Ricordo ogni primo giorno di scuola della mia mia vita
scolastica dai sei ai diciotto anni.
Era una festa ogni primo giorno di ottobre, era l’inizio di
una avventura, di scoperte infinite, del piacere di stare in classe con bambini
nuovi. O meglio, alle elementari eravamo solo bambine, quarantadue in prima,
qualcuna meno quando siamo arrivate in quinta, ma solo perché le famiglie si
erano trasferite altrove, come la mia prima compagna di banco Laura. Portavamo
grembiuli bianchi e un enorme fiocco rosa che solo in quinta diventò un
fiocchetto rosso.
I due mondi maschile femminile erano segregati, non so dire
se sia stato un bene o un male, ma era così. I maschi erano un mondo altro,
rumoroso, polveroso, pieno di guerre, automobiline, biglie, lotte all’ultimo
sangue, palloni. Il mondo delle bambine non era meno violento, litigavamo e ci
picchiavamo anche noi, facevamo pace e ci nominavamo l’un l’altra amica
preferita. Per questo mi stupisco sempre quando leggo libri e articoli che
magnificano la tenerezza e la bontà naturali dei bambini, perché mi ricordo che
non era così, almeno per me non è stato così. Il paradiso instabile delle
scuole elementari, dove cambiammo maestra ogni anno, finì in un soffio. Ricordo
quanto mi piacesse andare a scuola, ricordo lo stupore delle maestre che stavano
spettegolando su una collega molto bella durante l’intervallo e io, settenne
saputella, ero intervenuta sentenziando che la maestra in questione fosse una
falsa magra e per questo mio intervento finii per la prima volta in presidenza.
Il primo giorno di scuola in prima elementare, quando suonò
la campanella ero tutta intenta a colorare con una matita in ogni mano un
paesaggio campestre. Mentre tutte le altre bambine schizzarono fuori, io
continuai imperterrita a completare la mia opera.
La maestra Galbiati si avvicinò un po’ stupita dicendomi che
era suonata la campanella e io di rimando “Ma è già finita? Devo andare a casa?”.
Questa mia propensione a vivere incollata al mio banco fece sì che nelle prime
settimane di scuola fui costretta dalla maestra a sedermi con una compagna di
banco nuova quasi ogni giorno, l’ultimo banco con Laura ci misi un po’ a conquistarlo
prima di perderlo a causa delle nostre chiacchiere, perché avevo la capacità di
consolare e distrarre le bambine che piangevano disperate perché volevano
tornare a casa dalla mamma. Ne ricordo una in particolare, Carla Giglio, che
aiutai davvero ad abituarsi a stare in classe, ad accettare quella prigionia
che aveva nobili finalità.
Fu però determinante per la mia vita futura, il primo giorno
di scuola alle medie. Per la prima volta femmine e maschi erano seduti in
classe insieme. Stupore e terrore, curiosità e meraviglia! Eravamo forse un po’
più bambine che bambini, uno tra loro mi colpì immediatamente perché era bello,
aveva gli occhi verdi, le lentiggini e una zazzera ribelle. Non riusciva a
stare fermo e la sua indisciplina, opposta e complementare alla mia quiete, lo
resero irresistibile ai miei occhi.
Quando andammo in cortile per la ricreazione passai i primi minuti
a osservarlo, cercando di capire come fare amicizia. Così mi avvicinai con fare
noncurante e tanto per farmi notare salii sul gradino della cancellata che
rinchiudeva il giardino e, aggrappata alle sbarre, iniziai a saltare su e giù,
convinta di apparire come una leggiadra creatura agli occhi del bello
sconosciuto che, infatti, mi notò. Quando distava pochi metri da me, smisi di
saltare e mi fermai a guardarlo. Avete in mente il primo sguardo di Lancillotto
e Ginevra? E quello di Eloisa e Abelardo? Forse addirittura quello di Adamo ed
Eva? Il mio cuore faceva capriole nel petto, Marco, il figlio della portinaia e
mio promesso sposo dall’età dei sei anni, venne cancellato con uno di quei
saltelli. Vidi il mio nuovo innamorato avvicinarsi sempre più velocemente, poi
prendere la rincorsa, darmi una spinta micidiale e dopo avermi abbattuta
sedersi su di me e con un sorriso ineguagliabile dirmi “Ciao io mi chiamo
Davide. E tu come ti chiami? Chi sei?”.
Diventammo inseparabili all'istante. Davide era davvero un
bambino problematico e l’unico modo per farlo stare fermo era concedergli di
essere il mio compagno di banco. Riusciva a stare fermo qualche minuto e poi mi
disfaceva la coda, la treccia o qualunque altra acconciatura io avessi, e intrecciava
con le sue mani belle e forti i miei capelli. Così quando arrivavo a casa davo
a mia madre bizzarre spiegazioni sul cambio di pettinatura.
