giovedì 2 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/25: l’ombra dei mirti e una rosa perduta


Ricordo ogni primo giorno di scuola della mia mia vita scolastica dai sei ai diciotto anni.

Era una festa ogni primo giorno di ottobre, era l’inizio di una avventura, di scoperte infinite, del piacere di stare in classe con bambini nuovi. O meglio, alle elementari eravamo solo bambine, quarantadue in prima, qualcuna meno quando siamo arrivate in quinta, ma solo perché le famiglie si erano trasferite altrove, come la mia prima compagna di banco Laura. Portavamo grembiuli bianchi e un enorme fiocco rosa che solo in quinta diventò un fiocchetto rosso.

I due mondi maschile femminile erano segregati, non so dire se sia stato un bene o un male, ma era così. I maschi erano un mondo altro, rumoroso, polveroso, pieno di guerre, automobiline, biglie, lotte all’ultimo sangue, palloni. Il mondo delle bambine non era meno violento, litigavamo e ci picchiavamo anche noi, facevamo pace e ci nominavamo l’un l’altra amica preferita. Per questo mi stupisco sempre quando leggo libri e articoli che magnificano la tenerezza e la bontà naturali dei bambini, perché mi ricordo che non era così, almeno per me non è stato così. Il paradiso instabile delle scuole elementari, dove cambiammo maestra ogni anno, finì in un soffio. Ricordo quanto mi piacesse andare a scuola, ricordo lo stupore delle maestre che stavano spettegolando su una collega molto bella durante l’intervallo e io, settenne saputella, ero intervenuta sentenziando che la maestra in questione fosse una falsa magra e per questo mio intervento finii per la prima volta in presidenza.

Il primo giorno di scuola in prima elementare, quando suonò la campanella ero tutta intenta a colorare con una matita in ogni mano un paesaggio campestre. Mentre tutte le altre bambine schizzarono fuori, io continuai imperterrita a completare la mia opera.

La maestra Galbiati si avvicinò un po’ stupita dicendomi che era suonata la campanella e io di rimando “Ma è già finita? Devo andare a casa?”. Questa mia propensione a vivere incollata al mio banco fece sì che nelle prime settimane di scuola fui costretta dalla maestra a sedermi con una compagna di banco nuova quasi ogni giorno, l’ultimo banco con Laura ci misi un po’ a conquistarlo prima di perderlo a causa delle nostre chiacchiere, perché avevo la capacità di consolare e distrarre le bambine che piangevano disperate perché volevano tornare a casa dalla mamma. Ne ricordo una in particolare, Carla Giglio, che aiutai davvero ad abituarsi a stare in classe, ad accettare quella prigionia che aveva nobili finalità.

Fu però determinante per la mia vita futura, il primo giorno di scuola alle medie. Per la prima volta femmine e maschi erano seduti in classe insieme. Stupore e terrore, curiosità e meraviglia! Eravamo forse un po’ più bambine che bambini, uno tra loro mi colpì immediatamente perché era bello, aveva gli occhi verdi, le lentiggini e una zazzera ribelle. Non riusciva a stare fermo e la sua indisciplina, opposta e complementare alla mia quiete, lo resero irresistibile ai miei occhi.

Quando andammo in cortile per la ricreazione passai i primi minuti a osservarlo, cercando di capire come fare amicizia. Così mi avvicinai con fare noncurante e tanto per farmi notare salii sul gradino della cancellata che rinchiudeva il giardino e, aggrappata alle sbarre, iniziai a saltare su e giù, convinta di apparire come una leggiadra creatura agli occhi del bello sconosciuto che, infatti, mi notò. Quando distava pochi metri da me, smisi di saltare e mi fermai a guardarlo. Avete in mente il primo sguardo di Lancillotto e Ginevra? E quello di Eloisa e Abelardo? Forse addirittura quello di Adamo ed Eva? Il mio cuore faceva capriole nel petto, Marco, il figlio della portinaia e mio promesso sposo dall’età dei sei anni, venne cancellato con uno di quei saltelli. Vidi il mio nuovo innamorato avvicinarsi sempre più velocemente, poi prendere la rincorsa, darmi una spinta micidiale e dopo avermi abbattuta sedersi su di me e con un sorriso ineguagliabile dirmi “Ciao io mi chiamo Davide. E tu come ti chiami? Chi sei?”.

Diventammo inseparabili all'istante. Davide era davvero un bambino problematico e l’unico modo per farlo stare fermo era concedergli di essere il mio compagno di banco. Riusciva a stare fermo qualche minuto e poi mi disfaceva la coda, la treccia o qualunque altra acconciatura io avessi, e intrecciava con le sue mani belle e forti i miei capelli. Così quando arrivavo a casa davo a mia madre bizzarre spiegazioni sul cambio di pettinatura.

