È marzo, un
marzo ancora invernale, il passo della primavera non ha ancora preso il
sopravvento sulle ultime battaglie del generale inverno.
Rainer, il
primo poeta non godeva di una grande salute, già da qualche anno viveva nel
Canton du Valais, in Svizzera, in un paesaggio che ricordava i paesaggi della
Spagna e della Provenza, in un piccolo castello del tredicesimo secolo nei
pressi di Sierre, in completa solitudine, occupato solo dal suo lavoro e dalle
rose del suo giardino. Di tanto in tanto, quando l’eccessiva solitudine
minacciava di travolgere le sue forze vitali e diventava pericolosa, partiva
per Parigi o per l’Italia.
Anche l’altro
uomo era un poeta, figlio di pittore: Boris figlio di Leonid, stava
attraversando una fase di grande crisi creativa dominata dall'ansia e
dall'insoddisfazione per la vita moscovita. Una lettera di Rainer a Leonid dove
gli fa i complimenti per i versi di Boris tradotti in francese da Paul Valéry,
rassicura padre e figlio che Rainer, benché seriamente ammalato è ancora in
vita. Per un caso del destino nello stesso periodo gli accadde di leggere il Poema della fine di Marina Cvetaeva,
considerato uno dei vertici della poetessa, questi versi gli confermarono che
nel mondo esisteva un’altra artista la cui ricerca era consonante alla sua
ricerca, che esisteva ancora in concreto la possibilità di una feconda
esistenza creativa.
Alcuni anni
più tardi, dopo la morte sia di Rainer che di Marina, Boris scrisse alla figlia
di lei Ariadna: “Per alcuni anni tutto ciò che scriveva vostra madre, la
limpida ed esaltante risonanza della sua prorompente spiritualità, mi ha tenuto
in uno stato di ininterrotta, beata euforia”.
Già alla fine
di quel mese Boris ha inviato numerose lettere a Marina, forte di quella
coincidenza, la lettera di Rilke, il poema di lei, che egli vedeva come un dono
del destino, ed è proprio ragionando di destino che lui le scrive una prima
appassionata lettera.
“Finalmente
sono con te. Siccome mi è tutto chiaro, e io credo nel destino, potrei anche
tacere, lasciando fare tutto a lui, così vertiginosamente immeritato, così
devoto. Ma proprio in questo pensiero c’è tanto sentimento nei tuoi confronti,
se non tutto il sentimento, che esso non può esprimere. Sei così meravigliosa,
così sorella, così sorella mia la vita, mi sei stata mandata direttamente dal
cielo, coincidi con il limite estremo della mia anima. Sei mia e sei sempre
stata mia, e tutta la mia vita è per te… Sto seduto e leggo come se tu mi
vedessi, e ti amo e voglio che anche tu mi ami… che grande artista sei, che
artista diabolicamente grande Marina!”.
Come in una
sinfonia, dove gli strumenti entrano uno alla volta, ecco che questa tessitura
di parole e poesia inizia a delinearsi. Il direttore d’orchestra è già Boris
anche se ancora non lo sa. La loro corrispondenza è già iniziata da qualche
tempo negli anni 1923-1924 ma fino all'inserzione di Rilke nelle loro vite, l’intensità
di Boris non esplode.
“Ed ecco che
all'improvviso ci sei tu, non creata da me, ma suggerita in me fin dalla
nascita di ogni brivido – in modo esagerato, cioè in tutta la statura del
corpo. Che tu sei terribilmente mia e non sei stata creata da me – ecco il nome
del mio sentimento”.
Nella lettera
del 27 marzo così prosegue Boris:
“Tu sei
oggettiva, e soprattutto hai talento – sei geniale…
Un giorno te lo diranno o forse no. Ma è lo stesso: non una problematica tassa
negativa, ma la positiva arcanicità della parola è sospesa sopra di te come un
tetto d’aria dal cui modello, un anno dopo l’altro, tu vai deducendo la fisica
della tua poesia. Importante è quello che fai. Importante è che tu costruisci
il mondo, che si sposa con il mistero
della genialità. Nei tuoi giorni, tu viva, questo tetto si scioglie e
confonde con il cielo, nel vivo azzurro che sovrasta la città in cui tu vivi o
quella che tu immagini scrivendo la tua fisica. In altri tempi su questo
involucro camminerà la gente, esso sarà il suolo di altre epoche”.
