padre dove ho trascorso le estati dagli uno ai diciotto anni, prima che io scegliessi di fuggire verso la Liguria e poi la Norvegia.

La mia famiglia andava in vacanza nel mese di agosto. Un lungo viaggio verso la Calabria dove ci aspettavano la nonna paterna, zii e zie e soprattutto un nugolo di cugini. Il viaggio era costellato dalle soste nelle stazioni di servizio della Esso. Quando mio padre faceva il pieno, sentivo che lo slogan "metti un tigre nel motore" anticipava quel che sarebbe accaduto. Saremmo ripartiti con slancio e il nastro di chilometri alle nostre spalle sarebbe stato sempre più lungo di quello che andavamo srotolando. Adoravo l'odore della benzina, la schiuma del cappuccino dell'Autogrill, le facce sconvolte dal sonno dei viaggiatori che andavano alla toilette. Anche noi partivamo nel cuore della notte per rubare la strada vuota a quelli più pigri che aspettavano le prime luci dell'alba. Io e mio fratello dividevamo il sedile posteriore con le nostre borse che contenevano: almeno due copie di Topolino, qualche pacchetto della gomma del Ponte, patatine Pai, biscotti Pavesini. Finito l'arrembaggio alle provviste, al cui consumo eravamo autorizzati solo nella tarda mattinata, passavamo il resto del viaggio alternando litigi per il possesso dei Topolini, ai giochi comuni con i soldatini di mio fratello o le mie Barbie. A ogni viaggio rimpiangevo che non avremmo mangiato i panini dell'Autogrill ma le cibarie portate da casa. Il menù standard prevedeva polpette al sugo, conservate in un thermos cilindrico verde, pomodori, pesche, pane casereccio a fette, thermos con acqua fresca e caffè per il guidatore. Nelle auto non c'era aria condizionata, così sul suo sedile mio padre metteva sempre un grande asciugamano a strisce bianche e rosse che poi avremmo usato in spiaggia. Mia madre viaggiava con dei pantaloni a sigaretta blu scuro, una camicetta abbottonata dietro piena di sfumature lilla, azzurre, viola, e una borsa anni sessanta che sembrava un confetto rivestito di cotone all'uncinetto blu zaffiro e con il manico rigido. Per un mese smettevo di essere la bambina di città e diventavo la bambina di campagna che voleva imparare a camminare a piedi nudi come i cuginetti e lavava i panni nel ruscello davanti alla casa della nonna. 

Durante quei giorni estivi si realizzava quella sospensione della vita quotidiana di cui scriveva Massimo Gramellini in suo articolo di qualche anno fa:

"Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l'interruttore con la speranza che nell'attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati."
Ma il giorno della partenza arrivava inesorabilmente, finite le vacanze, finite le lunghe ore in spiaggia a correre dentro e fuori dall'acqua, finite le gare nei campi bruciati, finiti i pic-nic all'ombra della grande quercia, finite le chiacchierate infinite, inesauribili con mia cugina Maria, detta Mariuccia, per distinguerla da sua nonna, che era poi mia zia, le nostre fughe sugli alberi, il cibo rubacchiato in cucina e divorato di nascosto nell'orto. Un mondo si richiudeva alle nostre spalle quando salivamo in auto per tornare a Milano. Ma sapevo che quel mondo bruciato dal sole era lì ad aspettarmi e che lo avrei ritrovato intatto l'anno successivo.
L'ansia del ritorno veniva rimpiazzata dalla gioia di essere di nuovo a Milano. A volte partivamo la sera tardi e viaggiavamo di notte. Era meraviglioso attraversare la pianura dopo Bologna e riconoscere la città dall'odore dell'aria. A Melegnano ci mettevamo in fila per pagare il pedaggio di uscita dell'Autostrada del Sole. Ma noi il sole ce lo portavamo dentro e anche nel cibo che la nonna ci consegnava, come se al nord si fosse in eterna carestia. Oltre al pollo fritto nella padella di alluminio sul fuoco che era il pasto del viaggio, pomodori crudi e in salsa, peperoni verdi buoni da friggere, peperoncini rossi freschi e secchi, qualche soppressata e un capicollo, olio extra-vergine, origano, aglio e cipolle rosse di Tropea.

