domenica 25 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/231: le case sono calamai infestati e la memoria una pagina bianca

 


Di cosa parlano le case quando siamo lontani? Come hanno fatto ad abituarsi alla nostra presenza inquieta in questi otto mesi?

Le case vivono e respirano forse meglio senza di noi? Siamo forse animali infestanti che le case sopportano perché non possono fare altro?

Il nuovo semi lockdown, decretato proprio oggi, mi porta a fantasticare intorno alle nostre povere case che sono costrette a diventare le dimore del nostro scontento.

In una intervista di qualche anno fa le due scrittrici Elena Stancanelli e Edna O’Brien parlavano proprio di case e la O’Brien citava Joyce:

Una volta il grande James Joyce ha detto una cosa meravigliosa. Lui e la sua famiglia, a causa delle difficoltà economiche, erano costretti a spostarsi spesso e a scappare dalle case di notte quando non riuscivano più a pagare l'affitto. Disse che le case sono dei "calamai infestati". Questa bella metafora per dire che ogni casa in cui aveva vissuto era anche la casa della sua mente, del suo immaginario e di conseguenza la casa delle storie della sua scrittura”.

Se le case sono i “calamai infestati” della letteratura, cosa sono l’inchiostro e cosa le pagine bianche?

L’inchiostro è il flusso della nostra vita, l’oscuro intruglio dove si mescolano incontri e relazioni, luoghi e oggetti.

Le pagine bianche sono la nostra memoria, so che è controintuitivo immaginarla così, ma la memoria è un processo, un mosaico di immagini, sensazioni, suoni, che andiamo a riscrivere ogni qual volta un agente esterno ci sollecita o noi riportiamo alla mente un ricordo più o meno composito.

Così, continuo con la mia immaginazione delle case che parlano, prima di tutto con se stesse, appartamento dopo appartamento, finestra dopo finestra, palazzo dopo palazzo.

La pandemia ha fatto saltare completamente l’uso abituale degli spazi e dei luoghi e il nostro stare in ogni dove.

È necessario scrivere una poetica degli uffici e una per le case. Un trattato della scrivania e uno delle camerette. I luoghi che cambiano uso e funzioni e il nostro modo di abitarli e viverli. Questo vale per ogni spazio degli uffici e delle case, quindi continuo a rimuginarci sopra e ne scriverò.

Quando alberi e caverne non sono più bastati alla nostra specie, abbiamo costruito capanne e palafitte, case di terra e poi di pietra e di mattoni. Ci siamo riparati dalla notte e dai suoi pericoli, dagli agenti atmosferici, dai nemici, dalle bande armate, dal fuoco.

La potenza simbolica delle case esplode in ogni senso guardando i documentari dedicati ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Distruggere il nemico significava distruggere il luogo dove tornare, rendere impossibile il ritorno, distruggere la memoria e gli odori della casa natale che, sono certa, ciascuno di noi porta in sé.

Ora la pandemia e i provvedimenti dei governi ci consegnano a un eccesso di memoria delle case, alla perdita dei luoghi di socializzazione tipici della nostra civiltà contemporanea: le piazze, i centri commerciali, le scuole, gli uffici, i teatri, i cinema, i bar e i ristoranti.

Ci vorranno decenni per arrivare a capire gli effetti di questo stravolgimento nella nostra psiche, non tanto la nostra di baby-boomers attempati, ma nella mente delle giovani generazioni.

Psicologi, psichiatri e psicanalisti, sociologi, filosofi e antropologi, poeti, scrittori e registi, mi auguro che saranno, saremo, all’altezza di questa sfida, di questa ricerca di senso e di nuova progettazione delle nostre vite.

Ho continuato a scrivere la mia Cronaca quotidiana perché ero certa che la fine del primo lockdown non fosse la fine della pandemia e mi hanno stupito i molti scrittori e giornalisti che sono andati di corsa a pubblicare i loro diari e resoconti, come se tutto fosse già stato detto e vissuto.

Così oggi sono arrivata alla Cronaca 231, scritta l’ultima domenica di ottobre dell’anno senza Carnevale. Sono un po’ preoccupata, un po’ triste, ma non preda della “pandemic fatigue”, la tristezza da Covid descritta dall’OMS qualche giorno fa. E proprio per questo credo che ora più che mai dobbiamo tenere i nervi saldi e occuparci del nostro corpo e della nostra mente, come suggerisce in un bel post su FB il filosofo e scrittore Simone Regazzoni.

Il fuoco è acceso, il tè fuma nelle tazze e i libri sono ben impilati sul tavolo da lavoro. Posso continuare la mia giornata, intenta e seria, come un gatto che fa le fusa.

La citazione di Edna O’Brien è un frammento dell’intervista con Elena Stancanelli, Repubblica, sabato 7 dicembre 2013.


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