Oggi è morto Luis Sepúlveda, sono profondamente triste e addolorata come tutti i suoi lettori in giro per il mondo. Lo avevo visto a Milano l’ultima volta lo scorse ottobre, in in occasione dello Zacapa Noir Festival ed era stato bello ascoltarlo.
Nel 1993 ho scritto una recensione al suo primo libro “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, la trascrivo per ricordare la gioia che leggere Lucho mi ha sempre dato.
Il tempo in cui si svolge questa storia (Luis Sepulveda, Il vecchio che leggeva romanzi d'amore, Guanda 1993, lire 18.000) è forse il presente, forse soltanto ieri o ieri l'altro. La vastità, la luce verde della foresta amazzonica levano la cognizione del tempo ai coloni. Il tempo che ritorna lento ripiegato su stesso uguale non è lo stesso tempo nel quale viviamo noi occidentali, tesi come frecce nella direzione del futuro. Nella foresta si vive in uno stato di sospensione tra il tempo e l'eternità ed è lì che si svolge la storia che ha come protagonista Antonio José Bolivar Proano, che non è nato in quella terra ancora fitta di misteri agli occhi dei coloni, dei cercatori d'oro o dei semplici avventurieri che di tanto in tanto si fanno vivi sfidando l'inferno verde. Lui è arrivato decenni prima ancora giovane con una moglie al suo fianco, moglie che ha resistito solo pochi anni alla vita sfibrante, al prezzo che la foresta chiede a chi non è suo figlio. Nonostante l'uomo si impegni con tutte le sue forze nel tentativo di odiare la foresta non ci riesce perché si sa impotente. «E nella sua impotenza scoprì che non conosceva abbastanza bene la foresta da poterla odiare». È a partire da questa consapevolezza che Antonio José Bolivar decise che per odiare o per amare deve prima conoscere, imparò la lingua degli abitanti della foresta, gli Shuar, imparò a cacciare servendosi della cerbottana, dimenticò di essere un contadino cattolico, e dimenticò i suoi sogni di vendetta che contemplavano la foresta ardere come un vero inferno sulla terra, dimenticò perché alla fine era stato «sedotto da quei luoghi senza confini e senza padroni».
È nel continuo confronto con una natura vittoriosa che riscopre le potenzialità del suo corpo, la forza dei muscoli, la prontezza dei riflessi, l'acutezza dei sensi.
Antonio José Bolivar era diventato come uno shuar, ma non era uno shuar. Anche se era sopravvissuto al morso del serpente più velenoso, anche se la foresta lo aveva prescelto, anche se aveva potuto amare donne della foresta, lui continuava a essere un bianco, un diverso tra i bianchi e un diverso tra gli shuar. Quando viene scacciato, perché non ha saputo vendicare in maniera degna la morte del suo compagno di caccia e amico, sa di non essere uno shuar, e quando ritorna a vivere tra i bianchi scopre di essere ancora uno di loro, perché sa leggere. «Sapeva leggere. Fu la scoperta più importante di tutta la sua vita. Sapeva leggere. Possedeva l'antidoto contro il terribile veleno della vecchiaia. Sapeva leggere, ma non aveva niente da leggere».
Ed è la lettura che rende, ma non interamente, l'uomo ormai vecchio al suo mondo malato di presunzione. Lo rende a quei suoi simili che sono capaci solo di lasciare il deserto dietro di sé e solo morte al loro passaggio. Il vecchio sa di voler leggere ma non cosa, quindi parte per la caccia, cattura animali che sa di poter rivendere vivi. Il dentista, che diventerà poi il suo fornitore di romanzi, lo presenta alla maestra di El Dorado, dove il vecchio potrà, accedendo alla biblioteca della scuola, farsi un'idea di cosa gli piaccia leggere. Passano cinque mesi prima che egli riesca a scoprire cosa davvero gli piacesse leggere. Ma finalmente trova un libro «dove c'era amore, amore da tutte le parti. I personaggi soffrivano e mescolavano la felicità con le sofferenze in modo così bello, che la lente di ingrandimento gli si appannava di lacrime». E nella lettura di quei romanzi d'amore «che lo aspettavano, tentatori, distesi sul tavolo alto, estranei al passato disordinato a cui Antonio José Bolivar Proano preferiva non pensare, lasciando aperti i pozzi della memoria per riempirli con le gioie e i tormenti di amori più forti del tempo». Niente e nessuno riescono a distogliere il vecchio dalla lettura dei suoi romanzi, solo la paura di perdere la capanna dove vive lo spingono ad aiutare il viscido sindaco di El Idilio nella caccia a una femmina di tigrillo impazzita dal dolore e che sta seminando la morte lungo le rive del fiume.
I felini non uccidono se non spinti dalla fame o dal dolore, e la femmina è stata privata dei suoi cinque cuccioli da un cacciatore idiota che lei ha ucciso subito dopo. L'equilibrio della foresta è infranto, perché nella foresta la morte non arriva mai gratuitamente. I vecchi shuar che sanno di avere esaurito il loro tempo, danno una festa di addio, si ubriacano del succo di una radice allucinogena e si lasciano divorare dalla foresta, tornano a vivere di nuovo nel ventre delle formiche, nei nuovi alberi che nasceranno, nelle vite di quelli che arriveranno dopo.
L'equilibrio deve essere ristabilito e il prezzo del sangue pagato. La femmina impazzita non può vivere e sarà proprio il vecchio, a malincuore, a doverla uccidere.