Un giorno Davide venne chiamato alla cattedra perché, per l’ennesima
volta, non aveva fatto i compiti. Lui si difendeva con la professoressa di
matematica sostenendo che la colpa fosse di suo padre, che lo aveva picchiato
come faceva sempre. E si mise a piangere e singhiozzare. Dato che non si calmava
l’insegnante, ormai rassegnata al mio ruolo di pacificatrice, mi chiamò alla
cattedra perché lo riaccompagnassi al suo posto. Quando arrivai, mentre lei
cercava di rassicurare gli altri compagni, Davide che nascondeva il viso tra le
mani giunte e pareva inconsolabile, aprì uno spiraglio tra le dita, mi sorrise
e mi fece l’occhiolino. Tornammo al nostro banco e lui si mise a farmi una
treccia, io era incredula della sua faccia tosta, ma la cosa finì lì. O meglio
non finì perché la nostra precoce storia d’amore era ormai sulla bocca di tutti
e capii che molte bambine erano gelose di me, che avrebbero voluto essere al
mio posto, e molte professoresse riprovavano quell’impeto pre-adolescenziale
che ci animava.
Proprio nelle prime settimane di scuola ci fu un’altra piccola
tragedia, perché quando ebbi la conferma di essere stata sorteggiata per la
classe di francese, anziché di inglese come anelavo. Avevo comunicato ai miei
genitori che non sarei più andata a scuola, tanto più che Davide avrebbe
studiato tedesco e non francese. Mio padre, paziente andò a parlare col preside
Magoni, ma non ci fu verso di accontentarmi. Non ero l’unica studentessa che
aveva espresso le sue rimostranze, ma mi rassegnai e presto fui felice di
studiare francese, una lingua che mi aveva subito rapita per la sua dolcezza,
una lingua amorosa pensavo nel turbinio del mio legame con Davide e quanto
rimpiangevo che lui non studiasse francese con me.
Le stagioni passarono come passano le stagioni, lunghe se
siamo infelici, brevi quando lo siamo.
A maggio, durante la fioritura delle rose, Davide arrivò in
classe con una enorme rosa rossa. Dato che non mi vide subito, eravamo in
intervallo e lui era arrivato in ritardo, chiese ai compagni dove fossi e
quando io rientrai perché qualcuno mi disse che lui mi stava cercando, si
avvicinò e mi porse la rosa “Questa è per te, l’ho raccolta da un cespuglio che
vedo ogni mattina quando vengo a scuola”. Subito dopo andammo in palestra e la
sciocca insegnante di ginnastica, la signora Rosa quando mi vide con quel fiore
magnifico in mano, disse che starebbe stato benissimo sulla sua giacca verde, a
meno che io non ci tenessi a tenerlo, visto che mi ero fidanzata con Davide. Le
porsi la rosa senza dire nulla e andai a saltare alla cavallina, cosa che mi
terrorizzava ma che la mia amica Giorgia mi aveva insegnato. Davide piaceva
tantissimo anche a lei ma se ne disamorò quando lui la sfidò a dargli un pugno
nello stomaco dopo aver nascosto sotto il maglioncino, lo schienale di una
sedia che aveva smontato poco prima.
Quando la lezione di ginnastica finì mi attardai nello
spogliatoio, aspettai che le compagne sciamassero in classe seguite dalla
stupida signora Rosa che aveva aiutato una ragazzina imbranata a saltare e
questa si era aggrappata al suo bavero e la mia povera rosa si era spetalata ed
era finita in macerie sul pavimento.
Raccolsi tutti i petali e li nascosi nella borsa da
ginnastica, Davide non mi chiese nulla della rosa né io gli raccontai quanto
era accaduto.
Una volta a casa incollai tutti i petali nel mio diario di
undicenne, e alcuni li usai per tracciare un cuore e scrissi i nostri nomi
accanto.
Fu quella primavera che imparai a memoria i Sonnets à Hélène di Pierre de Ronsard e
mi chiedevo, quando la recitavo per imprimerla nella mente, se un giorno avrei
provato le emozioni descritte dal poeta, non tanto il rifiuto della bella
Hélène, ma il rimpianto della giovinezza che il poeta sapeva che un giorno lei
avrebbe provato.
Le rose del tempo presente di Ronsard diventarono un tutt’uno
con la mia rosa smembrata.
Le rose sono onnipresenti nelle mie poesie, le rose reali,
quelle metaforiche, quelle poetiche e quelle solo immaginate.
