venerdì 24 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/47: il settimo sogno, tre poeti (almeno) e due lupi


È marzo, un marzo ancora invernale, il passo della primavera non ha ancora preso il sopravvento sulle ultime battaglie del generale inverno.
Rainer, il primo poeta non godeva di una grande salute, già da qualche anno viveva nel Canton du Valais, in Svizzera, in un paesaggio che ricordava i paesaggi della Spagna e della Provenza, in un piccolo castello del tredicesimo secolo nei pressi di Sierre, in completa solitudine, occupato solo dal suo lavoro e dalle rose del suo giardino. Di tanto in tanto, quando l’eccessiva solitudine minacciava di travolgere le sue forze vitali e diventava pericolosa, partiva per Parigi o per l’Italia.

Anche l’altro uomo era un poeta, figlio di pittore: Boris figlio di Leonid, stava attraversando una fase di grande crisi creativa dominata dall'ansia e dall'insoddisfazione per la vita moscovita. Una lettera di Rainer a Leonid dove gli fa i complimenti per i versi di Boris tradotti in francese da Paul Valéry, rassicura padre e figlio che Rainer, benché seriamente ammalato è ancora in vita. Per un caso del destino nello stesso periodo gli accadde di leggere il Poema della fine di Marina Cvetaeva, considerato uno dei vertici della poetessa, questi versi gli confermarono che nel mondo esisteva un’altra artista la cui ricerca era consonante alla sua ricerca, che esisteva ancora in concreto la possibilità di una feconda esistenza creativa.

Alcuni anni più tardi, dopo la morte sia di Rainer che di Marina, Boris scrisse alla figlia di lei Ariadna: “Per alcuni anni tutto ciò che scriveva vostra madre, la limpida ed esaltante risonanza della sua prorompente spiritualità, mi ha tenuto in uno stato di ininterrotta, beata euforia”.

Già alla fine di quel mese Boris ha inviato numerose lettere a Marina, forte di quella coincidenza, la lettera di Rilke, il poema di lei, che egli vedeva come un dono del destino, ed è proprio ragionando di destino che lui le scrive una prima appassionata lettera.

“Finalmente sono con te. Siccome mi è tutto chiaro, e io credo nel destino, potrei anche tacere, lasciando fare tutto a lui, così vertiginosamente immeritato, così devoto. Ma proprio in questo pensiero c’è tanto sentimento nei tuoi confronti, se non tutto il sentimento, che esso non può esprimere. Sei così meravigliosa, così sorella, così sorella mia la vita, mi sei stata mandata direttamente dal cielo, coincidi con il limite estremo della mia anima. Sei mia e sei sempre stata mia, e tutta la mia vita è per te… Sto seduto e leggo come se tu mi vedessi, e ti amo e voglio che anche tu mi ami… che grande artista sei, che artista diabolicamente grande Marina!”.

Come in una sinfonia, dove gli strumenti entrano uno alla volta, ecco che questa tessitura di parole e poesia inizia a delinearsi. Il direttore d’orchestra è già Boris anche se ancora non lo sa. La loro corrispondenza è già iniziata da qualche tempo negli anni 1923-1924 ma fino all'inserzione di Rilke nelle loro vite, l’intensità di Boris non esplode.

“Ed ecco che all'improvviso ci sei tu, non creata da me, ma suggerita in me fin dalla nascita di ogni brivido – in modo esagerato, cioè in tutta la statura del corpo. Che tu sei terribilmente mia e non sei stata creata da me – ecco il nome del mio sentimento”.
Nella lettera del 27 marzo così prosegue Boris:

“Tu sei oggettiva, e soprattutto hai talento – sei geniale… Un giorno te lo diranno o forse no. Ma è lo stesso: non una problematica tassa negativa, ma la positiva arcanicità della parola è sospesa sopra di te come un tetto d’aria dal cui modello, un anno dopo l’altro, tu vai deducendo la fisica della tua poesia. Importante è quello che fai. Importante è che tu costruisci il mondo, che si sposa con il mistero della genialità. Nei tuoi giorni, tu viva, questo tetto si scioglie e confonde con il cielo, nel vivo azzurro che sovrasta la città in cui tu vivi o quella che tu immagini scrivendo la tua fisica. In altri tempi su questo involucro camminerà la gente, esso sarà il suolo di altre epoche”.

