Di cosa parlano le case quando siamo lontani? Come hanno fatto ad abituarsi alla nostra presenza inquieta in questi otto mesi?
Le case vivono e respirano forse meglio senza di noi? Siamo forse animali infestanti che le case sopportano perché non possono fare altro?
Il nuovo semi lockdown, decretato proprio oggi, mi porta a fantasticare intorno alle nostre povere case che sono costrette a diventare le dimore del nostro scontento.
In una intervista di qualche anno fa le due scrittrici Elena Stancanelli e Edna O’Brien parlavano proprio di case e la O’Brien citava Joyce:
“Una volta il grande James Joyce ha detto una cosa meravigliosa. Lui e la sua famiglia, a causa delle difficoltà economiche, erano costretti a spostarsi spesso e a scappare dalle case di notte quando non riuscivano più a pagare l'affitto. Disse che le case sono dei "calamai infestati". Questa bella metafora per dire che ogni casa in cui aveva vissuto era anche la casa della sua mente, del suo immaginario e di conseguenza la casa delle storie della sua scrittura”.
Se le case sono i “calamai infestati”
della letteratura, cosa sono l’inchiostro e cosa le pagine bianche?
L’inchiostro è il flusso della nostra
vita, l’oscuro intruglio dove si mescolano incontri e relazioni, luoghi e
oggetti.
Le pagine bianche sono la nostra
memoria, so che è controintuitivo immaginarla così, ma la memoria è un processo,
un mosaico di immagini, sensazioni, suoni, che andiamo a riscrivere ogni qual
volta un agente esterno ci sollecita o noi riportiamo alla mente un ricordo più
o meno composito.
Così, continuo con la mia
immaginazione delle case che parlano, prima di tutto con se stesse,
appartamento dopo appartamento, finestra dopo finestra, palazzo dopo palazzo.
La pandemia ha fatto saltare
completamente l’uso abituale degli spazi e dei luoghi e il nostro stare in ogni
dove.
È necessario scrivere una poetica degli
uffici e una per le case. Un trattato della scrivania e uno delle camerette. I luoghi
che cambiano uso e funzioni e il nostro modo di abitarli e viverli. Questo vale
per ogni spazio degli uffici e delle case, quindi continuo a rimuginarci sopra
e ne scriverò.
Quando alberi e caverne non sono più
bastati alla nostra specie, abbiamo costruito capanne e palafitte, case di
terra e poi di pietra e di mattoni. Ci siamo riparati dalla notte e dai suoi
pericoli, dagli agenti atmosferici, dai nemici, dalle bande armate, dal fuoco.
La potenza simbolica delle case
esplode in ogni senso guardando i documentari dedicati ai bombardamenti della
Seconda Guerra Mondiale. Distruggere il nemico significava distruggere il luogo
dove tornare, rendere impossibile il ritorno, distruggere la memoria e gli
odori della casa natale che, sono certa, ciascuno di noi porta in sé.
Ora la pandemia e i provvedimenti dei
governi ci consegnano a un eccesso di memoria delle case, alla perdita dei
luoghi di socializzazione tipici della nostra civiltà contemporanea: le piazze,
i centri commerciali, le scuole, gli uffici, i teatri, i cinema, i bar e i ristoranti.
Ci vorranno decenni per arrivare a
capire gli effetti di questo stravolgimento nella nostra psiche, non tanto la
nostra di baby-boomers attempati, ma nella mente delle giovani generazioni.
Psicologi, psichiatri e psicanalisti,
sociologi, filosofi e antropologi, poeti, scrittori e registi, mi auguro che
saranno, saremo, all’altezza di questa sfida, di questa ricerca di senso e di nuova
progettazione delle nostre vite.
Ho continuato a scrivere la mia
Cronaca quotidiana perché ero certa che la fine del primo lockdown non fosse la
fine della pandemia e mi hanno stupito i molti scrittori e giornalisti che sono
andati di corsa a pubblicare i loro diari e resoconti, come se tutto fosse già
stato detto e vissuto.
Così oggi sono arrivata alla Cronaca
231, scritta l’ultima domenica di ottobre dell’anno senza Carnevale. Sono un po’
preoccupata, un po’ triste, ma non preda della “pandemic fatigue”, la tristezza
da Covid descritta dall’OMS qualche giorno fa. E proprio per questo credo che
ora più che mai dobbiamo tenere i nervi saldi e occuparci del nostro corpo e
della nostra mente, come suggerisce in un bel post su FB il filosofo e
scrittore Simone Regazzoni.
Il fuoco è acceso, il tè fuma nelle
tazze e i libri sono ben impilati sul tavolo da lavoro. Posso continuare la mia
giornata, intenta e seria, come un gatto che fa le fusa.
La citazione
di Edna O’Brien è un frammento dell’intervista con Elena Stancanelli, Repubblica,
sabato 7 dicembre 2013.
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