Dopo la fine di quell'anno scolastico non ho mai più visto
Davide, la sua famiglia si era trasferita in un altro quartiere. Si ripeteva la
perdita che avevo già subito con Laura alle elementari. Così, di nascosto da
tutti, avevo cercato il suo numero di telefono e lo avevo trovato. Con il batticuore
ero andata in una cabina telefonica a gettoni e avevo telefonato. Mi rispose
suo fratello maggiore Egidio. Davide non era in casa, era uscito con suo padre
e sarebbe rientrato più tardi. Gli chiesi di dirgli che Elena aveva chiamato.
Pensavo che quella rosa avrebbe tenuto saldo il nostro sentimento. Ma Davide
non richiamò e io non feci altri tentativi di cercarlo. Qualche tempo dopo
decisi di distruggere il mio primo diario d’infanzia. Ma quando arrivai alle
pagine con il cuore di petali rossi ormai essiccati, le strappai e le misi da
parte, in un’agenda che diventò il mio secondo diario qualche anno dopo.
Quel che resta della rosa è solo il suo nome e l’ombra del
suo profumo “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Il libro di Eco sarebbe
stato pubblicato qualche anno dopo e quando arrivai alla fine del romanzo, il
latino studiato alle scuole medie mi fece comprendere il senso dell’ultima
frase de Il nome della rosa.
La mia seconda lingua d’elezione, il francese, nasce in me
durante quell'anno e la passione è cresciuta insieme alla passione per Davide.
Dopo Ronsard ci fu Villon con le sue belle dame e le nevi
del tempo passato. E poi, alla rinfusa, Marcel Proust, Guy de Maupassant, Gustave
Flaubert, Emile Zola, Honoré de Balzac, Victor Hugo, i due Alexandre Dumas, Madame
de Lafayette, Denis Diderot, Michel de Montaigne, il marchese de Sade, Benjamin
Constant, Gautier, Anatole France, André Gide, André Malraux, Colette, Simone de
Beauvoir, Jean Paul Sartre, Jean Genet, Violette Leduc, Guillaume Apollinaire, Jacques
Prévert, Paul Valery, Louis-Ferdinand Céline, Albert Camus, Jean Grenier, Marguerite Yourcenar, Julia Kristeva, Charles-Ferdinand
Ramuz, Marie Cardinal, Emmanuèl Carrère, i poeti Yves Bonnefoy e Philippe Jaccottet,
Philippe Dijan, Françoise Sagan, Marguerite Duras, Nathalie Sarraute, Jean
Giono, Milan Kundera, Patrick Modiano, Raymond Queanau, Saint-John Perse, Kenizé
Mourad, Pascal Quignard, Lydie Salvayre, Danielle Dallenave, Irène Némirovsky, Agota
Kristof, Anaïs Nin, Henri-Pierre Roché, Romain Gary, Andreï Makine, Henri
Troyat, Albert Cohen e tutti gli altri che ora sfuggono da questa mia lista
francese.
L’ombra dei mirti e delle rose, le belle dame e le nevi del
tempo passato vivono in noi, nelle nostre parole.
Ecco il primo Sonnets
che so ancora a memoria, “par coeur” come si dice in francese.
Quand vous serez bien vieille, au soir, à la chandelle,
Assise auprès du feu,
dévidant et filant,
Direz, chantant mes
vers, en vous émerveillant:
“Ronsard me célebrait
du temps que j’étais belle”
Lors, vous n’aurez servante oyant telle nouvelle,
Déjà sous le labeur à demi sommeillant,
Qui au bruit de Ronsard ne s’aille réveillant,
Bénissant votre nom de louange immortelle.
Je serai sous la terre, et, fantôme sans os,
Par les ombres myrteux je prendrai mon repos:
Vous serez au foyer
une vieille accroupie,
Regrettant mon amour
et votre fier dédain.
Vivez, si m’en croyez, n’attendez à demain:
Cueillez dès aujourd’hui les roses de la vie.
Quando sarete molto vecchia, di sera, alla luce della candela,
seduta accanto al fuoco, dipanando e filando,
direte, recitando i miei versi e meravigliandovi:
“Ronsard mi celebrava quando ero bella”
Allora non ci sarà serva che ascoltando questa storia,
già mezza addormentata sul suo lavoro,
che al nome di Ronsard non si sveglierà e
benedirà il vostro nome di lodi immortali.
Io sarò sotto terra e, fantasma senza ossa,
all'ombra dei mirti mi riposerò:
voi sarete una vecchia rattrappita,
che rimpiangerà il mio amore e il suo fiero sdegno.
Vivete, se volete credermi, non aspettate domani:
cogliete subito oggi, le rose della vita.
(la traduzione di fretta è mia, se vi interessa ce n’è una di
Mario Praz, ma mi sembrava fatta in un italiano desueto)
1 commento:
Tenerezza e delicatezza sono ll leitmotiv del racconto odierno. I tuoi ricordi risvegliano seppur nelle differenze anche i miei ricordi per un periodo che ha plasmato la personalita
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