Camminare in
silenzio, nelle strade vuote, come se i marciapiedi fossero la spiaggia con la
bassa marea, sentire la sabbia umida sotto i piedi e il profumo d’autunno farsi
salato e lasciarlo entrare tra quello delle mele e quello del pane appena
sfornato.
Varcare il confine tra la città addormentata e la Casa delle Parole, attraversare il giardino, imboccare il sentiero giù fino al mare e riconoscere le case di quella città, riflesse nelle pozze d’acqua a contendere la luce con i granchi e le stelle marine.
Ordinare i pensieri che hanno accompagnato l’io in corteo e poi lo hanno consegnato ai sogni e alla notte.
Quella notte, averla attraversata così come si esplora una terra sconosciuta, cercando di riportare a qualcosa di noto ogni animale, ogni albero, ogni fiore, ogni persona.
Sapere che, in fondo, nulla è davvero sconosciuto nella notte appena finita, arrendersi alla potenza dei sogni e scegliere di portarne i frammenti nel mondo della veglia.
Il linguaggio dei sogni e della notte dice sempre la verità, parla per sillabe e frammenti perché non c’è un “io” che cuce e unisce quello accade.
È l’io di ciascuno di noi che si piega e siede al telaio del tempo e accetta di fare ordine e creare una sequenza laddove ordine non ce n’è mai stato.
Mi giro a cercare la stella marina rossa nell’ultima pozza d’acqua, ma trovo solo il riflesso della prima stella del mattino che si spoglia di ogni raggio di luce sino a svanire nel nitore dell’alba.
Ci sono momenti in cui sentiamo di appartenere a un tempo che non ha fine, ci abbandoniamo a questa sensazione e non cerchiamo di capire, perché respiriamo all’unisono con l’universo e siamo un atomo che viene dal passato e al contempo la scintilla che illumina il futuro.
L’arte nasce dalle fratture di questi momenti, da una ferita che non sanguina ma lascia colare il miele della creatività.
Ieri sera sono andata con mio fratello Alessandro al cinema Anteo, dove duecento spettatori hanno assistito alla lettura fatta da Nanni Moretti in persona, dei diari degli anni in cui lui stava cercando di girare Caro diario. Lui è uguale al personaggio che interpreta nei suoi film, un po’ come Woody Allen. Finita la lettura c’è stata la proiezione dell’edizione restaurata del film, che avevo visto in sala nel 1993 o 1994, che ha vinto il premio alla miglior regia a Cannes e di cui avevo un ricordo superlativo. Invece, ieri sera, l’ho trovato ancora un bel film, ma irrimediabilmente impregnato dello spirito del tempo. Il capitolo più bello è sempre il primo In vespa, dove Roma è magnifica e struggente, dove lui dice alcune tra le migliori battute della sua filmografia, quel viaggio in una città metafisica termina nel luogo dove venne assassinato Pasolini e quel pellegrinaggio mi ha commosso ancora una volta. Le isole è il capitolo più datato, tra telefoni fissi e televisione, racconta un’Italia che non c’è più ma che è stata il preludio all’Italia odierna, soffocata, come il resto del mondo, dalla tecnologia e dai social media. Niente da dire sul capitolo più personale e drammatico, dove il regista racconta del suo tumore e dei medici che per mesi non hanno capito di cosa si trattasse. Ecco, all’uscita ho pensato che sarebbe stato meglio non averlo rivisto, perché il bel ricordo si è scontrato con il presente.
Le opera d’arte sono figlie, non solo dell’artista, ma dello spirito del tempo che andranno a rappresentare. Poche sono quelle che riescono a valicare lo spazio e il tempo e a riproporsi, generazione dopo generazione, a nuovi sguardi, a nuove orecchie che potranno riconoscersi e sentire di appartenere a un dipinto, una scultura, un film o un libro che nella forza caduca del creatore, riesce a uscire dalla prigione del tempo e parlare con chi è nato secoli dopo.
Quanto era bella Milano ieri sera, con le luci dei grattacieli di Porta Nuova e il quartiere di Brera vivace e molto, molto mascherato.
Stamane il bello era invece l’assenza di esseri umani e delle nostre mascherine. Tiriamo un giorno alla volta tra i fili del nostro arazzo. Ancora non riusciamo a intravedere quale sarà il disegno finale.
Mi rallegro guardando e ascoltando la confusione dei bambini che escono da scuola, è un rumore lieto che mi colpisce da anni due volte al giorno, la prima poco dopo le otto, quando iniziano gli ingressi a scuola.
Posso tornare alle mie carte, ai libri da sistemare. Poi tornerò in riva al mare ad aspettare la prima stella della sera. David, il poeta, mi ha detto che verrà con me.
Questa Cronaca 218 gironzola nel dodicesimo giorno e secondo lunedì di ottobre dell’anno senza Carnevale. La poesia sonnecchia accanto al fuoco: un po’ gatto addormentato, un po’ brace sotto la cenere. Il titolo è la rielaborazione di alcuni versi di Sara Teasdale che suonano così:
“Io ho amato
le ore al mare, le città grigie,
il fragile
segreto di un fiore,
la musica,
le poesie scritte
che mi hanno
dato il cielo per poche ore.”
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