Il cibo teneva a bada la malinconia e la trasformava in uno struggimento dolce, in quella nostalgia che tagliava la lingua e faceva smettere mio padre di parlare nel dialetto nativo non appena uscivamo dall'autostrada. In casa parlavamo italiano perché mia madre era pugliese e quindi nelle loro lingue natali con mio padre non si sarebbero mai potuti capire. Ma io avevo imparato a decifrare quelle lingue, anche se non a parlarle. Ogni tanto chiedevo a entrambi di tradurmi qualcosa nel loro dialetto, forse perché volevo ritrovare l'atmosfera delle loro infanzie vissute per intero senza conoscere la città. 

Ma questa è un'altra storia, una storia dove improvvisamente io, lui e lei ci ritroviamo tutti bambini della stessa età.

Penso alle vacanze perché non sappiamo se l’anno senza Carnevale diventerà anche l’anno senza vacanze estive.

Penso al mondo di prima che non esiste più, al mondo di dopo che è un incubo di mascherine, guanti usa e getta, divisori di plexiglass, un mondo dove si uscirà di casa il lunedì mattina per arrivare al lavoro il mercoledì pomeriggio visto come stanno immaginando la fruibilità dei mezzi pubblici qui a Milano.

Penso al mondo di adesso che è tutto in casa e tutto nei ricordi perché di tutto è rimasto un poco.

La poesia del congedo me l’ha letta in un pomeriggio piovoso di oltre trenta anni fa il mio amico Mimmo che mi ha giusto scritto oggi pomeriggio.

Cosa resterà di questi giorni che saltano dalla cronaca alla storia senza neanche una sosta, una pausa, un’attesa?


Carlos Drummond de Andrade
traduzione di Antonio Tabucchi

Residuo

Di tutto è rimasto un poco,
Della mia paura. Del tuo ribrezzo.

Dei gridi blesi. Della rosa
è rimasto un poco.

È rimasto un poco di luce
captata nel cappello.
Negli occhi del ruffiano
è restata un po' di tenerezza
(molto poco)

Poco è rimasto di questa polvere
che ti coprì le scarpe
bianche. Pochi panni sono rimasti,
pochi veli rotti,
poco, poco, molto poco.

Ma d'ogni cosa resta un poco.
Del ponte bombardato,
delle due foglie d'erba,
del pacchetto
- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco

Che di ogni cosa resta un poco.
È rimasto un po' del tuo mento
nel mento di tua figlia.

Del tuo ruvido silenzio
un poco è rimasto, un poco
sui muri infastiditi,
nelle foglie, mute, che salgono.

È rimasto un po' di tutto
nel piattino di porcellana,
drago rotto, fiore bianco,
di rughe sulla tua fronte,
ritratto.

Se di tutto resta un poco,
perché mai non dovrebbe restare
un po' di me? Nel treno
che porta a nord, nella nave,
negli annunci di giornale,
un po' di me a Londra,
un po' di me in qualche dove?
nella consonante?
nel pozzo?

Un poco resta oscillando
alla foce dei fiumi
e i pesci non lo evitano,
un poco: non viene nei libri.

Di tutto rimane un poco.
Non molto: da un rubinetto
stilla questa goccia assurda,
metà sale e metà alcool,
salta questa zampa di rana,
questo vetro di orologio
rotto in mille speranze,
questo collo di cigno,
questo segreto infantile...
Di ogni cosa è rimasto un poco:
di me; di te; di Abelardo.
Un capello sulla mia manica,
di tutto è rimasto un poco;
vento nelle mie orecchie,
rutto volgare, gemito
di viscere ribelli,
e minuscoli artefatti:
campanula, alveolo, capsula
di revolver... di aspirina.
Di tutto è rimasto un poco.
E di tutto resta un poco.
Oh, apri i flaconi di profumo
e soffoca
l'insopportabile lezzo della memoria.

Ma di tutto, terribile, resta un poco,
e sotto le onde ritmate,
e sotto le nuvole e i venti
e sotto i ponti e sotto i tunnel
e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo
e sotto il muco e sotto il vomito
e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato
e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto
e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti
e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi
e sotto i cardini della famiglia e della classe,
rimane sempre un poco di tutto.
A volte un bottone. A volte un topo.

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