venerdì 30 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/236: Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria

 

Cerco ogni giorno il bello del mondo dentro e fuori di me. Mi guardo intorno, leggo e rileggo, mi lascio trasportare dalle onde della poesia, a volte mia, molto più spesso di altri. Così, oggi mi sono imbattuta in questa poesia della neo-premio Nobel per la letteratura Louise Glück.

 

 

 

Nostos

 

C’era un melo nel cortile –

saranno forse

quarant’anni fa – dietro,

solo prati. Ciuffi

di croco nell’erba umida.

Stavo a quella finestra:

fine aprile. Fiori di primavera

nel cortile del vicino.

Quante volte, davvero, l’albero

è fiorito nel giorno del mio compleanno,

il giorno esatto, non

prima, non dopo? L’immutabile al posto

di ciò che si muove, di ciò che evolve.

L’immagine al posto

della terra inarrestabile. Che cosa

so di questo luogo,

il ruolo dell’albero per decenni

preso da un bonsai, voci

che vengono dai campi da tennis –

Terreni. L’odore dell’erba alta, tagliata di fresco.

Quello che uno si aspetta da un poeta lirico.

Guardiamo il mondo una volta, da piccoli.

Il resto è memoria.

 

 

In questi versi che trovo belli è l’ultimo verso più di tutti che mi colpisce e impone una domanda: ma è vero che guardiamo il mondo solo una volta da bambini e che il resto è memoria?

Credo che, scientificamente, sia vero perché l’atto della visione è una continua ricostruzione a partire da quanto abbiamo già veduto e memorizzato nel corso del tempo. Se un piccolo trauma rende cieco uno dei due occhi, accorgersene non è immediato perché il cervello ricostruisce ciò che l’occhio non vede.

Ma non sono le implicazioni delle neuroscienze a interessarmi di questi versi, ma il portato umano e poetico.

Il mondo è nuovo solo una volta, ma quella sola volta ci fa amare uno specifico paesaggio cui torneremo con nostalgia per tutta la vita.

La ripetizione dell’atto del guardare, visto come funziona il nostro cervello, rafforza la dimensione mnemonica. Ma è sempre quella prima volta che ci modella lo sguardo e rimane in noi come un marchio indelebile.

Lo sguardo è il senso più implicato nello scrivere poesia, il tatto, cioè le mani, segue a ruota. I polpastrelli sfiorano una tastiera, le dita impugnano una penna. Il terzo senso è l’udito perché le parole devono cantare nel nostro orecchio interiore e tessere, sillaba dopo sillaba, quel ritmo unico che rende parole allineate con molti a capo, una poesia.

L’olfatto e il gusto sono sollecitati in maniera minore e sono tramitati dalla memoria o sollecitati da un fattore esterno che sollecita la memoria che, così, riporta a galla qualcosa di perduto, qualcosa che non sapevamo più di sapere.

Così il piacere delle prime cose possiamo ricordarlo ed evocarlo grazie ai molto strumenti umani che, nel corso della storia, hanno potenziato i nostri sensi: la pittura, la scultura, il disegno, la fotografia, la poesia, il canto, la musica, la scrittura, la letteratura, il cinema, la Rete.

Tutte le nostre produzioni artistiche ci riportano a quello sguardo primigenio che ha suscitato in noi lo stupore di essere nel mondo e di essere mondo.

Un essere mondo che colloca noi e i nostri manufatti artistici in un preciso tempo, cioè in uno spazio dove lo sguardo della prima volta resterà eternamente.

Poi ci saranno solo ripetizioni, infinite, perché le tecnologie permettono di riprodurre all’infinito quella materia diventata arte, quello sguardo che si è incarnato in un’opera umana che andrà oltre la vita breve di ogni creatore.

L’arte è la più grande sfida al tempo che noi umani abbiamo mai lanciato. Il tempo ci consuma  e ci lascia naufragare sulle rive dell’eternità. Ma non così le nostre opere, perché crediamo fermamente alla sopravvivenza di ciascuna di esse e alla sopravvivenza della nostra anima in esse.

E anche per questo che continuo a scrivere queste Cronache, giorno dopo giorno. In queste parole rimane qualcosa di me e di quel mondo che ho veduto per la prima volta.

 

Oggi è il trentesimo giorno di ottobre dell’anno senza Carnevale, un anno che sarà solo il primo degli anni senza Carnevale? Vorrei che non fosse così, ma temo che lo sarà. Il titolo della Cronaca, nonché verso della poetessa, li ho letti sul sito del Post e ho seguito il link per arrivare a leggere l’intera poesia tradotta da Claudio Giunta. Di seguito la versione originale.

 

Nostos

 

There was an apple tree in the yard —

this would have been

forty years ago — behind,

only meadows. Drifts

of crocus in the damp grass.

I stood at that window:

late April. Spring

flowers in the neighbor’s yard.

How many times, really, did the tree

flower on my birthday,

the exact day, not

before, not after? Substitution

of the immutable

for the shifting, the evolving.

Substitution of the image

for relentless earth. What

do I know of this place,

the role of the tree for decades

taken by a bonsai, voices

rising from the tennis courts —

Fields. Smell of the tall grass, new cut.

As one expects of a lyric poet.

We look at the world once, in childhood.

The rest is memory.

 

Louise Glück, Meadowlands, Harper Collins, New York 1996.


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