La gioia sta all'eternità come la felicità sta all'istante.
Non ho nessuna prova se non la mia esperienza di vita, se
non la poesia, di altri e mia.
Da decenni raccolgo citazioni e poesie, mi confronto con
altri poeti e scrittori nel dialogo silenzioso che è la lettura, una delle
attività umane che mi rende gioiosa.
Quando scrivo sono gioiosa, e non è solo un sentimento della
mente, ma è qualcosa che parte dal corpo e vi ritorna, che scorre attraverso le
dita sino all'inchiostro e alla pagina e ritorna attraverso le parole e la
vista, giù nel profondo del cuore.
Antonella Anedda, una delle poetesse che sta in cima al mio
personale Olimpo, ha intitolato uno dei suoi libri Il catalogo della gioia e in esergo ha citato il rabbino Nachman di
Breslaw “A chi gli chiedeva quale differenza ci fosse tra l’essere tristi e avere
il cuore spezzato, Nachman rispose che avere il cuore spezzato non impediva la
gioia”.
Siamo tutti cuori spezzati in questo periodo storico, noi
stessi con le nostre vite chiuse nell'intimo delle case, siamo diventati storia
vivente. Forse non è mai accaduto prima di questa pandemia che la cronaca si
facesse storia condivisa giorno dopo giorno.
Ma il nostro cuore spezzato, che insegue la gioia, sa ancora
riconoscerla quando la prova.
Gli amori che nascono alle finestre della nostra clausura o
sui balconi, gli amori che nascono nella condivisione di parole mai pronunciate
prima, gli amori che resistono alla mancanza d’aria, alla lontananza, la
scoperta di avere bisogno di poco per stare bene e che quel che manca non sono
le cose ma le relazioni, le persone.
La gioia si manifesta quando le idee fluiscono e si
preparano a trovare casa nello studio o in una lettera, quando il mistero della
poesia irrompe nei gesti della vita quotidiana e li rende eterni con poche
frasi.
Scriveva la poetessa russa Marina Cvetaeva, che visse in
tempi tremendi, nei suoi taccuini moscoviti:
“Alle 10 la giornata è finita. Talvolta sego e taglio legna
per il giorno dopo. Alle 11 o alle 12 vado a letto. Sono felice del lumino
proprio accanto al guanciale, del silenzio, del quaderno, della sigaretta,
talvolta - del pane.
Scrivo malamente, in fretta. Non ho annotato né le ascensioni
in soffitta - niente scala (l'hanno bruciata) - mi isso con una corda - per
prendere le travi, né le continue ustioni delle braci che (impazienza?
esasperazione?) afferro direttamente con le mani, né le corse su e giù per i kommissionnye (che abbiano venduto tutte
le mie cose?) e per le cooperative (che distribuiscano?).
Non ho annotato la cosa più importante: l'allegria,
l'acutezza di pensiero, le esplosioni di gioia ad ogni più piccolo colpo di
fortuna, l'appassionata tensione di tutto l'essere - tutti i muri sono coperti
di versi e di NB! per il taccuino”.
Anche Oliver Sacks, neuroscienzato e narratore impagabile
scrive nella sua autobiografia In
movimento”:
“(...) l'atto di scrivere, quando va bene, mi dà un piacere,
una gioia, che non somiglia a nessun'altra. Mi porta in un altrove che mi
assorbe interamente facendomi dimenticare tutto, ansie, preoccupazioni e
persino il passare del tempo. In quel raro, paradisiaco stato della mente
arrivo a scrivere senza sosta fino a che non riesco più a vedere il foglio. E
solo allora scopro che è scesa la sera”.
E solo allora scopro che è scesa la sera, in questo senso la
gioia si rapporta all’eternità perché il tempo cessa di esistere, mentre la
felicità è quella freccia che ci trafigge e ci inchioda all’attimo presente e
subito ne abbiamo nostalgia, perché è passato.