Siamo solo
all'inizio di un anno straordinario che vedrà lo scambio epistolare infittirsi
e poi perdere uno dei raggi di questa stella, perché alla fine del 1926 Rilke
morirà.
Cosa possono
dire a noi contemporanei, noi che siamo quelli che camminiamo sul suolo di
altre epoche queste parole?
Forse, prima
di tutto, che per risuonare uno nell'anima dell’altro non abbiamo bisogno di
avere incontrato la persona cui dedichiamo i nostri pensieri e i nostri
scritti, la persona le cui parole ci fanno vibrare come aria felice. O forse
basterebbe averla incontrata anche poche volte nella vita che poi, per i più
diversi motivi, ci ha separati.
Ma in quest’anno
senza Carnevale è proprio la dimensione della distanza e dell’immaginazione che
voglio esplorare.
Per chi sto
scrivendo? Per chi voi state leggendo?
Anche la
lettura, come la scrittura, porta in sé uno o più destinatari, con cui saremo
felici di condividere le nostre scoperte, le emozioni, le riflessioni, lo
sguardo del poeta, il ritmo della poetessa.
Poesia è
anche tessere in lontananza gli stessi versi, leggersi a bassa voce, leggersi
anche solo nella mente.
Un legame è
nato, un legame più forte anche di un incontro fisico come primo passo di una
reciproca conoscenza, un legame è nato perché esisteva già nel tempo e nei
secoli, un incontro fra due anime, due cuori, due spiriti.
Gli eventi
della vita possono spezzare un dialogo fitto che già tesseva senso e bellezza,
possono impedire la fisicità di un incontro che può dare volto e voce all'altro
che ci ascolta, ma questa non è la dimensione più importante.
Ricordate i
versi di Pedro Salinas “Non ho bisogno di tempo / per sapere come sei:
/conoscersi è luce improvvisa”?
Rilke,
Pasternak e Cvetaeva dal loro anno inciso nel flusso del tempo ci stanno
dicendo proprio questo.
Marina, con
la drammatica vitalità della sua poesia aveva già scritto il 10 luglio 1918 dei
versi che in qualche modo profetizzavano l’incontro con gli altri due poeti.
Io sono una
pagina per la tua penna.
Tutto ricevo.
Sono una pagina bianca.
Io sono la
custode del tuo bene:
lo crescerò e
lo ridarò centuplicato.
Io sono la
campagna, la terra nera.
Tu per me sei
il raggio e l'umida pioggia.
Tu sei il mio
Dio e Signore, e io
sono terra
nera e carta bianca.
Leggo ad alta
voce questa poesia, lo faccio sempre anche con le mie, so che quando provo
stupore e mi chiedo chi abbia scritto quei versi, di avere scritto qualcosa di
buono e di bello.
I versi di
Marina mi colpiscono con la stessa forza della prima lettura che risale a diversi
decenni fa. Sono anch'io intessuta di tempo e di stelle.
Lo dico ai
lupi che se ne stanno accucciati accanto al camino immaginario della mia
brughiera.
Loro alzano
la testa, fiutano l’aria, pare che sorridano e io sento le voci, le loro voci
che mi sussurrano “Continua, continua per chi sta nel tuo mondo reale e anche
per chi come noi, solo nel tuo mondo immaginario”.
Non siamo mai
soli, anche se a volte crediamo di esserlo, la poesia è la nostra estrema
consolazione, un dono che attraversa e varca il tempo e lo spazio, che spalanca
i cancelli dell’Eternità.
Dalla mia
riva io continuo a guardare e scrivo nella luce calante queste nuove parole.
I tre poeti
torneranno, la loro storia si dipanerà, lo sanno anche i lupi che già la
conoscono, lo so anch'io che mi accingo a scrivere il seguito di questa
Cronaca, per un altro giorno non ancora vissuto, per un altro giorno già
desiderato.
*I libri che hanno accompagnato
questa Cronaca sono le Poesie di Marina Cvetaeva, tradotte da
Pietro Zveteremich per Feltrinelli nel 1979; Il settimo sogno. Lettere 1926 di Cvetaeva, Pasternak e Rilke. A cura
di Serena Vitale, Editori Riuniti 1980
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