venerdì 10 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/33: la casa che è tutte le case

Una sola casa dove ritornare, una casa costruita con tutto quello che ho amato di più nelle case mie e di altri che ho frequentato. 

È un’immaginazione tutta mia e allora procedo e scelgo la ringhiera della mia casa attuale. È un palazzo del 1905 che è sopravvissuto a due guerre, soprattutto la Seconda, quando il giorno della Liberazione gli scontri a fuoco giù in strada furono così intensi che saltarono tutti i vetri, mentre quando venne bombardata la fabbrica tessile De Angeli Frua  nel 1942, la casa non riportò neanche un danno. È una casa di un rosa stinto nato da un rosa carico anziché dal tipico giallo Milano delle case di quei tempi che invecchiando vira, appunto, sul rosa. 

Dalla casa di mia nonna paterna in Calabria mi approprio dell’Acquaro, del fiumiciattolo di acqua che dalle montagne scendeva per confluire nel fiume Follone e poi nel fiume Crati giù sino al Mare Ionio, e poi prendo anche l’orto di mia nonna perché non ne ho mai visto un altro così bello e rigoglioso. 

Dalla casa milanese in zona San Marco dell’amico Vittorio, scomparso da decenni, salvo il terrazzo di oltre cento metri quadrati dove ho trascorso mattine, pomeriggi e sere tra le più belle qui a Milano. Anche questa casa è di inizio Novecento ma è una casa signorile, quindi non ha ringhiere, ma ampi ballatoi, balconi e terrazze. Questa casa la dovrò raccontare per intero prima o poi. 

Torno in Calabria fino alla Contrada Acquafredda e scendo giù per i sentieri ombreggiati dove basta chinarsi per trovare conchiglie fossili e vado sino alla stalla della giumenta Ofelia, il primo animale che io abbia cavalcato e dalla quale sono anche rovinosamente caduta. 

La villa di zio Pietro, la campagna incorniciata dalle sue finestre, le rovine romane nella vigna, le ho già descritte ma nella mia casa ideale ci stanno. 

Un’altra vista indimenticabile è quella sul lago Lemano che si godeva da casa delle mie amiche Elena e Annamaria, a Losanna in rue de Maupas, prendo anche il balcone del loro soggiorno e la vista e li monto nella mia casa immaginaria. 

Giardini tra cui scegliere ne ho parecchi, ma mi accontenterò di quello della villa di Mount Desert nei pressi della quale viveva Marguerite Yourcenar e il giardino inselvatichito della casa di campagna di Fausta a Soliva, dove due enormi abeti dell’Himalaya ombreggiavano tutto un lato e la rosa rampicante copriva quello opposto. 

Non mancano i caminetti nella casa dei sogni, quello della cucina a casa dei miei genitori in Calabria, dove passavano parte dell’anno dopo essere andati in pensione, poi il camino in cucina di mia nonna paterna, un vero focolare d’altri tempi.

Per l’ampiezza delle stanze e i soffitti alti sei metri prenderei quasi tutte le stanze della casa di Via Quintino Sella a Catania dove non c’era il riscaldamento perché l’inverno era inverno solo di nome. 

Per un’altra vista prenderei quella sulla Baia del Silenzio di Sestri Levante, altro mio luogo dell’anima, con una terrazza che dà direttamente sulla spiaggia. 

Uno scorcio di montagna mi arriva da Santa Caterina Falfurva, frazione Paris dove il silenzio della montagna era cullato dalla fontana davanti a casa e da dove partivano meravigliose passeggiate in Val Zebrù.

Della casa dove sono cresciuta con i miei genitori e mio fratello amavo i lunghi corridoi già in parte occupati da librerie che anche io avrei riempito negli anni. 

Di quella casa, più di tutto, vorrei poter portare il profumo che c’era nell’aria, buon cibo, stoffe, libri, il profumo di mia madre, il dopo barba di mio padre che, tutti insieme, non appena si apriva la porta ti facevano sentire di essere tornato a casa.

Librerie mi tengo le mie che mi vanno bene così come sono, la camera da letto vorrei che fosse quella della maison d'hôte in un paesello della Normandia che si chiama St. André d’Hebertot. In quella stanza arredata con colori caldi tutto scintillava d’oro quando arrivava il sole del tramonto.

Per il bagno scelgo quello di un hotel di Washington dove c’era una vasca doppia di marmo, insieme a doppi lavandini, doppia doccia e tappeti dove i piedi affondavano sino alle caviglie. 

Per finire, tutto intorno alla casa ci sarà una terrazza piastrellata con piastrelle italiane, blu, verdi, ocra e crema e una tettoia sostenuta da pilastri separati da grate in ferro battuto che arrivano dal Marocco.

Mi sono soffermata forse più sulle architetture e le viste, agli interni dovrò dedicare un tempo speciale che non fa parte di questa narrazione.

Ecco che la casa ha una sua forma bislacca ma nella quale mi muovo con agio. 

Mi piace quel che vedo dalle finestre, mi piacciano le mura solide, le piastrelle colorate. 

Di nuovo la poesia e l’immaginazione portano a compimento la mia opera e lascio al poeta di dare il tocco finale alla mia casa delle mie immaginazioni:

Casa azzurra

La casa azzurra ha balconi azzurri,
porte azzurre, tetto azzurro.
La casa azzurra imita il cielo,
è un cubo azzurro nel sentiero.
La casa azzurra non ha voce,
le persiane sono chiuse.

Io sto al bordo del sentiero.
Il cielo si fa più limpido.
Tutte le nuvole spariscono.
La casa azzurra non c’è più.


Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

Questa casa azzurra sparita, mi conduce ad altre due “case” molto particolari, la prima è di Anna Maria Ortese che, in un’intervista in appendice al suo libro L’iguana, diceva:

“Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando - per ragioni pratiche - è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera”.


La casa che è tutte le case diventa metafora dell’anima nell'eternità.

E di case, di vita vera e immortale, scriveva il filosofo Emanuele Severino sul Corriere della Sera del 13 gennaio 2014, tornare a casa è svegliarci accanto al fuoco, quale che sia il mondo che ci è toccato:

“Ognuno di noi abita una "casa" chiamiamola così. Attorno, a perdita d'occhio la brughiera. Il fuoco è acceso, la tavola imbandita. Ma capita, guardando verso la finestra, che il vento ci faccia credere di trovarci là fuori - e ci si dimentichi di dove siamo davvero. Si è "a casa". Sin da prima dell'inizio dei tempi. Ci rimarremo in eterno, la casa sarà sempre più accogliente. E invece crediamo di vivere nella terra inospitale che ci ha ghermito col vento. Stando là fuori diciamo: "Ecco il mondo, questa è la vita che ci è toccata". Ci crediamo mortali. Ma quando si muore non si va da qualche parte. Ci si risveglia accanto al fuoco. Non più ingannati dal vento. Né intimoriti. Delle ombre e dal gelo della brughiera. Una povera favola? Non direi, ma una metafora sì: dello Spettacolo che da gran tempo tento di indicare”.

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