Un giorno Davide venne chiamato alla cattedra perché, per l’ennesima volta, non aveva fatto i compiti. Lui si difendeva con la professoressa di matematica sostenendo che la colpa fosse di suo padre, che lo aveva picchiato come faceva sempre. E si mise a piangere e singhiozzare. Dato che non si calmava l’insegnante, ormai rassegnata al mio ruolo di pacificatrice, mi chiamò alla cattedra perché lo riaccompagnassi al suo posto. Quando arrivai, mentre lei cercava di rassicurare gli altri compagni, Davide che nascondeva il viso tra le mani giunte e pareva inconsolabile, aprì uno spiraglio tra le dita, mi sorrise e mi fece l’occhiolino. Tornammo al nostro banco e lui si mise a farmi una treccia, io era incredula della sua faccia tosta, ma la cosa finì lì. O meglio non finì perché la nostra precoce storia d’amore era ormai sulla bocca di tutti e capii che molte bambine erano gelose di me, che avrebbero voluto essere al mio posto, e molte professoresse riprovavano quell’impeto pre-adolescenziale che ci animava.

Proprio nelle prime settimane di scuola ci fu un’altra piccola tragedia, perché quando ebbi la conferma di essere stata sorteggiata per la classe di francese, anziché di inglese come anelavo. Avevo comunicato ai miei genitori che non sarei più andata a scuola, tanto più che Davide avrebbe studiato tedesco e non francese. Mio padre, paziente andò a parlare col preside Magoni, ma non ci fu verso di accontentarmi. Non ero l’unica studentessa che aveva espresso le sue rimostranze, ma mi rassegnai e presto fui felice di studiare francese, una lingua che mi aveva subito rapita per la sua dolcezza, una lingua amorosa pensavo nel turbinio del mio legame con Davide e quanto rimpiangevo che lui non studiasse francese con me.

Le stagioni passarono come passano le stagioni, lunghe se siamo infelici, brevi quando lo siamo.

A maggio, durante la fioritura delle rose, Davide arrivò in classe con una enorme rosa rossa. Dato che non mi vide subito, eravamo in intervallo e lui era arrivato in ritardo, chiese ai compagni dove fossi e quando io rientrai perché qualcuno mi disse che lui mi stava cercando, si avvicinò e mi porse la rosa “Questa è per te, l’ho raccolta da un cespuglio che vedo ogni mattina quando vengo a scuola”. Subito dopo andammo in palestra e la sciocca insegnante di ginnastica, la signora Rosa quando mi vide con quel fiore magnifico in mano, disse che starebbe stato benissimo sulla sua giacca verde, a meno che io non ci tenessi a tenerlo, visto che mi ero fidanzata con Davide. Le porsi la rosa senza dire nulla e andai a saltare alla cavallina, cosa che mi terrorizzava ma che la mia amica Giorgia mi aveva insegnato. Davide piaceva tantissimo anche a lei ma se ne disamorò quando lui la sfidò a dargli un pugno nello stomaco dopo aver nascosto sotto il maglioncino, lo schienale di una sedia che aveva smontato poco prima.

Quando la lezione di ginnastica finì mi attardai nello spogliatoio, aspettai che le compagne sciamassero in classe seguite dalla stupida signora Rosa che aveva aiutato una ragazzina imbranata a saltare e questa si era aggrappata al suo bavero e la mia povera rosa si era spetalata ed era finita in macerie sul pavimento.

Raccolsi tutti i petali e li nascosi nella borsa da ginnastica, Davide non mi chiese nulla della rosa né io gli raccontai quanto era accaduto.

Una volta a casa incollai tutti i petali nel mio diario di undicenne, e alcuni li usai per tracciare un cuore e scrissi i nostri nomi accanto.

Fu quella primavera che imparai a memoria i Sonnets à Hélène di Pierre de Ronsard e mi chiedevo, quando la recitavo per imprimerla nella mente, se un giorno avrei provato le emozioni descritte dal poeta, non tanto il rifiuto della bella Hélène, ma il rimpianto della giovinezza che il poeta sapeva che un giorno lei avrebbe provato.

Le rose del tempo presente di Ronsard diventarono un tutt’uno con la mia rosa smembrata.

Le rose sono onnipresenti nelle mie poesie, le rose reali, quelle metaforiche, quelle poetiche e quelle solo immaginate.