Siamo solo all'inizio di un anno straordinario che vedrà lo scambio epistolare infittirsi e poi perdere uno dei raggi di questa stella, perché alla fine del 1926 Rilke morirà.

Cosa possono dire a noi contemporanei, noi che siamo quelli che camminiamo sul suolo di altre epoche queste parole?

Forse, prima di tutto, che per risuonare uno nell'anima dell’altro non abbiamo bisogno di avere incontrato la persona cui dedichiamo i nostri pensieri e i nostri scritti, la persona le cui parole ci fanno vibrare come aria felice. O forse basterebbe averla incontrata anche poche volte nella vita che poi, per i più diversi motivi, ci ha separati.

Ma in quest’anno senza Carnevale è proprio la dimensione della distanza e dell’immaginazione che voglio esplorare.

Per chi sto scrivendo? Per chi voi state leggendo?

Anche la lettura, come la scrittura, porta in sé uno o più destinatari, con cui saremo felici di condividere le nostre scoperte, le emozioni, le riflessioni, lo sguardo del poeta, il ritmo della poetessa.

Poesia è anche tessere in lontananza gli stessi versi, leggersi a bassa voce, leggersi anche solo nella mente.

Un legame è nato, un legame più forte anche di un incontro fisico come primo passo di una reciproca conoscenza, un legame è nato perché esisteva già nel tempo e nei secoli, un incontro fra due anime, due cuori, due spiriti.
Gli eventi della vita possono spezzare un dialogo fitto che già tesseva senso e bellezza, possono impedire la fisicità di un incontro che può dare volto e voce all'altro che ci ascolta, ma questa non è la dimensione più importante.
Ricordate i versi di Pedro Salinas “Non ho bisogno di tempo / per sapere come sei: /conoscersi è luce improvvisa”?

Rilke, Pasternak e Cvetaeva dal loro anno inciso nel flusso del tempo ci stanno dicendo proprio questo.
Marina, con la drammatica vitalità della sua poesia aveva già scritto il 10 luglio 1918 dei versi che in qualche modo profetizzavano l’incontro con gli altri due poeti.


Io sono una pagina per la tua penna.
Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.
Io sono la custode del tuo bene:
lo crescerò e lo ridarò centuplicato.

Io sono la campagna, la terra nera.
Tu per me sei il raggio e l'umida pioggia.
Tu sei il mio Dio e Signore, e io
sono terra nera e carta bianca.


Leggo ad alta voce questa poesia, lo faccio sempre anche con le mie, so che quando provo stupore e mi chiedo chi abbia scritto quei versi, di avere scritto qualcosa di buono e di bello.

I versi di Marina mi colpiscono con la stessa forza della prima lettura che risale a diversi decenni fa. Sono anch'io intessuta di tempo e di stelle.
Lo dico ai lupi che se ne stanno accucciati accanto al camino immaginario della mia brughiera.

Loro alzano la testa, fiutano l’aria, pare che sorridano e io sento le voci, le loro voci che mi sussurrano “Continua, continua per chi sta nel tuo mondo reale e anche per chi come noi, solo nel tuo mondo immaginario”.
Non siamo mai soli, anche se a volte crediamo di esserlo, la poesia è la nostra estrema consolazione, un dono che attraversa e varca il tempo e lo spazio, che spalanca i cancelli dell’Eternità.

Dalla mia riva io continuo a guardare e scrivo nella luce calante queste nuove parole.

I tre poeti torneranno, la loro storia si dipanerà, lo sanno anche i lupi che già la conoscono, lo so anch'io che mi accingo a scrivere il seguito di questa Cronaca, per un altro giorno non ancora vissuto, per un altro giorno già desiderato.


*I libri che hanno accompagnato questa Cronaca sono le  Poesie di Marina Cvetaeva, tradotte da Pietro Zveteremich per Feltrinelli nel 1979; Il settimo sogno. Lettere 1926 di Cvetaeva, Pasternak e Rilke. A cura di Serena Vitale, Editori Riuniti 1980

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