Ancora Marina Cvetaeva scriveva a Rilke nell’epistolario che
ho già citato in qualche Cronaca fa:
“Ti aspetto con gioia come se tu fossi un intero paese e
completamente nuovo”.
Lorenzo Gobbi, poeta e scrittore che vi ho già presentato,
ha scritto un piccolo meraviglioso libro, il Lessico della gioia, di cui riporto il brano iniziale del secondo
capitolo:
“La gioia è l’esito di una liberazione: è sostanza di vita
liberata. In essa, la nostra vita può parlarci con infinita libertà, cioè con
una sincerità disarmante. È ragionevole credere che la gioia sia un rivelarsi
fulmineo del mondo e del suo senso, e che scaturisca innanzi tutto dalla
prossimità dell’essere stesso che si dona a noi nel linguaggio che più gli è
congeniale: immagini, bagliori e luccichìi. Ce lo conferma Hölderlin, in uno
dei suoi sorprendenti colloqui con Diotìma:
Vieni, è la gioia intorno. Al bosco i rami
sono vento nel fresco della brezza
come ricci alla danza, e il cielo
è uno spirito lieto
che al suono della lira
ritma sopra la terra
pioggia e luce di sole. Sulle corde
un brulichìo molteplice di suoni,
battaglia innamorata.
Luce e ombra s’alternano melodici,
dileguano oltre i monti.
Prima il cielo sommesso tocca il fiume
fraterno d’una gocciola d’argento.
Prossimo ora agita
la preziosa pienezza del suo cuore
sul bosco e il fiume.
Una pioggia primaverile, rapida e leggera, è l’immagine
stessa della gioia. Il cielo la alterna sapientemente alla luce del sole, come
due aspetti di un unico dono che ne svela la “preziosa pienezza” – quella
stessa che si “àgita” in prossimità delle cose, pronta a rivelarsi in questa
armonia”.
La dimensione fusionale con la natura è fonte certa di
gioia, così come lo sono, per quanto mi riguarda, la vicinanza dei bambini, dei
gatti, le conversazioni con gli amici, anche solo al telefono, le onde del
mare, le nuvole, il vento che fa cantare gli alberi, l’aria intorno che muta e
si fa fiutare come fossimo lupi appena scesi dalle montagne, spesso in coppia
in quella fedeltà reciproca che solo i lupi conoscono.
È fonte di gioia la mia biblioteca, i libri che ancora non
ho letto, i libri che ancora non ho scritto, mi danno gioia i tanti post
intelligenti e riflessivi che leggo nella mia bolla social, le fotografie che
mi mostrano la bellezza del mondo in questo tempo dove non posso andare in
nessun luogo.
Tornerò a scrivere della gioia, perché oggi la sento fluire
in me, nonostante tutto.
Il mio congedo odierno è una poesia che ho copiato tanti anni fa sul
mio taccuino ma di cui, purtroppo, non conosco il libro da cui è tratta e il
traduttore.
Le prime ore
Le prime ore del mattino. Ancora non scrivi
(anzi, non provi nemmeno a scrivere) leggi solo pigramente
Tutto è fermo, tranquillo, pieno, ma
come per un regalo della musa della lentezza,
come tempo fa, nell'infanzia, in vacanza, quando a lungo
si studiava una mappa colorata prima della gita, una mappa
che prometteva così tanto, stagni profondi nel bosco
come occhi luminosi di farfalla, prati di montagna
coperti di erba pungente;
oppure un momento prima di addormentarsi, quando
ancora non ci sono sogni,
ma già si sente il loro arrivo da ogni parte del mondo,
la loro marcia, il pellegrinaggio, la loro veglia al letto del malato
(malato per davvero) e il vigore tra sculture medievali
rannicchiate in sé nell'eterna immobilità sopra la cattedrale;
le prime ore del mattino, silenzio
- ancora non scrivi,
ancora non capisci così tanto.
La gioia è vicina.
Adam Zagajewski
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