Dopo la fine di quell'anno scolastico non ho mai più visto Davide, la sua famiglia si era trasferita in un altro quartiere. Si ripeteva la perdita che avevo già subito con Laura alle elementari. Così, di nascosto da tutti, avevo cercato il suo numero di telefono e lo avevo trovato. Con il batticuore ero andata in una cabina telefonica a gettoni e avevo telefonato. Mi rispose suo fratello maggiore Egidio. Davide non era in casa, era uscito con suo padre e sarebbe rientrato più tardi. Gli chiesi di dirgli che Elena aveva chiamato. Pensavo che quella rosa avrebbe tenuto saldo il nostro sentimento. Ma Davide non richiamò e io non feci altri tentativi di cercarlo. Qualche tempo dopo decisi di distruggere il mio primo diario d’infanzia. Ma quando arrivai alle pagine con il cuore di petali rossi ormai essiccati, le strappai e le misi da parte, in un’agenda che diventò il mio secondo diario qualche anno dopo.

Quel che resta della rosa è solo il suo nome e l’ombra del suo profumo “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Il libro di Eco sarebbe stato pubblicato qualche anno dopo e quando arrivai alla fine del romanzo, il latino studiato alle scuole medie mi fece comprendere il senso dell’ultima frase de Il nome della rosa.

La mia seconda lingua d’elezione, il francese, nasce in me durante quell'anno e la passione è cresciuta insieme alla passione per Davide.

Dopo Ronsard ci fu Villon con le sue belle dame e le nevi del tempo passato. E poi, alla rinfusa, Marcel Proust, Guy de Maupassant, Gustave Flaubert, Emile Zola, Honoré de Balzac, Victor Hugo, i due Alexandre Dumas, Madame de Lafayette, Denis Diderot, Michel de Montaigne, il marchese de Sade, Benjamin Constant, Gautier, Anatole France, André Gide, André Malraux, Colette, Simone de Beauvoir, Jean Paul Sartre, Jean Genet, Violette Leduc, Guillaume Apollinaire, Jacques Prévert, Paul Valery, Louis-Ferdinand Céline, Albert Camus, Jean Grenier, Marguerite Yourcenar, Julia Kristeva, Charles-Ferdinand Ramuz, Marie Cardinal, Emmanuèl Carrère, i poeti Yves Bonnefoy e Philippe Jaccottet, Philippe Dijan, Françoise Sagan, Marguerite Duras, Nathalie Sarraute, Jean Giono, Milan Kundera, Patrick Modiano, Raymond Queanau, Saint-John Perse, Kenizé Mourad, Pascal Quignard, Lydie Salvayre, Danielle Dallenave, Irène Némirovsky, Agota Kristof, Anaïs Nin, Henri-Pierre Roché, Romain Gary, Andreï Makine, Henri Troyat, Albert Cohen e tutti gli altri che ora sfuggono da questa mia lista francese.

L’ombra dei mirti e delle rose, le belle dame e le nevi del tempo passato vivono in noi, nelle nostre parole.

Ecco il primo Sonnets che so ancora a memoria, “par coeur” come si dice in francese.

Quand vous serez bien vieille, au soir, à la chandelle,
Assise auprès du feu, dévidant et filant,
Direz, chantant mes vers, en vous émerveillant:
“Ronsard me célebrait du temps que j’étais belle”
Lors, vous n’aurez servante oyant telle nouvelle,
Déjà sous le labeur à demi sommeillant,
Qui au bruit de Ronsard ne s’aille réveillant,
Bénissant votre nom de louange immortelle.
Je serai sous la terre, et, fantôme sans os,
Par les ombres myrteux je prendrai mon repos:
Vous serez au foyer une vieille accroupie,
Regrettant mon amour et votre fier dédain.
Vivez, si m’en croyez, n’attendez à demain:
Cueillez dès aujourd’hui les roses de la vie.


Quando sarete molto vecchia, di sera, alla luce della candela,
seduta accanto al fuoco, dipanando e filando,
direte, recitando i miei versi e meravigliandovi:
“Ronsard mi celebrava quando ero bella”

Allora non ci sarà serva che ascoltando questa storia,
già mezza addormentata sul suo lavoro,
che al nome di Ronsard non si sveglierà e
benedirà il vostro nome di lodi immortali.

Io sarò sotto terra e, fantasma senza ossa,
all'ombra dei mirti mi riposerò:
voi sarete una vecchia rattrappita,

che rimpiangerà il mio amore e il suo fiero sdegno.
Vivete, se volete credermi, non aspettate domani:
cogliete subito oggi, le rose della vita.

(la traduzione di fretta è mia, se vi interessa ce n’è una di Mario Praz, ma mi sembrava fatta in un italiano desueto)

1 commento:

Unknown ha detto...

Tenerezza e delicatezza sono ll leitmotiv del racconto odierno. I tuoi ricordi risvegliano seppur nelle differenze anche i miei ricordi per un periodo che ha plasmato la personalita