Le pagine del romanzo che descrivono l'inseguimento, la caccia e la morte dell'animale sono tra le più belle del libro. Incredulo di esserci riuscito Antonio José Bolivar, uccide l'animale e dà il suo corpo al fiume. Sa di essere una creatura della foresta ormai, non solo un gringo, e che forse anche i suoi anni stanno per finire e maledice in cuor suo «tutti coloro che corrompevano la verginità della sua Amazzonia». Perché anche lui è diventato uno dei custodi di quella terra feroce il cui senso a noi bianchi sfugge. Perché come il vecchio potremmo stare in silenzio e ascoltare le voci sconosciute che arrivano dal profondo degli alberi. Potremmo sentire il canto degli uccelli e la voce dei pesci nei fiumi, cose che forse un tempo anche noi occidentali sapevamo fare. Io non credo che basteranno pochi anni perché la nostra cultura riesca a fermarsi e guardarsi intorno. Non credo che nel frattempo riusciremo a impedirci di infliggere nuove, profonde ferite alla terra. Ma credo che il rispetto si possa imparare, credo che si possa anche imparare ad amare. Amare di «quell'amore puro, senza altro fine che l'amore stesso. Senza possesso e senza gelosia».
Perché se è vero che noi non possediamo nulla se non noi stessi e non sempre, ed è vero che la nostra cultura ha ottenuto prima di tutto di far sì che fossero le cose a possederci, perché non leggere libri come questi, libri «che parlavano d'amore con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana»?
Antonio José Bolivar era diventato come uno shuar, ma non era uno shuar. Anche se era sopravvissuto al morso del serpente più velenoso, anche se la foresta lo aveva prescelto, anche se aveva potuto amare donne della foresta, lui continuava a essere un bianco, un diverso tra i bianchi e un diverso tra gli shuar. Quando viene scacciato, perché non ha saputo vendicare in maniera degna la morte del suo compagno di caccia e amico, sa di non essere uno shuar, e quando ritorna a vivere tra i bianchi scopre di essere ancora uno di loro, perché sa leggere. «Sapeva leggere. Fu la scoperta più importante di tutta la sua vita. Sapeva leggere. Possedeva l'antidoto contro il terribile veleno della vecchiaia. Sapeva leggere, ma non aveva niente da leggere».
Ed è la lettura che rende, ma non interamente, l'uomo ormai vecchio al suo mondo malato di presunzione. Lo rende a quei suoi simili che sono capaci solo di lasciare il deserto dietro di sé e solo morte al loro passaggio. Il vecchio sa di voler leggere ma non cosa, quindi parte per la caccia, cattura animali che sa di poter rivendere vivi. Il dentista, che diventerà poi il suo fornitore di romanzi, lo presenta alla maestra di El Dorado, dove il vecchio potrà, accedendo alla biblioteca della scuola, farsi un'idea di cosa gli piaccia leggere. Passano cinque mesi prima che egli riesca a scoprire cosa davvero gli piacesse leggere. Ma finalmente trova un libro «dove c'era amore, amore da tutte le parti. I personaggi soffrivano e mescolavano la felicità con le sofferenze in modo così bello, che la lente di ingrandimento gli si appannava di lacrime». E nella lettura di quei romanzi d'amore «che lo aspettavano, tentatori, distesi sul tavolo alto, estranei al passato disordinato a cui Antonio José Bolivar Proano preferiva non pensare, lasciando aperti i pozzi della memoria per riempirli con le gioie e i tormenti di amori più forti del tempo». Niente e nessuno riescono a distogliere il vecchio dalla lettura dei suoi romanzi, solo la paura di perdere la capanna dove vive lo spingono ad aiutare il viscido sindaco di El Idilio nella caccia a una femmina di tigrillo impazzita dal dolore e che sta seminando la morte lungo le rive del fiume.
I felini non uccidono se non spinti dalla fame o dal dolore, e la femmina è stata privata dei suoi cinque cuccioli da un cacciatore idiota che lei ha ucciso subito dopo. L'equilibrio della foresta è infranto, perché nella foresta la morte non arriva mai gratuitamente. I vecchi shuar che sanno di avere esaurito il loro tempo, danno una festa di addio, si ubriacano del succo di una radice allucinogena e si lasciano divorare dalla foresta, tornano a vivere di nuovo nel ventre delle formiche, nei nuovi alberi che nasceranno, nelle vite di quelli che arriveranno dopo.
L'equilibrio deve essere ristabilito e il prezzo del sangue pagato. La femmina impazzita non può vivere e sarà proprio il vecchio, a malincuore, a doverla uccidere.
Le pagine del romanzo che descrivono l'inseguimento, la caccia e la morte dell'animale sono tra le più belle del libro. Incredulo di esserci riuscito Antonio José Bolivar, uccide l'animale e dà il suo corpo al fiume. Sa di essere una creatura della foresta ormai, non solo un gringo, e che forse anche i suoi anni stanno per finire e maledice in cuor suo «tutti coloro che corrompevano la verginità della sua Amazzonia». Perché anche lui è diventato uno dei custodi di quella terra feroce il cui senso a noi bianchi sfugge. Perché come il vecchio potremmo stare in silenzio e ascoltare le voci sconosciute che arrivano dal profondo degli alberi. Potremmo sentire il canto degli uccelli e la voce dei pesci nei fiumi, cose che forse un tempo anche noi occidentali sapevamo fare. Io non credo che basteranno pochi anni perché la nostra cultura riesca a fermarsi e guardarsi intorno. Non credo che nel frattempo riusciremo a impedirci di infliggere nuove, profonde ferite alla terra. Ma credo che il rispetto si possa imparare, credo che si possa anche imparare ad amare. Amare di «quell'amore puro, senza altro fine che l'amore stesso. Senza possesso e senza gelosia».
Perché se è vero che noi non possediamo nulla se non noi stessi e non sempre, ed è vero che la nostra cultura ha ottenuto prima di tutto di far sì che fossero le cose a possederci, perché non leggere libri come questi, libri «che parlavano d'amore con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana»?
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